Art

AniManiMism - Michael Fliri

L’esposizione di Michael Fliri alla Galleria Raffaella Cortese di Milano ha come filo conduttore la maschera.
Scultura, installazione, video, performance, fotografia, qualunque sia il mezzo scelto dall'artista, in questi lavori si tratta sempre di penetrare quella terra di nessuno che è l'involucro che ci separa dal resto del mondo.

Where do I end and the world begins  è il titolo della parte di esposizione che riguarda una serie di maschere in polvere di ceramica che sono per l'appunto la materializzazione del nostro confine, di quell’intercapedine sottilissima che ci separa da tutto ciò che è altro da noi. 
Le sculture sono tutte il risultato di un doppio calco (concavo e convesso) di maschere etniche (più una tra quelle in negativo che è il ritratto dell'artista) provenienti dal Mask Museum di Diedorf in Germania.
Il confine tra sé e il mondo si concretizza qui nello spessore di materia che separa la maschera convessa che mostra la parte esterna di noi al mondo e quella concava che aderisce alla nostro io interno, quello che è diverso per definizione, che nessuno vede ma che ci definisce a noi stessi. 

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My Private Fog
 è una serie di fotografie che prosegue questo tema volto-maschera. L'artista dopo aver modellato del materiale plastico trasparente sulla forma di sassi e concrezioni rocciose che ricordano gli scenari ghiacciati delle montagne della regione di cui è originario (l'Alto Adige), ritrae se stesso nell'atto di coprirsi il volto con questa sorta di membrana. La nebbia è quella del suo stesso respiro, che è la materia in questo caso volatile che si frappone tra l'individuo e il mondo.

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Le sculture della serie Gloves richiamano anch'esse la maschera, nelle forme fatte prendere dalle mani per coprire il viso, un po' come nei giochi dei bambini che nella maschera cercano la metamorfosi del sé, il cambiamento, la crescita. 
 
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E la metamorfosi è protagonista anche della video installazione a quattro canali AniManiMism. Il titolo, che dà il nome anche alla mostra, gioca con le parole che fanno riferimento da un lato all'animazione e al mimetismo dall'altro alle mani, all'anima e al sé. Nei quattro video proiettati contemporaneamente, ciascuno con una colonna sonora che si intreccia in modo molto evocativo con le altre, la mano dell'artista fa danzare una maschera in materiale trasparente in modo da creare un gioco d'ombre e di forme di notevole forza evocativa.

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La mostra è visitabile presso la Galleria Raffaella Cortese in via Stradella 1-4 a Milano fino al 28 luglio (martedì – sabato h. 10:00 – 13:00 / 15:00 – 19:30 e su appuntamento).


Gianluigi Colin - Sudari

All'esposizione di Gianluigi Colin presso la Triennale di Milano, terminata il 10 giugno scorso, abbiamo avuto il privilegio di essere stati introdotti dall'artista medesimo, che ci ha presentato personalmente il suo lavoro.

Siamo entrati "vergini" nella sala che ospitava l'esposizione Sudari, volutamente impreparati rispetto a quello che avremmo visto. E l'artista ci ha chiesto dapprima di girare per la stanza, di guardare, toccare, osservare da vicino le grandi tele colorate che vi erano esposte.
Sedici quadri più un dittico di dimensioni inferiori. Si tratta all'apparenza di grandi composizioni di pittura astratta dai colori accesi su sfondo per lo più azzurro.
"Cosa vi sembrano?"
Ricordo di aver risposto "impronte", ma non so se più per la suggestione data dal titolo della mostra o dall'effettivo ripetersi quasi meccanico delle tracce di colore su quelle superfici.
"Perché questi quadri non li ho fatti io".

Queste opere straordinarie rappresentano in effetti la massima espressione dell'arte concettuale in quanto, pur avendo in tutto e per tutto l'aspetto di quadri sono in realtà oggetti che l'artista decontestualizza e rielabora sfruttandone il lato estetico e significante in modo profondo e poetico.

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Colin, giornalista e art director del Corriere della Sera, ha infatti raccolto e selezionato porzioni di rotoli di tessuto assorbente, utilizzate per pulire le rotative dopo che il quotidiano è andato in stampa.
Quello che resta impresso sulla tela è dunque non solo una traccia, ma soprattutto uno scarto. È quello che rimane della notizia, è il rifiuto che si sedimenta sulla tela come nella nostra memoria, dopo che il presente della cronaca svanisce e viene dimenticato.


