Film

The Phantom Thread (Il filo nascosto)

The Phantom Thread - (2017) di Paul Thomas Anderson con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville. 
Nomination per 6 Oscar (fotografia, regia, miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista, costumi, colonna sonora)

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La prima cosa che ho pensato durante la visione è che questo è uno di quei film che andrebbero proprio visti in lingua originale. È indispensabile infatti a mio avviso per poter
 apprezzare al meglio la recitazione degli eccezionali interpreti farlo attraverso le loro stesse voci. Sapientemente modulate e spesso sussurrate sono esse stesse a creare in gran parte, nel dialogo tra le cose dette e quelle non dette, l’intreccio di questa storia.
Soprattutto il titolo avrebbe dovuto per me essere lasciato in inglese, lingua nella quale mantiene una profondità semantica che nella traduzione io trovo che sfugga.
Il filo di cui si tratta non è infatti solo quello con cui il protagonista, il celebre stilista Reynolds Woodcock, cuce i suoi abiti per l’alta società londinese degli anni '50. È anche quello del discorso che unisce i personaggi apparentemente lontani di questa storia creando un ricamo il cui disegno appare solo alla fine. Ed è anche la linea che unisce i punti della sua vita presente e passata, che si materializzano nella sequenza di messaggi criptici che egli nasconde nelle fodere delle sue creazioni d’alta sartoria.

Ma soprattutto tale filo non è solo “nascosto “. Si tratta proprio di un filo fantasma, che appare e scompare affondando tra la trama e l'ordito, proprio come gli spettri che abitano la mente di Reynolds. A partire da quello dalla madre, per la quale egli nutre un amore che resta morboso ed esclusivo anche nel ricordo e di cui quello per la sorella Cyril è lo specchio. 
Curse, cursed, sortilegio, maledetto, sono termini che tornano spesso nei dialoghi tra i protagonisti, così come quelli per indicare i morti e la morte, temuta e corteggiata al tempo stesso come unica rivelatrice di vita e di affetti.

Nell'esistenza maniacalmente metodica e ritirata di Reynolds appare a un certo punto Alma. Potrebbe essere una delle tante meteore cui si accompagna e l’interesse verso le quali presto svanisce assieme alla perdita della loro capacità di ispirarlo. Ma questa volta sarà diverso.
Alma dimostra subito una tenacia dolce e fortissima per riuscire ad entrare una volta per tutte nel cuore di quest’uomo che adora. E lo farà in un modo davvero sorprendente, che non è senza richiamo alla personalità ambigua, incostante, al tempo stesso arrogante e teneramente infantile di quest’uomo.
Solo alla fine si comprenderà quale sia davvero il gioco tra dominatore e dominato fra i due protagonisti e come possa essere sottile e misterioso il filo del sentimento che può legare all'essere amato.

Con il procedere lento della storia ci appare chiaro che quello che sembrava un raffinato affresco dell'alta società londinese degli anni ’50, con tutti i suoi vizi e le poche virtù, altro non è che un profondo thriller psicologico i cui spazi sono non solo le eleganti e precisissime ricostruzioni di interni d’epoca, ma anche e soprattutto quelli bui dell'anima, che non è mai univoca.


Moon

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Moon
è un film di fantascienza britannico scritto e realizzato da Duncan Jones (figlio di David Bowie) e presentato al Sundance Festival nel gennaio del 2009.
Realizzato in 33 giorni con un budget assai ridotto offre uno scenario di un possibile futuro dello sfruttamento delle risorse spaziali ed umane e al tempo stesso dell'incontro di un uomo con se stesso, le sue memorie e il suo destino.

 

Lo spettatore si trova dall'inizio a vivere l'atmosfera un po' claustrofobica della vita nella base lunare, ma soprattutto è chiamato assieme al protagonista a ricostruire poco a poco i pezzi della vicenda come se si trattasse di un puzzle del quale solo alla fine (e forse nemmeno allora) risulta chiaro il disegno. 

Il film comincia con lo spot pubblicitario delle Lunar Industries: durante il 21° secolo la terra ha conosciuto una grave crisi energetica da cui è uscita cominciando a sfruttare l'elio-3, un isotopo non radioattivo dell'elio presente sulla luna, che viene usato nelle reazioni di fusione nucleare.

