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February 2018

The Phantom Thread (Il filo nascosto)

The Phantom Thread - (2017) di Paul Thomas Anderson con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville. 
Nomination per 6 Oscar (fotografia, regia, miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista, costumi, colonna sonora)

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La prima cosa che ho pensato durante la visione è che questo è uno di quei film che andrebbero proprio visti in lingua originale. È indispensabile infatti a mio avviso per poter
 apprezzare al meglio la recitazione degli eccezionali interpreti farlo attraverso le loro stesse voci. Sapientemente modulate e spesso sussurrate sono esse stesse a creare in gran parte, nel dialogo tra le cose dette e quelle non dette, l’intreccio di questa storia.
Soprattutto il titolo avrebbe dovuto per me essere lasciato in inglese, lingua nella quale mantiene una profondità semantica che nella traduzione io trovo che sfugga.
Il filo di cui si tratta non è infatti solo quello con cui il protagonista, il celebre stilista Reynolds Woodcock, cuce i suoi abiti per l’alta società londinese degli anni '50. È anche quello del discorso che unisce i personaggi apparentemente lontani di questa storia creando un ricamo il cui disegno appare solo alla fine. Ed è anche la linea che unisce i punti della sua vita presente e passata, che si materializzano nella sequenza di messaggi criptici che egli nasconde nelle fodere delle sue creazioni d’alta sartoria.

Ma soprattutto tale filo non è solo “nascosto “. Si tratta proprio di un filo fantasma, che appare e scompare affondando tra la trama e l'ordito, proprio come gli spettri che abitano la mente di Reynolds. A partire da quello dalla madre, per la quale egli nutre un amore che resta morboso ed esclusivo anche nel ricordo e di cui quello per la sorella Cyril è lo specchio. 
Curse, cursed, sortilegio, maledetto, sono termini che tornano spesso nei dialoghi tra i protagonisti, così come quelli per indicare i morti e la morte, temuta e corteggiata al tempo stesso come unica rivelatrice di vita e di affetti.

Nell'esistenza maniacalmente metodica e ritirata di Reynolds appare a un certo punto Alma. Potrebbe essere una delle tante meteore cui si accompagna e l’interesse verso le quali presto svanisce assieme alla perdita della loro capacità di ispirarlo. Ma questa volta sarà diverso.
Alma dimostra subito una tenacia dolce e fortissima per riuscire ad entrare una volta per tutte nel cuore di quest’uomo che adora. E lo farà in un modo davvero sorprendente, che non è senza richiamo alla personalità ambigua, incostante, al tempo stesso arrogante e teneramente infantile di quest’uomo.
Solo alla fine si comprenderà quale sia davvero il gioco tra dominatore e dominato fra i due protagonisti e come possa essere sottile e misterioso il filo del sentimento che può legare all'essere amato.

Con il procedere lento della storia ci appare chiaro che quello che sembrava un raffinato affresco dell'alta società londinese degli anni ’50, con tutti i suoi vizi e le poche virtù, altro non è che un profondo thriller psicologico i cui spazi sono non solo le eleganti e precisissime ricostruzioni di interni d’epoca, ma anche e soprattutto quelli bui dell'anima, che non è mai univoca.


Visita alla Thalès Alenia Space di Cannes Mandelieu

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È grazie all'associazione Parsec, che organizza anche tutte le attività dell'Astrorama, che abbiamo potuto partecipare a questa visita guidata della fabbrica Thalès Alenia Space di Cannes.
In questi stabilimenti che sorgono proprio sul lungo mare di Cannes La Bocca e che hanno una lunga e interessantissima storia si costruiscono oggi satelliti per l'osservazione terrestre, per i quali l'azienda resta ad oggi ancora il leader, nonostante la concorrenza di Airbus, e di altri costruttori statunitensi, cinesi, arabi e russi.

Attualmente il direttore è Pierre Lipsky e la fabbrica conta 2200 dipendenti più 3-400 lavoratori esterni impegnati sul sito. 
La conferenza e la visita sono messe in opera da ex dipendenti degli stabilimenti. Si tratta di guide e relatori facenti parte dell'associazione CASP (Cannes Aéro Spatiale Patrimoine) che cura anche il sito che raccoglie tutte le informazioni relative. Come quelle che tracciano la storia di questa azienda, le cui tappe ci sono state sintetizzate al nostro arrivo.

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La fabbrica nasce il 16 agosto del 1929. Il fondatore Étienne Romano costruisce aerei e idrovolanti e assieme all’uomo d’affari André Auniac e finanziato da Benjamin Solomon Guinnes riesce a farsi assegnare dal sindaco di Cannes il terreno che si trovava sul cono di atterraggio dell’aeroporto di Mandelieu. Qui costruisce la sua fabbrica.