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In quei segni meccanici, in quel linguaggio cifrato che non importa affatto di decrittare perché si svincola esteticamente dagli eventi che i vari articoli riportavano in origine, c'è la persistenza della nostra memoria, quella a breve termine, quella che si appropria dei fatti per conservarne alla fine, in fondo alla coscienza, solo delle macchie colorate.
Tutto ciò che avviene in un giorno, tutte le passioni, i drammi e le speranze scorre via lasciando, come dice Bruno Corà, curatore della mostra, solo "l'eco visiva del dissolvimento di ogni residuo di comunicazione"


Holes in the Historical Record - William E. Jones

La mostra Holes in the Historical Record di William E. Jones è visitabile fino al 28 luglio al numero 7 di via Stradella a Milano, uno dei punti espositivi della Galleria Raffaella Cortese.

Servendosi di documenti della Library of Congress di Washington relativi ad uno studio fatto per documentare la recessione agricola avvenuta in America tra il 1935 e il 1944, l'artista seleziona volutamente gli scatti scartati e censurati, quelli che per motivi a noi ignoti non rispondevano ai criteri richiesti. Le fotografie ritenute inadeguate venivano denominate "killed" e forate in modo da non poter essere più utilizzate.
Quello che Jones qui realizza è dunque soprattutto un atto di rinascita. Lungi dall'essere state davvero uccise queste fotografie non solo riportano in vita la realtà agricola americana di quegli anni, ma ambiscono a far rinascere ciò che era stato dato per spacciato. E lo fanno attraverso un buco nero dal quale la luce che ha un tempo impressionato la pellicola tenta ora, contro ogni legge della fisica, nuovamente di uscire.

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Jones si serve di queste immagini in modo interlocutorio. Uniformando la posizione e la grandezza del foro egli fa di quest'ultimo una costante che si installa sull'immagine come un punto interrogativo.
R
icostruire a questo punto non è più necessario, la risposta non risiede nell'immagine completa ma proprio in quel buco, nell'assenza che diventa presenza ricorrente.

Nel video che completa l'installazione esso è il punto da cui nascono e muoiono una ad una le immagini reiette: create dal vuoto ne vengono successivamente riassorbite in una sequenza ipnotica che in qualche modo documenta il lato ignoto della storia.

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I dittici e i trittici indagano, nella ricorrenza della parte mancante, temi dai risvolti poeticamente significativi.


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Per saperne di più sull'artista: williamejones.com


Atlas - Esposizione alla Torre della Fondazione Prada a Milano

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La Torre della Fondazione Prada è stata aperta al pubblico nell'aprile scorso: 60 metri di cemento, la sua architettura è già di per sé una realizzazione straordinaria, dalla varietà spaziale talmente ampia da far porre al visitatore più di una domanda sull'orientamento e la disposizione degl spazi, che sono così articolati da poco corrispondere alle forme di una costruzione che dall'esterno appare di una regolarità e semplicità ineccepibli.

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Sei piani della torre sono dedicati alla mostra "Atlas", che rende fruibili le opere 
della Collezione Prada che comprende artisti come Carla Accardi e Jeff Koons, Walter De Maria, Mona Hatoum ed Edward Kienholz and Nancy Reddin Kienholz, Michael Heizer e Pino Pascali, William N. Copley e Damien Hirst, John Baldessarri e Carsten Holler. Negli altri tre si trovano il ristorante, i servizi e i bar, tutti spazi che a loro volta sono stati allestiti e decorati in modo da amalgamarsi con le sale espositive.

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La prima di queste si trova al secondo piano. Qui si è accolti dai Tulips di Jeff Koons (1995-2004), tulipani giganti in acciaio dipinto. Una struttura incredibilmente leggera, nonostante il volume, forse proprio per  le linee in espansione, per quell'aspetto di oggetti in cui è stata insufflata dell'aria, e anche per quei colori accesi che assimilano l'opera a un enorme gioco per bambini.

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Salendo alla sala 2, si trova l'installazione Bel Air Trilogy (2000-2001) di Walter De Maria: tre Chevrolet Bel Air del 1955 con tre barre d'acciaio a sezione rispettivamente circolare, quadrata e triangolare, che trapassano longitudinalmente le vetture. Penetrate senza essere deformate in alcun modo, le macchine perdono la loro funzione, ma non la loro bellezza, mentre l'osservatore accusa il colpo, come se fosse a sua volta trafitto.