La stazione lunare Sarang (parola che in coreano significa amore, in sanscrito pavone e in malay nido), attraverso la quale si controlla il lavoro delle 4 mietitrici che estraggono l'elio-3 dalla polvere lunare e la restituiscono in forma concentrata per essere inviata sulla terra quale prezioso combustibile, è presidiata da un solo astronauta, Sam Bell (Sam Rockwell), impiegato con contratto triennale alla fine del quale dovrebbe ritornare dalla sua famiglia sulla Terra. L'unico suo compagno è il computer parlante GERTY, che nella versione originale ha la voce di Kevin Spacey.

Sam è isolato sul lato oscuro della luna, poiché le radiazioni solari hanno messo fuori uso le comunicazioni con la terra e attende la fine delle ultime due settimane di missione per tornare finalmente dalla moglie e dalla figlia dalle quali riceve solo messaggi registrati. Ma succede un incidente che cambierà il suo destino.
L'isolamento sembra fare brutti scherzi alla sua lucidità, Sam comincia ad avere delle allucinazioni, una delle quali causa uno scontro del suo rover con una mietitrice. Si sveglia all'infermeria ma capisce che qualcosa non va quando gli viene impedito di uscire dalla base per riparare la mietitrice che non funziona più.
Con uno stratagemma riesce a raggiungere il macchinario estrattore e q
uello che vi trova è un altro se stesso ferito che riporta alla base per essere curato. Assieme comprendono di essere cloni generati a partire dal vero Sam Bell in cui sono stati impiantati i suoi ricordi.
Da questo momento i due Sam si impegnano a cercare di smascherare l'operato della Lunar Industries che avrebbe quindi a questo punto isolato volontariamente la base dalla terra.
Lo stato di salute di Sam-1 degenera sempre più. I suoi sintomi sono assimilabili ad avvelenamento da radiazioni, non si sa se indotte o accidentali, in ogni caso coincidono stranamente con la fine del periodo triennale cui ogni clone sembra essere dedicato e dopo il quale viene incenerito.

Scoperto il deposito di cloni e il modo in cui le trasmissioni sono state interrotte (Sam riesce anche a contattare la figlia che ora ha 15 anni dalla quale apprende che la moglie è morta) ai due non resta che trovare il modo di sfuggire a quella che dalla Lunar Industries è chiamata "missione di soccorso", inviata sulla luna formalmente per riparare il guasto alla mietitrice, in realtà per eliminare il corpo del clone coinvolto nell'incidente, in modo che un solo Sam alla volta sia presente sul suolo lunare.

Per salvarsi i due progettano allora di risvegliare un terzo clone da riportare nel rover perché la missione di soccorso trovi il suo cadavere mentre uno dei due Sam tornerà sulla terra attraverso la navicella normalmente utilizzata per spedire il combustibile. Sam-1, visto il deteriorarsi progressivo del suo stato, decide di sacrificarsi al posto del nuovo clone risvegliato, mentre Sam-2 riesce a partire per la terra proprio mentre i soccorsi entrano nella base.
Il viaggio di ritorno di Sam è accompagnato dai commenti dei media in cui si passa dalla messa in accusa della Lunar Industries per crimini contro l'umanità al sospetto che si tratti di "un folle o di un immigrato clandestino".

Alcune scene del film fanno pensare a 2001 Odissea nello spazio: la Luna, il computer GERTY così simile a HAL 9000 , le morti programmate, le ambientazioni retrò della stazione con i corridoi ottagonali, la forma stessa del sarcofago in cui cloni giacciono prima di essere inceneriti, la musica classica utilizzata in molte scene, persino il font sugli schermi e sui pannelli luminosi fanno del film una sorta di tributo al capolavoro di Kubrick.

Magistrale l'interpretazione di Rockwell, cui l'unico altro personaggio a fare da contraltare è un computer.
GERTY è programmato perché alla base tutto funzioni e perché la missione abbia sempre successo, ma soprattutto per prendersi cura di Sam.
In più occasioni contravviene a quelle che sembrerebbero essere direttive non discutibili: quando consente a Sam-2 di uscire per controllare cosa è successo alla mietitrice Matthew, quando digita per Sam-1 la password che gli permette di vedere i messaggi dei Sam che lo hanno preceduto, quando accetta di risvegliare un terzo clone che salverebbe la vita ai due Sam e infine quando suggerisce al Sam sopravvissuto di cancellargli la memoria e farlo ripartire, in modo che nessuno scopra quello che è successo sulla base.