Durante la Seconda Guerra Mondiale essa fu bombardata poi continuò ad essere attiva per il governo di Vichy: vi venivano costruiti aerei per la Germania. Alla fine della guerra sarà la volta di razzi e missili.

Nel 1957 diventa Sud Aviation, celebre per la costruzione dei Caravelle e del Concorde, mentre nel 1959 è il momento degli esperimenti sulla bomba atomica a sulla bomba H. Qui vengono costruiti i Mirage 4 che servono a trasportarle, oltre ai missili balistici terra terra e terra mare.
Nel 1962 inizia la creazione dei satelliti (Pleiades), nasce la ESRO che diventerà ESA nel 1972. Nel 1970 nasce la Aérospatiale e nel 1998 con Alcatel Space termina l’attività di costruzione di missili.
Il 2005 segna la fusione con l’italiana Finmeccanica e nel 2007 nasce Thalès Alenia presente con una decina di stabilimenti in tutta Europa, di cui quello di Cannes è la sede operativa.

Gli usi dei satelliti sono molteplici. Possono essere di tipo prettamente scientifico (per comprendere cioè il sistema solare e l’universo, il primo nella storia fu lo Sputnik lanciato il 4 ottobre del '67), per le telecomunicazioni (satelliti geostazionari, si situano a 36.000 km dalla terra per girare alla sua stessa velocità. Il 2 agosto '60 fu lanciato Echo 1A, il primo satellite di questo tipo), per l’osservazione terrestre (fenomeni legati all’agricoltura o militari, l'11 dicembre '61 fu lanciato il primo Cosmos 1B) e per la meteorologia (17 febbraio '59, Vanguard 2, il primo satellite meteo), per la navigazione (17 settembre '59: Transit 1A. Per la triangolazione servono almeno tre satelliti, essi si situano a 20.000 km di altezza dalla terra)
I satelliti per la pura ricerca sono fatti di solito in un solo esemplare (salvo casi particolari come i Voyager costruiti in due esemplari). 
I satelliti per le telecomunicazioni, realizzati per clienti come le agenzie spaziali (ESA CNES ASI etc), organismi internazionali (Intelsat, Inmarsat, Eutelsat, Arabsat etc) e organismi privati (SES, American Globalstar, Iridium, O3b), invece sono in genere riprodotti in più esemplari.

Il tipo di orbita del satellite cambia a seconda dell'uso degli stessi. Quelli geostazionari si trovano a 36.000 km di altezza e a livello dell’equatore (tre permettono di coprire tutta la terra), quelli per l’osservazione della terra che devono invece permettere una visione vicina si trovano ad orbite molto più basse  (300-1400 km, compiono il giro della terra in 90 minuti circa).
Poi ci sono le costellazioni per le comunicazioni o per trasmettere internet, che si trovano a 2500 km poiché devono permettere un tempo di latenza accettabile perché l'onda arrivi a terra. Ce ne vogliono tanti perché ce ne sia sempre almeno uno visibile (da 20-40 a 70-80 a seconda dello scopo).Fanno parte di questo tipo gli 
O3b ("over three billion" finanziati dal capo di One Web per dare internet ai paesi poveri attorno all’equatore) e gli Iridium. 

Un discorso a parte meriterebbero i progetti dedicati alla ricerca scientifica, come Huygens (qui il comunicato stampa a 10 anni dell'atterraggio su Titano) o quelli relativi alle missioni su Marte. 
Sono i più affascinanti ma anche i più complessi da trattare in un'occasione di questo tipo. 

Purtroppo all'interno dello stabilimento è vietato fare foto.
Qui sotto un paio di ricostruzioni del Sentinel 3 costruito per l'ESA per missioni di osservazione della terra, che abbiamo potuto vedere in fase di integrazione all'interno dello stabilimento.

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Accanto c'era uno Spacebus 4000 per le telecomunicazioni commissionato dal Bangladesh.
Gli Spacebus costituiscono il 50% dell’attività della fabbrica. La loro costruzione è modulare, sono infatti composti da una piattaforma cui si aggiunge il carico utile coperto da un guscio per proteggerlo dall’attrito del lancio e quindi i pannelli solari per creare energia.

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Nell'immagine di repertorio qui sotto, uno Spacebus in camera bianca, ambiente indispensabile per l'assemblaggio delle ottiche. 

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Il Laboratorio di ottica non può essere visitato in quanto si tratta di camere in cui la massima presenza di polveri possibile è di 3 particelle per pollice cubo.