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La sala 3 ospita alcune delle opere che più mi sono piaciute tra tutte quelle esposte. Si tratta dell'installazione Remains of the Days (2016) e di Pin Carpet (1995), entrambi di Mona Hatoum.
Nella prima i resti combusti di una serie di mobili disposti come se fossero nei loro ambienti, sembrano fissarsi in un istante eterno di consunzione. Una fine rete metallica ricorda quella che doveva esserne la forma, mentre dei frammenti carbonizzati sfuggono dalle maglie.

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La seconda imita in tutto e per tutto le sembianze di un morbido tappeto, ma quelli che sembrano a prima vista soffici crini si rivelano essere in realtà spilli in acciaio. Il mimetismo della materia è qui perfettamente realizzato, come anche il fulcro semantico che parla di piacere, dolore e della loro dissimulazione.

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L'ampia sala 4 ospita opere di Pino Pascali: Pelo (1968) e Meridiana (1968). L'utilizzo di un materiale insolito come il peluche conferisce alle opere un 
aspetto ironico che contrasta con le geometrie di quelle appese alle pareti e posate al suolo.

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La successiva sala espositiva è due piani più sopra. Qui toviamo opere di William N. Coopley e l'installazioneWaiting for Inspiration di Damien Hirst: dei grandi cubi trasparenti ricreano ambienti in cui muoiono continuamente delle mosche. L'ossessione per la morte di questo artista arriva qui alla rappresentazione della sua perpetua attualizzazione.

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La sala 6 ci introduce innanzitutto in un corridoio buio, in cui è possibile camminare solo seguendo (fidandosene) un corrimano che procede con un percorso tortuoso. E' il Gantembein Corridor (2000) di Carsten Holler, che ci introduce alla Upside Down Mushroom Room (2000), sempre di Carsten Holler. Una foresta di Amanite Muscarie a testa in giù ci immerge in un'atmosfera fiabesca e allucinatoria, da cui si fa fatica a voler uscire.

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Un'esposizione da vedere e rivedere, per me senz'altro, visto che non avevo a disposizione tutto il tempo necessario per approfondire gli altri spazi della Fondazione Prada e le esposizioni temporanee. Anche il Ristorante e le toilettes sono notevoli e il bar sulla terrazza non era accessibile.

Questa della Torre è in ogni caso un'esperienza da farsi, per i lavori esposti ma anche per il connubio perfetto tra architettura e arti visive, per come gli spazi riescono a crearsi in sé e per sé e attorno alle opere e per come le opere vivono nei volumi che si elevano verso l'alto e respirano davanti alle grandi vetrate che danno su Milano. 



 


Nuit des Musées 2018 - Mamac, Nice

Sabato 19 maggio si è svolta, come da 14 anni a questa parte la Notte europea dei Musei.
Questa iniziativa, che ha come scopo di aprire le porte di sale solitamente adibite all'esposizione anche ad altre tipologie di performance, permette alle arti di incrociarsi tra loro, dando vita a prospettive insolite e ad energie portatrici di nuovi spunti ed intuizioni.
Nove erano i musei di Nizza che prevedevano l'ingresso gratuito e l'apertura serale, oltre ad ospitare eventi come concerti, rappresentazioni, allestimenti speciali, conferenze e performance di danza.
Noi, come l'anno scorso, ci siamo diretti verso il Mamac, il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Nizza, anche se le iniziative erano talmente tante e interessanti che la scelta è stata comunque difficile, ma non ci ha certo delusi.

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Le sale della collezione permanente, che di recente hanno subito una riconfigurazione nell'allestimento, ospitavano diversi eventi e performance di musica e danza. Per quel che riguarda quest'ultima, tre sono stati gli spettacoli che la Compagnie Humaine ha proposto in diversi spazi del Museo.

Tre coreografie che hanno preso vita in forma di dialogo con le opere e l'architettura del museo stesso.
La prima nella sala Yves Klein ha visto musica e danza scivolare attorno al blu dell'artista in una ricerca di spiritualità che vede nel distacco dal suolo la sua espressione più pura.

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La seconda performance nella sala Niki de Saint Phalle ha permesso alle celebri Nanas di questa artista di danzare assieme a un'eterea ballerina seguendo le note di una chitarra elettrica.

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Infine l'ultima esibizione prende le mosse dall'architettura stessa del museo: lungo uno dei corridoi vetrati che collegano le sezioni della sua struttura quadrilatera i due ballerini hanno raccontato una storia di sentimenti intensi, evoluzioni, incontri e perdite. 