Nel futuro qui disegnato la macchina si rivela alla fine più umana dell'uomo, che è arrivato a servirsi di altri uomini come di macchine.

 

 


Gemma Bovery

Come non rimanere incuriositi, cercando un film da vedere, da un simile titolo, che strizza ironicamente l'occhio alla patetica e sfortunata eroina di Flaubert?
La lettura della sinossi e l'estratto del film sono stati altrettanto invitanti e la visione si è rivelata infine molto gradevole. E' un film che consiglio, molto godibile anche per chi non conosce la trama del romanzo che riecheggia.

Gemma Bovery (2014) è tratto dall'omonimo romanzo di Posy Simmonds, che narra la storia di una coppia inglese che va a vivere in Normandia, là dove Flaubert ha ambientato Madame Bovary
E' una commedia in cui la regista Anne Fontaine dà vita a una serie di personaggi disegnati in modo molto divertente, giocando sulla caratterizzazione di inglesi e francesi e anche con tutta una serie di rimandi e allusioni più o meno esplicite agli eventi e ai personaggi del quasi omonimo romanzo di Flaubert.

 

Protagonista e narratore è Martin (Fabrice Luchini), parigino trasferitosi in Normandia, dove ha ripreso la panetteria del villaggio un tempo gestita dal padre. E' qui che un giorno fa la sua comparsa una coppia di inglesi dai nomi decisamente evocativi, soprattutto per lui, appassionato di letteratura e di Flaubert in particolare: Gemma (Gemma Arterton) e Charlie Bovery (Jason Flemyng). 
Affascinato dalla bella inglese inizia a seguire in modo sempre più ossessivo le vicende dei vicini di casa, che gli appaiono da subito stranamente omologhe a quelle che la povera Emma si trova a vivere circa 150 anni prima.

Il carattere un po' remissivo di Charlie (che è vedovo) e la relazione di Gemma con Hervé, giovane studente di diritto (come il Léon di Emma Bovary) accomunano in modo singolare le due storie, ma ci sono anche altri dettagli che rievocano le pagine del celebre romanzo ottocentesco, come le passeggiate per la campagna in compagnia della cagnetta, i debiti cui la coppia deve far fronte, l'arsenico del veleno per topi da cui costantemente Martin la mette in guardia e persino il "castello" in cui il fantasioso panettiere riesce a immaginarsi il fatidico ballo che tanto si era insinuato nel cuore di Emma, quella vera.  

Ma chi è la vera Emma? 
E soprattutto, chi davvero soffre di bovarismo tra i personaggi della fiction cinematografica? Chi si trova immerso in quello stato di insoddisfazione sul piano affettivo e sociale che si traduce in ambizioni vane e sproporzionate e nella fuga in un mondo immaginario e romanzesco?

Non Gemma, che sembra sfiorare la vita con una leggerezza lontana mille miglia dal bisogno tormentato di Emma di vivere ogni volta qualcosa che non ha. Le somiglianze tra le vite delle due quasi omonime sembrano essere infatti tutte superficiali e si fermano a avvenimenti solo apparentemente simili che alla fine suonano come ironiche coincidenze nello sfilare delle loro vite così lontane.

E' Martin piuttosto ad avere un profondo bisogno di dipingere la vita del piccolo villaggio di provincia a tinte un po' più forti di quanto non lo sia la sua esistenza vagamente sbiadita. Lui stesso si presenta in una sorta di prologo come ormai disincantato di fronte alla realtà di quella campagna che immaginava ben più idilliaca e da cui trova una via di fuga solo nei suoi romanzi e nel fantasticare sulla vita, non sua ma degli altri.

E' lui infine a ricreare, osservandola e persino intervenendo in essa (in mancanza di lettera di addio come quella di Rodolphe a Emma sarà lui a falsificarne una a nome di Hervé), la trama della novella Mme Bovary, che avrà una fine altrettanto tragica della sua antesignana.
Sarà proprio quella fine a sottolineare una volta di più le profonde differenze tra le due donne: Gemma non decide della sua morte ed è solo un bizzarro destino manovrato involontariamente dai tre uomini che la amano a trascinarla con sé. 