Le fasi della costruzione sono il mating (assemblaggio delle due parti, piattaforma e carico utile), l'integrazione, la creazione del vuoto termico, il montaggio delle antenne, le prove di vibrazione, le misure della massa centrale  e dell’inerzia, le prove elettromagnetiche (i satelliti sono sottoposti a onde radio per 8-10 giorni), la messa in container e la spedizione in Canadair Antonov (l'unico aereo in grado di trasportarlo in quanto si tratta di 50 tonnellate di materiale).

I satelliti devono poter durare 15 anni senza possibilità di riparazione, è prevista quindi la ridondanza di tutti gli equipaggiamenti. Inoltre vengono fatti test su tutti i componenti per la resistenza alle vibrazioni (che sono fortissime soprattutto allo spegnimento degli stadi) e al rumore (livello acustico 140 dB), alle radiazioni solari (in orbita infatti non c’è più la protezione del campo magnetico terrestre), al vuoto (si valuta soprattutto il comportamento delle pitture e dei componenti) e alle temperature (che in orbita vanno dai 170°C quando è esposto al sole ai -175°C quando è nel cono d’ombra della terra).
L’interno è protetto dalle coperture color oro o nere, e per il freddo ci sono dei radiatori.

Noi abbiamo potuto vedere il locale in cui vengono fatti tra l'altro i test delle temperature. Il cilindro usato a questo scopo misura 10 metri di diametro e 10 in profondità. È doppio perché nell'intercapedine tra i due viene inserito l‘azoto liquido per il raffreddamento.
Il satellite viene lasciato un giorno o due alle alte temperature e altrettanti a quelle fredde. Tutto il processo è ripetuto 3 o 4 volte.

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Altri test riguardano le vibrazioni e le onde elettromagnetiche, anch'essi durano parecchi giorni.

Per quel che riguarda il lancio in orbita esso è seguito da Thalès fino alla stabilizzazione della stessa.
I satelliti geostazionari dopo il lancio hanno un orbita molto eccentrica, che va dai 200 km al perigeo ai 36.000 km. Ci vogliono tre stazioni da terra per controllarlo nei primi 8 giorni e il satellite necessita di propulsione per la circolarizzazione dell’orbita.
In effetti a questo scopo servono i 3/4 dell’insieme del carburante presente sul satelite (che in massa costituisce la stessa equivalente di quella totale). Il restante quarto di carburante serve per contrastare l’azione gravitazionale di sole e luna una volta che il satellite è in orbita. Servono infatti continue correzioni, ogni15 giorni almeno, anche perché la terra non è omogenea e le stesse montagne attirano il satellite, contribuendo a modificarne tendenzialmente l'orbita.

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Il "fine vita" dei satelliti pone il problema della spazzatura spaziale.
I satelliti geostazionari vengono semplicemente posizionati più in alto di 300 km per non disturbare gli altri. Si svuota il carburante, si taglia la corrente e non viene più controllato. Questa soluzione, necessaria per motivi economici, sta creando un guscio di spazzatura attorno alla terra che si renderà sempre più necessario affrontare.
I satelliti in orbite basse si cerca invece di farli rientrare nell’atmosfera terrestre per farli bruciare (velocità 36.000-40.000 km/h). 

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La nostra visita termina come era iniziata, con il saluto della mascotte del sito: Felix the Spacecat.
È stato lui infatti ad accoglierci al mattino, poi, questa volta, la conferenza l'ha evitata (sa già tutto ormai), ma per salutarci alla fine c'era.

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Potete farne la conoscenza e seguirne le avventure (più o meno spaziali) qui, sulla sua pagina Facebook.

 


Dominique Ghesquière alla Galerie des Ponchettes a Nizza

Quello di Dominique Ghesquière è al tempo stesso un lavoro di scultura e di installazione. Si tratta di esposizioni effimere in cui l'artista si interroga sulla natura e sulla presenza dell’uomo in essa.
I paesaggi composti uniscono elementi presi dal regno naturale ed altri pazientemente elaborati, ma in modo che non è immediatamente comprensibile distinguerli gli uni dagli altri. L’artista gioca sottilmente con la nostra percezione e il registro dell’illusione, distribuendo nello spazio delle specie ibride, a metà strada tra il naturale e l’artificiale.

Quella ricreata nell'installazione alla Galerie des Ponchettes a Nizza è la quintessenza dell’universo mediterraneo: tronchi cavi che evocano le cortecce dei platani, aghi di pino, onde e un letto di sassi. La purezza degli elementi e delle forme nella loro sobrietà voluta sono sufficienti a evocare il ricordo di un paesaggio e della sua esperienza sensoriale.