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Un assaggio delle loro performance qui:



La serata prevedeva anche la partecipazione del progetto musicale « HHH », creato da tre allievi della sezione elettroacustica del Conservatorio di Nizza, la misteriosa parata equestre Starship, realizzata in occasione dell'esposizione Si c’était à refaire de Renaud-Auguste Dormeuil nella galleria contemporanea e l'accensione della poetica scultura di fuoco Mur de feu di Yves Klein sulla terrazza all'ultimo piano, che chiudeva l'evento poco prima di mezzanotte.

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Esposizione Henjam al Castello del Catajo

Il castello del Catajo,  splendido palazzo cinquecentesco dal bellissimo parco e dai saloni affrescati ricchi di storia e leggende, ospiterà dal 29 aprile fino al 12 maggio un'esposizione di opere Henjam, in occasione della rassegna Emergere in Arte che vedrà altre mostre prendervi vita nei prossimi mesi. Siamo a Battaglia Terme sui Colli Euganei in provincia di Padova in una location davvero eccezionale. Si tratta di una delle dimore storiche europee più imponenti e monumentali: villa principesca, reggia e salotto letterario, di qui sono passati nei secoli nobili e artisti di tutta Europa.

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In queste stesse stanze Henjam ha il piacere di presentare la sua produzione artistica più recente, con qualche excursus verso opere passate ma collegate ad esse per stile e poetica e una digressione riguardante le ultime sculture lignee di Alberto Festi. Il nucleo centrale dell'esposizione è costituito dalle opere della serie Limes (2017). Questi grandi dipinti su juta in cui il dialogo fra mondi inconciliabili sembra sempre sul punto di realizzarsi sono in realtà intimamente legati alle opere su juta del 2003. Oltre al supporto e alla tecnica esse partecipano infatti della stessa capacità evocativa nel creare mondi sospesi tra il presente e l'attesa. Anche qui come in Limes il passaggio non si realizza mai, ma l'universo resta più nudo e metafisico, mentre le più recenti immagini di confine ostentano materia e carnalità.

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Oceano (2017) è un'opera a sé. Questo dipinto grandioso prende le sembianze di una scultura tanto è abitato da un movimento ondoso tridimensionale, a sua volta contenuto dall'acciaio immoto della cornice, in una costante tensione che sembra non risolversi mai.

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Se Oceano è il movimento, La Madre rappresenta le radici. Quest'opera monumentale del 1994 segna l'inizio della collaborazione artistica tra Alberto Festi e Matteo Tonelli. La tensione qui corre da un riquadro all'altro, creata da quello stesso attrezzo che serve appunto a tendere i filari delle viti,  ripetuto per 24 volte con tecniche diverse in altrettanti dipinti cuciti su juta.

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E proprio la tensione, assieme alla capacità evocativa, è il secondo polo su cui ruota l'esposizione. Le ultime sculture di Alberto Festi (2018) completano in questo senso il discorso sull'energia potenziale racchiusa nell'opera d'arte. Potenti, immediate e intense raccontano una realtà dall'evidenza che sorprende per la sua purezza e bellezza assoluta.

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La visita al castello e all'esposizione vi emozionerà. La sintonia tra il fascino un po' decadente dei locali che la ospitano e il potere evocativo di queste opere è davvero perfetta.

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Il castello è aperto nei pomeriggi di martedì, giovedì, venerdì e domenica dalle 15 alle 19.

 

 


Oltre lo Specchio (Barbablù rivisitato)

Oltre lo Specchio è uno spettacolo di Elisa Salvini e Martina Pomari ispirato a La Camera di sangue (1979) di Angela Carter, un racconto che dà anche il nome ad un'intera sua antologia di narrazioni ispirate a celebri fiabe.
Nelle fattispecie La Camera di sangue è la riscrittura della favola di Barbablù di Charles Perrault, che narra la vicenda di un sanguinario uxoricida, ucciso dalla madre della sua ultima giovane sposa proprio un attimo prima di averle tolta la vita.

La trasposizione teatrale ad opera delle due giovani artiste prende la forma del monologo attraverso la voce di Elisa Salvini ed è accompagnata dalla presenza in scena di Martina Pomari che, oltre ad impersonare la sposa bambina, è anche la creatrice dei dipinti che raffigurano le scene e i momenti più intensi della fiaba. Dipinti che vengono modificati e in qualche modo ricreati ogni volta che avviene la rappresentazione.