Un film a mio avviso piuttosto riuscito, dall'atmosfera coerente e dai personaggi compiuti, una specie di favola un po' tragicomica in cui il sorriso prevale sulla drammaticità dell'esistenza.
Su tutta la vicenda  lo sguardo di Gus, il "bastardo indifferente", come lo chiama Martin: il suo cane, che osserva senza farsi troppe domande il concatenarsi deterministico degli eventi.

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I nostri ragazzi di Ivano De Matteo

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Arrivando alla terza settimana di programmazione in Francia, “Nos Enfants” (I nostri ragazzi) dà ulteriore conferma di quanto il pubblico d’oltralpe sia in sintonia con le opere di Ivano De Matteo, che da sempre ha qui ottenuto un apprezzamento speciale.

E ancora una volta De Matteo riesce a colpire nel segno con questo film che è, come i suoi precedenti, soprattutto uno sguardo sull’uomo e sulla sua complessità.
Uno sguardo penetrante, fatto anche di piani strettissimi e messe a fuoco iperselettive, di occhiate furtive attraverso porte e quinte, che lasciano intendere che la scena è in realtà molto più ampia di ciò che appare, e di riprese che inseguono il punto fermo che non c’è più nella vita dei protagonisti sconvolta da un evento drammatico.

Come già in “La Bella Gente” e ne “Gli Equilibristi" Ivano De Matteo ci racconta cosa diventa l’essere umano, anche quello mosso dalle migliori intenzioni, quando è sconvolto da un evento inatteso, tragico e in questo caso decisamente assurdo.
L’uccisione in modo crudele e violento di una senzatetto da parte di due ragazzi "di buona famiglia" mette in moto una serie di dinamiche nelle vite delle rispettive famiglie, che sono quelle di due fratelli molto diversi, che reagiscono in modo diverso di fronte alla grave colpa dei ragazzi.
La storia più che essere narrata si manifesta allo spettatore attraverso il suo riflesso nelle vite dei personaggi (molto intense le scene in cui i dialoghi lasciano spazio alla splendida colonna sonora, scene che corrispondono alle sequenze in cui i protagonisti si comunicano le decisioni cruciali) come riflessa è spesso l'immagine restituitaci dai numerosi specchi attraverso cui i protagonisti ci appaiono.

Liberamente tratto dal romanzo "La cena" di Herman Koch, a sua volta ispirato a un fatto di cronaca avvenuto a Barcellona nel 2005, “I nostri ragazzi” ci pone davanti, prima ancora che a considerazioni di carattere sociologico e psicologico, al problema del giudizio sul singolo e sulla sua condotta.
E quanto pesano i facili schemi in cui siamo soliti incasellare, spesso nostro malgrado, persone ed eventi risulta chiaro e violento come un pugno nello stomaco nella scena finale, che ci dà al tempo stesso la chiave di lettura dell’intero film.

 

 

 

  


Gli Equilibristi (Les Equilibristes) - un film di Ivano de Matteo

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Ieri sera a Nizza, in avant-première al cinema Rialto, ha avuto luogo la proiezione de Gli Equilibristi di Ivano de Matteo. 

Presentato nella sezione Orizzonti al Festival del Cinema di Venezia, il film, che sarà distribuito in Francia a partire dal 27 febbraio, è reduce dal festival di Bastia dove ha ricevuto numerosi premi, tra i quali anche quello come migliore attore per Valerio Mastrandrea.

"Equilibristi", oltre che un termine evocativo, è anche quello tecnico con il quale gli assistenti sociali definiscono le persone che sopravvivono in una situazione economica così precaria da essere ben oltre la soglia della povertà, anche se non abbastanza, agli occhi dello Stato, per ricevere un adeguato sostegno da parte del sistema.

Giulio, in seguito alla separazione, da una situazione di relativo benessere economico scivola in una sempre più difficile, della quale non riesce a far parola con la ex moglie e i figli. 
Pudore. Questa è la prima parola che viene alla mente nell'assistere a questo film.

E' infatti il pudore, la necessità di mantenere una dignità agli occhi dei figli e del mondo, che spinge il protagonista a tenere nascoste le condizioni sempre più precarie in cui sta versando.
Ed il pudore è anche quello che fa muovere la camera al regista, che si trova quasi suo malgrado a spiarne i movimenti. Incredibilmente delicati  sono i suoi piani di ripresa, in cui si tiene in disparte, come se non volesse infierire mettendo troppo in mostra il dramma umano che si sta svolgendo sotto i suoi occhi.