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Rideau d’arbres
(2016) Dei tronchi vuoti scandiscono lo spazio della galleria e arrivano attraverso la loro presenza minimale a evocare la presenza dell’albero. La solidità del legno è assente, la densità è suggerita solo dall’alternanza dei colori che non sono quelli della materia ma piuttosto l’illusione che ne giunge ai nostri occhi. La corteccia dei platani è evocata da una sorta di merletto che arriva solo all’altezza dello sguardo di un bambino, richiamando così alla memoria i boschi delle fiabe e dando al tempo stesso l’illusione di una possibile crescita.

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Oiseau
(2014): uno storno impagliato fissato in pieno volo. La sua posizione in verticale con il dorso al muro lo mette in posizione di elevazione ma al tempo stesso di fragilità, visto che espone in questo modo il ventre e il piumaggio più umile.

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Pierres roulées
(2014): dei sassi grigi venati di bianco, tipici dei lungomare sono ammucchiati sul pavimento. L’accostamento di linee bianche crea un insieme di tratti allacciati e di serpentine richiamando l’idea di una rete preesistente poi trasformata in caos dal movimento delle onde del mare.

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Herbes rares
(2017): dei piccoli cespugli appuntiti sono disseminati nello spazio dell’esposizione. Si tratta di composizioni di aghi di pino cucite pazientemente che imitano un oggetto naturale. L’opera oscilla tra fragilità e forza, tra la debolezza della spina singola e la protezione della barriera creata dalla loro unione.

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Vagues
(2017): le linee di sculture in terracotta disegnano degli orizzonti fragili e molteplici. Se la loro materialità e il loro colore evocano la solidità delle montagne, queste forme fluide e basse disegnano allo stesso tempo una successione di onde fissate nel movimento.

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L'esposizione è visitabile alla Galerie des Ponchettes (sezione dedicata alle installazioni e all'arte contemporanea del Mamac) sul Quai des Etats Unis a Nizza fino al 3 giugno. 


Atto gratuito - Scultura di Alberto Festi

"Atto gratuito” (Legno di larice - 153x26x3 cm) - scultura di Alberto Festi

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“Ce n’est pas tant des événements que j’ai curiosité, que de moi-même. Tel se croît capable de tout, qui, devant que d’agir recule… Qu’il y a loin entre l’imagination et le fait!”
[Non è tanto degli avvenimenti che sono curioso, quanto di me stesso. Ci sono persone che si credono capaci di tutto, ma al momento di agire si tirano indietro... Che enorme distanza tra l'immaginazione e il fatto!]

André Gide, Les Caves du Vatican

Non solo un gesto volontario, non solo una traccia appositamente lasciata di sé: è l’atto gratuito, l’azione immotivata il soggetto di quest’opera. Esattamente come, nel romanzo di Gide, il protagonista getta un altro viaggiatore dal treno senza alcun motivo, così l’artista deforma la materia e lo fa con tutto il peso del suo corpo, quello vero e quello ideale.
Lo fa come gesto di volontà pura, che assume valore proprio perché lui stesso non ne conosce la ragione e lo fa trasformando nelle sue tre dimensioni una forma geometrica perfetta, calpestando l’ordine delle cose e facendo debordare la materia là dove prima non era, verso il dominio dell’immaginario.

La lunga asse in larice è il percorso già tracciato, la via su cui corre il convoglio con il suo contenuto dal moto relativo nullo. L’impronta è la volontà di agire, la prova che non ci “si tira indietro”, che c’è un’enorme distanza, appunto, tra l’immaginazione e il fatto.

Ma se l’azione è ciò che l’autore riserva a se stesso, egli consegna invece tutta l’immaginazione allo spettatore che non può fare a meno di domandarsi il come e il perché e che inevitabilmente cerca di costruire una storia attorno a ciò che non c’è.
Che non c’è più o che non c’è mai stato perché non era lui o non era il momento.
Ci si chiede allora dove sia l’artista, che attraverso questo gesto sembra a sua volta cercare se stesso, per scoprire che è proprio lì, in quell’azione incisiva quanto i segni lasciati sulla materia, anche se l’impronta è l’unica cosa che ne resta.

Non è però assenza la sua, bensì presenza in negativo. È calco, sagoma invisibile da ricostruire, con una storia diversa per chiunque abbia voglia di leggerla. O di scriverla chissà.

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Per conoscere gli altri lavori di Alberto Festi, nonché quelli di Matteo Tonelli con il quale lavora come Henjam, la strada è qui: henjam-blog.com