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Opera della stessa pittrice e grafica  sono anche la locandina e i ritratti delle artiste creati per l'occasione:

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La storia narra la vicenda di una giovane pianista di talento che finisce in sposa ad un vecchio e ricco marchese che non ama. Gli agi in cui vive le fanno comunque accettare le perversioni sessuali dell'uomo, che ella scopre una volta arrivata alla villa.
Un viaggio d'affari, probabilmente simulato, decide infine della sorte della fanciulla, che, anche se avvertita dal marito di non entrare nella stanza segreta di cui le confida tra le altre la chiave, cede alla curiosità per scoprire infine l'orrore: i corpi delle mogli precedenti fanno qui mostra di sé nonché della perversione dell'uomo con cui si trova a condividere la vita.
Sarà la madre della ragazza a salvarla in extremis alla fine del racconto.

L'idea di unire due forme artistiche diverse come la recitazione e la pittura aggiunge una dimensione in più allo spettacolo, che, accompagnato dalle musiche originali della violinista Maya Parisi, ha un potere evocativo tutto speciale.
La superba interpretazione di Elisa, che veste i pani di Barbablù, si sposa con la presenza silenziosa di Martina e delle sue opere, mentre i molti simboli presenti nella narrazione materializzano in qualche modo tutto quello che sulla scena non si vede.
Non si vede perché resta "oltre lo specchio", quello specchio che, oltre a permettere ai protagonisti il riconoscimento di sé, d'un tratto si fa anche porta, passaggio, varco che introduce lo spettatore in un mondo che è fatto di orrore, ma anche, come in ogni fiaba che si rispetti, di salvezza.

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Habitat potentiel pour une artiste - Tatiana Wolska alla Galerie de la Marine

La Galerie de la Marine a Nizza, i cui locali erano nell' '800 dedicati alla vendita del pesce, è uno spazio espositivo speciale. Ogni anno ospita infatti le esposizioni dei giovani artisti laureatisi alla Villa Arson, la scuola nazionale superiore d'arte di Nizza.

Nel 1976 queste sale cominciano ad essere dedicate alle mostre d'arte contemporanea, con l'intento di promuovere i giovani artisti sulla scena nazionale e internazionale.  

Tatiana Wolska, nata nel 1977 in Polonia e diplomatasi alla Villa Arson di Nizza, vive e lavora a Bruxelles e si dedica da 10 anni a progetti di scultura in grande formato legati all'architettura, che giocano con gli oggetti abbandonati che lei taglia, ricostruisce e assembla dando loro nuova vita. Alla Galerie de la Marine  presenta un'opera in legno che si situa tra l'architettura e la scultura abitabile. 
Al tempo stesso installazione e scultura informale Habitat potentiel pour une artiste è innanzitutto il luogo in cui l'artista ha vissuto e lavorato per tre settimane. Attraverso la sua volontà di creare con le sue proprie mani l'artista sfugge alla tentazione minimalista, sfruttando piuttosto i materiali di recupero, che taglia, scava, ricostruisce per dar loro una forma che si avvicina alla costruzione abbandonata o all'architettura d'emergenza.
Senza essere un'ecologista assidua Tatiana Wolska valorizza quello che è a tutti gli effetti un rifiuto.

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Gianfranco Baruchello alla Villa Arson a Nizza

L'esposizione dedicata a Gianfranco Baruchello alla Villa Arson di Nizza è davvero ricca e permette di spaziare tra le opere di questo artista che è quasi impossibile calssificare, vista l'ampiezza dei modi e delle forme in cui ha saputo esprimersi.
Agricoltore, poeta, realizzatore cinematografico e pittore, egli ha spesso prodotto opere incredibilmente avanti con i tempi.

Nato nel 1924 a Livorno ha presto preso le distanze dalle idee filogovernative del padre durante il ventennio fascista. A 19 anni segue lo zio diplomatico in Ucraina, dove comincia a scrivere e disegnare documentando la ritirata dell'esercito italiano dal fiume Don.
Dopo gli studi di Diritto, nel 1962 avviene la sua consacrazione nel mondo dell'arte, quando la sua opera arriva a Parigi in una delle gallerie più importanti della città. Qui conosce Marcel Duchamp di cui diventa amico e collaboratore. 
Seguiranno gli anni di New York: il film ricostruito a partire da frammenti di 47 vecchie pellicole destinate al macero, Verifica incerta (1965), viene presentato al MoMA e al Guggenheim Museum.
Qui conosce anche John Cage e si confronta con la pop art e l'espressionismo astratto americano.