Numerosissimi sono gli ostacoli che si trovano a filtrare la scena: porte socchiuse, spiragli tra i mobili, griglie, reti, fino all'emblematica scena del cassonetto, dietro il quale il regista, e con lui lo spettatore, quasi si nascondono per seguire i passi di quest'uomo ridotto sempre più all'ombra di se stesso.

Ma i filtri visivi più pregni di significato sono le persone: bambini, teste, corpi, viavai di passanti, c'è sempre qualcuno che ingombra il campo visivo; a questo proposito anche l'uso massiccio dello sfuocato, oltre ad immergere il protagonista nella sua solitudine, crea una separazione di piani molto significativa: le persone sono in tutti i sensi su piani differenti, ognuna immersa nella propria vita, nessuna di loro -nemmeno i cosiddetti amici- si rende davvero conto del dramma che le si sta svolgendo accanto.

E infatti, per nulla secondariamente, questo è anche un film sull'incomunicabilità: non a caso le cortine più dense e invalicabili sono rappresentate proprio dalle persone
L'equilibrismo non è solo economico, ma anche emotivo; a camminare sul filo sono soprattutto i sentimenti: basta un attimo perché smettano di esprimersi e precipitino nel nulla.

Notevoli le interpretazioni degli attori, a cominciare da quella di Valerio Mastrandrea, definito dal regista un "clown senza trucco". Il film è costruito come una parabola dalla commedia al dramma e durante la progressiva metamorfosi economica e emotiva del suo protagonista si assiste anche alla trasformazione dei suoi tratti fisiognomici e della sua postura: lo sguardo si abbassa, le spalle si stringono, la camminata si fa vagabonda come quella di un cane randagio. Fino a quando, nel lungo finale senza parole, Giulio l'equilibrio lo perde per davvero ed è solo per caso se non cade definitivamemente dal filo. 
Un finale intelligente e aperto che smette di raccontare proprio nel momento in cui apre la porta alla comunicabilità.

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Ivano De Matteo al Cinema Rialto - Nizza


 


Buone tradizioni (parte seconda): Santo Stefano in Arcadia

Premessa: questo Natale non è stato molto fortunato; ho perso due braccialetti, ho quasi sfasciato la macchina fotografica, ho lasciato un giubbino (che mi serve) a 500 km di distanza, e mi sono successe altre amenità di vario genere, sulle quali è meglio soprassedere (non ho ancora detto al marco che ho rotto anche il vetro dell'orologio).

Trama: come accade ormai da qualche anno a questa parte nella strada del ritorno dal natale decidiamo di fare tappa alla Cattedrale, l'Arcadia di Melzo.
Sono davvero rarissime ormai le occasioni per potersi recare in questo tempio del Cinema, qui dove l'immagine e il suono regnano nella loro più completa purezza.

Calcoliamo dunque i tempi con precisione (il viaggio poi sarà ancora lungo) assicurandoci comunque un certo anticipo e via.
Arco-Melzo: 2 ore e 16 minuti. In teoria.
Perché al marco verso Brescia viene fame e la sosta all'autogrill si trasforma in un minipranzo. Poco male, siamo ancora nei tempi. Dopo qualche chilometro un pannello ci comunica allegramente la presenza di code per un incidente a Grumello. Bene.
Ok, un quarto d'ora di coda non è insopportabile ma sta compromettendo pericolosamente i nostri piani. Una leggera concitazione da quel momento in poi fa sì che non ricordi più di tanto quello che è successo dopo.

guarda su maps quanto manca. sull'lg non sono capace, 'spetta che metto in funzione l'hotspot, ok collego l'iPhone, dove bisogna uscire? a Caponago. Cavenago? no Caponago. Occhio alla rotatoria hai sbagliato! devi tornare indietro uff... dà a me quel telefono... no, era giusto! Ecco lo sapevo siamo in ritardissimo, no, non ce la faremo mai..... ci mancava solo questa.... non ce la faremo mai, comincia tra 5 minuti, ma perché sono sparite le indicazioni per Melzo???? Ma, questa strada sembra quella per.... ma il film lo fanno anche a Bellinzago? Sì, alla stessa ora. Come si chiamava il centro commerciale? Corte Lombarda? No non mi sembra proprio.... Invece sì, eccolo lì! 

Et in Arcadia Ego.
Non so bene come abbiamo fatto a trovarci all'altro Arcadia senza né prevederlo né volerlo. So solo che siamo entrati in sala mentre finiva l'ultimo spot prima dell'inizio di Sherlock Holmes Gioco d'ombre

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Conclusione: nella sfortuna a volte c'è qualcosa che ti guida alla meta anche se nemmeno te ne stai accorgendo. 


Postfazione: bellissimo il film, fantastica realizzazione, personaggio reinterpretato splendidamente da Robert Downey jr.
Prometto che se il prossimo Natale faranno il terzo episodio partiremo prima (e magari ci fermiamo all'Arcadia di Erbusco!).


La Bella Gente


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Presentato venerdì 4 febbraio in anteprima al cinema Rialto di Nizza La Bella Gente di Ivano De Matteo, è un film italiano che in Italia, dopo essere stato finanziato dal ministero dei beni culturali, non ha trovato distribuzione mentre qui in Francia ha vinto il Gran Prix al festival del cinema italiano di Annecy  e verrà portato nelle sale cinematografiche a partire dal 16 febbraio.

La proiezione è avvenuta alla presenza del realizzatore che al termine ha risposto alle domande del pubblico soffermandosi sui temi più salienti trattati nel film.

La storia è quella di una ragazzina ucraina che si prostituisce su una strada di campagna tra le colline dell'Umbria. Questo è il luogo dove si trova a passare le vacanze estive gran parte della borghesia romana, installata in eleganti casali nella quiete della campagna.

Susanna (Monica Guerritore), una cinquantenne impegnata nel sociale, non riesce a sopportare la vista di Nadja (Victoria Larhcenko) sulla sua seggiolina a fianco della strada, maltrattata da sfruttatori e clienti e decide di "salvarla" portandola con sé assieme al marito Alfredo (Antonio Catania) nella residenza di campagna di famiglia. L'arrivo del figlio Giulio fa scattare una miccia che probabilmente sarebbe comunque esplosa: la sua attrazione per la ragazza è la causa del crollo di tutte le buone intenzioni di Susanna che alla fine la caccerà di casa abbandonandola al suo ovvio destino.

Sul piano sociologico il film traccia un quadro della borghesia di sinistra intrappolata nelle sue ipocrisie e incapace di far corrispondere l'ideologia all'azione. 

Sul piano psicologico il tema è quello dell'altruismo come massima forma di egoismo. O meglio di un certo tipo di altruismo, di quello a termine che dice all'altro "ti aiuto, ma solo fino a quando non diventi un problema per me".  

"Quello che non sopporto è la coscienza" dice Ivano De Matteo, riferendosi alla morale di chi vuole sentirsi buono, ma solo fino a quando colui a cui stai dando non comincia anche a prendere, che si tratti dell'attenzione del figlio, dei propri oggetti o semplicemente dell'ordine delle cose che si è diligentemente creato per sé.

Il film è ambientato quasi interamente nella tenuta di Susanna e Alfredo, un giardino creato e coltivato per essere mostrato, per accogliere gli altri e "dare" ma solo fino al punto in cui questo dono soddisfa un proprio bisogno. 

Le uniche escursioni da parte della ragazza al di fuori di questa prigione d'oro testimoniano già come la perdita della sua corazza risulterà drammatica: la gita fatta con Giulio, in cui vengono cacciati dalla "proprietà privata" mentre fanno il bagno al lago è una piccola mise en abyme dell'intera sceneggiatura e gli sguardi degli uomini al villaggio sono emblematici del linguaggio principale del film. 

Sono soprattutto gli sguardi degli altri ad essere eloquenti: che siano pietosi, amorevoli, sospettosi, rapaci, invidiosi, essi sono sempre traducibili con pensieri egoistici. Ma ci sono anche quelli di Nadja che parla poco ma guarda molto, spettatrice all'inizio smarrita e infine ferita di ciò che la circonda.

I personaggi incarnano delle tipologie forse un po' scontate ma proprio per questo molto rappresentative dell'ambiente che vuole essere ricreato; soprattutto, Nadja è stata -a detta dello stesso autore- volutamente lasciata "pura", nel tentativo di lasciare una speranza, una via d'uscita.