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Nel 1973 inizia l'esperimento di Villa Cornelia, una grande tenuta agricola alle porte di Roma, che parte dal presupposto che ha molto più valore dedicarsi a una terra incolta che occuparsi di teorie politiche e attivismo intellettuale. Ora vi si trova la sede della Fondazione Baruchello, creata assieme alla moglie e che si occupa, oltre che del suo immenso archivio, anche di progetti che riguardano giovani artisti.

Questa di Nizza è la prima retrospettiva dedicata in Francia all'artista livornese.

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Nelle opere esposte si legge soprattutto una poetica del minuscolo, una sorta di frammentazione del linguaggio visivo e verbale che mira in realtà alla dilatazione del mondo. Dettagli, oggetti, parole, frammenti di frasi sono spesso sparpagliati su grandi spazi, nei quali, anziché perdersi, cercano al contrario di costruire, attraverso una grammatica tutta nuova, un codice linguistico e semantico alternativo.

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La sua opera comprende anche dei box showcases montati a muro in cui sono esposti ritagli di carta e oggetti vari.

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Nel filmato seguente, l'artista conversa con il curatore della mostra, Nicolas Bourriaud.
Ciò che emerge è innanzitutto il suo stupore davanti alla lettura fatta delle sue opere, il fatto che un percorso basato sulle idee più che sulla cronologia possa fargli scoprire a 94 anni ancora qualcosa di sé.

 

"mostrare l'idea attraverso la pittura è più complicato che mostrare semplicemente la pittura"


Dominique Ghesquière alla Galerie des Ponchettes a Nizza

Quello di Dominique Ghesquière è al tempo stesso un lavoro di scultura e di installazione. Si tratta di esposizioni effimere in cui l'artista si interroga sulla natura e sulla presenza dell’uomo in essa.
I paesaggi composti uniscono elementi presi dal regno naturale ed altri pazientemente elaborati, ma in modo che non è immediatamente comprensibile distinguerli gli uni dagli altri. L’artista gioca sottilmente con la nostra percezione e il registro dell’illusione, distribuendo nello spazio delle specie ibride, a metà strada tra il naturale e l’artificiale.

Quella ricreata nell'installazione alla Galerie des Ponchettes a Nizza è la quintessenza dell’universo mediterraneo: tronchi cavi che evocano le cortecce dei platani, aghi di pino, onde e un letto di sassi. La purezza degli elementi e delle forme nella loro sobrietà voluta sono sufficienti a evocare il ricordo di un paesaggio e della sua esperienza sensoriale.

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Rideau d’arbres
(2016) Dei tronchi vuoti scandiscono lo spazio della galleria e arrivano attraverso la loro presenza minimale a evocare la presenza dell’albero. La solidità del legno è assente, la densità è suggerita solo dall’alternanza dei colori che non sono quelli della materia ma piuttosto l’illusione che ne giunge ai nostri occhi. La corteccia dei platani è evocata da una sorta di merletto che arriva solo all’altezza dello sguardo di un bambino, richiamando così alla memoria i boschi delle fiabe e dando al tempo stesso l’illusione di una possibile crescita.

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Oiseau
(2014): uno storno impagliato fissato in pieno volo. La sua posizione in verticale con il dorso al muro lo mette in posizione di elevazione ma al tempo stesso di fragilità, visto che espone in questo modo il ventre e il piumaggio più umile.

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Pierres roulées
(2014): dei sassi grigi venati di bianco, tipici dei lungomare sono ammucchiati sul pavimento. L’accostamento di linee bianche crea un insieme di tratti allacciati e di serpentine richiamando l’idea di una rete preesistente poi trasformata in caos dal movimento delle onde del mare.

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Herbes rares
(2017): dei piccoli cespugli appuntiti sono disseminati nello spazio dell’esposizione. Si tratta di composizioni di aghi di pino cucite pazientemente che imitano un oggetto naturale. L’opera oscilla tra fragilità e forza, tra la debolezza della spina singola e la protezione della barriera creata dalla loro unione.

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Vagues
(2017): le linee di sculture in terracotta disegnano degli orizzonti fragili e molteplici. Se la loro materialità e il loro colore evocano la solidità delle montagne, queste forme fluide e basse disegnano allo stesso tempo una successione di onde fissate nel movimento.

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L'esposizione è visitabile alla Galerie des Ponchettes (sezione dedicata alle installazioni e all'arte contemporanea del Mamac) sul Quai des Etats Unis a Nizza fino al 3 giugno.