La parabola è infatti decisamente discendente: dopo aver tolto a Nadja la corazza che la difendeva dal mondo -quella fatta di mascara e rossetto che era scivolata piano nello scarico della vasca al suo primo bagno- viene rispedita al mondo più nuda di prima.

I soldi che le vengono dati da Alfredo alla stazione rappresentano la sua parcella. Anche "la bella gente" alla fine l'ha comprata per soddisfare un proprio desiderio, esattamente come ha sempre fatto quella "brutta".


Copia conforme

Copia conforme è il titolo del saggio scritto dall'unico dei protagonisti del film che abbia un nome, James Miller, che in esso sostiene che il valore della copia di un'opera d'arte può essere superiore a quello dell'originale.
E infatti nel momento in cui Juliette Binoche e William Shimell cominciano a recitare una parte nella parte, viene da chiedersi quale tra questi livelli di recitazione sia l'"originale" e quale sia la forma d'arte (o d'artificio) più eccelsa.

In questa storia realtà e finzione si fondono fino a diventare indistinguibili: Kiarostami ama farci perdere tra gli specchi che rimandano quello che vedono i protagonisti e che è inevitabilente riflesso al contrario: allo spettatore è richiesto uno sforzo costante per decodificarlo.
Sforzo che è anche quello dei protagonisti, costretti alla traduzione continua da un codice all'altro. E anche la lingua si fa specchio: dall'inglese iniziale si passa al francese per poi terminare ad un dialogo su due codici diversi che sottolinea l'incomunicabilità della "copia di coppia".

Alla fine poco importa se i due protagonisti fossero o meno realmente una coppia in crisi al quindicesimo anno di matrimonio: la copia conforme ci appare, se non più vera, almeno più artistica dell'ipotetico originale.


 


Gainsbourg (vie héroïque) - Joann Sfar (2010)

Un film di Joann Sfar, interpretato  da Eric Elmosnino, Lucy Gordon, Laetitia Casta.
Una biografia fantasmagorica di Serge Gainsbourg, a partire dai giorni in cui, da bambino a Parigi gli veniva imposta la stella gialla di ebreo e cominciava ad esprimersi nel campo dell'arte, prima figurativa e poi musicale, fino ad arrivare agli anni 80, quando le sue provocazioni, musicali e di cronaca, colpirono il pubblico con il loro spirito sovversivo.

Per tutta la vita Serge Gainsbourg ha sofferto del sentimento di rifiuto per ciò che gli rirmandava di sé lo specchio.
Emblematico a questo proposito il personaggio de la "Gueule" (= brutto muso), figura grottesca immaginaria, sorta di doppio, che lo accompagna lungo il film.
L'autore ne fa una sorta di "anima nera" del cantante, nata dal rifuto della propria immagine che avrebbe pesato su di lui sin da bambino: un alter ego che doveva concentrare su di sé tutte le brutture lasciandone priva la sua parte reale. E infatti solo fascino, arte e bellezza devono aver visto in lui le numerose splendide donne che lo hanno amato: da Brigitte Bardot a Bambou, passando per Jane Birkin, dalla quale avrà la figlia Charlotte
.

L'incontro con Boris Vian è folgorante e dopo aver avvicinato vari generi dal jazz moderno, allo yéyé, Gainsbourg arriva al successo scrivendo per Juliette Gréco e France Gall.
 

Si crea in seguito l'immagine di poeta maledetto e provocatore: Serge dice addio alla Gueule e resta da solo a concentrare su di sé tutte le sue brutture: il nottambulismo, la decadenza fisica, l'alcolismo e gli eccessi gli provocheranno numerose crisi cardiache e alla fine allontaneranno anche Jane da lui.
Gli anni '70 sono quelli più provocatori: dopo canzoni con testi erotici come Je t'aime..... moi non plus, sarà la volta della Marsigliese reggae e dell'album l'Homme à la tête de chou.

 

Il film corre seguendo l'accavallarsi delle donne, degli eventi e delle note lungo la vita di quest'uomo che è stata anch'essa come un'onda che va e che viene.
E' -come dice lo stesso Joann Sfar- una favola che contiene tante verità quante ne sono le invenzioni. A cercare di dar loro un senso è la musica, anch'essa senza contorni come l'onda o il fumo di una sigaretta.