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July 2017

Stand Up Paddle sul Lago di Tenno

Il lago di Tenno, celebre per le sfumature turchesi delle sue acque, è situato a 570 m di altitudine poco lontano dalle rive del Garda Trentino, verso il passo di Ballino alle pendici del monte Misone. Ha una forma perfettamente circolare ed è caratterizzato da forti diversità di livello a seconda che si tratti della stagione delle piogge o meno.
L'isola che emerge nella sua parte a sud e che è considerata un biotopo naturale diventa accessibile a piedi nel periodo estivo mentre in inverno, quando il livello del lago è 15 metri più alto spesso scompare e soltanto gli alberi ne spuntano dal lago.

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Il lago di Tenno non è raggiungibile in macchina, alle sue spiagge si accede da una lunga scalinata mediovale.

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Sono le pietre bianche del fondo a dare al lago il suo colore verde-azzurro di aspetto quasi tropicale.
 

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La navigazione a motore è vietata ma per godere del lago a fior d'acqua sono possibili molteplici attività.
I ragazzi di Lago di Tenno Noleggio/Rent affittano infatti pedalò, kayak e stand up paddle per approfittare di questo gioiello turchese in perfetta armonia con la natura.

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Non avevamo una boa a cui ancorarci, ma non abbiamo potuto fare a meno di provare qualche postura di yoga in questo scenario incredibile. 
ll paddle yoga è un'attività molto allenante, visto che l'instabilità della tavola costringe a lavorare con intensità ancora maggiore. 
Parlando con Adrien e Julia, i ragazzi che si occupano del noleggio delle attrezzature sul lago di Tenno, abbiamo scoperto che se ne organizzeranno dei corsi anche sul lago di Tenno: Agata vi aspetta, fino a metà settembre, per iniziarvi a questa incredibile esperienza.

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Roots

Arco. 
E' qui che ho le mie radici.

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Qui sono nata sopravvivendo la prima volta a un parto molto difficile, assieme alla mia sorella gemella, il mio affetto per la quale è inversamente proporzionale alla quantità di cose in cui siamo simili.
La visione del mondo, le attitudini, le abitudini e le scelte di vita, il condimento per l'insalata e la spalla utilizzata per la borsa, tutto in noi è all'opposto, p
ersino il verso in cui siamo solite esporre il rotolo della carta igienica (il mio è quello giusto Fabrizio, ça va sans dire). Ci uniscono i gatti, è per quello che a volte litighiamo.
Ogni tanto penso ai racconti, che così spesso ho sentito ripetere, relativi a quei momenti in cui nessuno avrebbe scommesso sulla nostra salvezza. Ci avevano date per spacciate ancor prima di nascere. 
E invece abbiamo attecchito.


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Qui ho le mie radici, che sono per metà acquatiche e affondano nel porto di Torbole. E' lì su quel porto e su quelle spiagge che vorrei prima o poi tornare. I cerchi andrebbero sempre chiusi, almeno in un mondo geometricamente ideale, in cui tutte le rette sono ortogonali e le circonferenze perfette.

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Qui ho le mie radici, immerse nel verde e nel blu

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Qui, in questa casa gialla.

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E' qui che ho i miei primi ricordi d'infanzia.
Non sono tutti belli, perché in fondo le cose negative sono sempre un po' più forti e tendono a fissarsi in modo più profondo nella memoria, soprattutto in quella bambina. Fortunatamente poi il tempo smussa tutto.


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Tanti però sono positivi e profumano di abeti decorati per Natale nella piccola sala da pranzo, si muovono curiosi come gli animali comprati un po' per amore e un po' per capriccio alla fiera di S.Anna e hanno le fantasie dei vestiti per le bambole, l'agilità dei pattini a rotelle, la cadenza un po' sincopata delle note battute sullo xilofono e sulla pianola, la luce polverosa dell'abbaino in soffitta e la leggerezza delle danze inventate per gioco sulle sonate di Mozart. 
Non ci sono più tornata in quella casa e non ne ho praticamente alcuna foto.

Ma è qui che ho realizzato in assoluto il mio primo scatto che emblematicamente ritrae il mio Gatto, il Pucci. La prima foto deve sempre essere quella del Gatto.

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La seconda che ho fatto invece è questa. 

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Sono alcuni dei miei compagni di terza media e l'ho scattata il giorno del mio quattordicesimo compleanno, pochi mesi prima che ci dicessimo addio, ognuno preso dai suoi progetti e dalle proprie aspirazioni.
Non ne ho altre di quegli anni, ma non è un caso che lì in mezzo ci sia Alberto, il mio compagno di banco.
Lui, senza più avere memoria di quel momento che molti decenni dopo si sarebbe rivelato speciale, ha frequentato poi per anni quella casa.
Lui ora è un artista e il dono che mi ha fatto assieme a Matteo ha per me un valore inestimabile.

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Varco.
E' qui che ho le mie radici.

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In fondo alla tromba di quelle scale ci sono sette semi.
Hanno attecchito.

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Henjam - Le opere pittoriche (1994-2017)

Metà acronimo, metà slang inglese. Anche nel nome che hanno scelto questi due artisti non smentiscono la loro anima versatile e predisposta alla collazione di molteplici estetiche e differenti tecniche.
Henjam, Hic Et Nunc Jam, questo significa questa parola dal suono così esotico: una marmellata immanente, una poltiglia semantica che ha senso solo nell'attimo e nel luogo in cui si manifesta. 

Henjam sono due artisti dalle caratteristiche differenti ma capaci di stimolarsi a vicenda per creare opere dalla bellezza e dalla grandiosità stupefacente, spesso di grande impatto emotivo e sempre fortemente significative. Questa fusione di individualità e di intenti fa di loro una realtà davvero singolare, rara nel campo dell'arte, dove tanta importanza ha in genere l'accento posto sul personalismo di colui che appone la propria firma all'opera. 
Henjam è individuo e assieme gruppo, realtà che si vuole aperta a tutto ciò che riesce in qualche modo a farne parte. 

Qui  trovate il loro sito, la loro storia e loro opere. La collaborazione tra Alberto Festi e Matteo Tonelli inizia nel 1994 e tocca varie modalità espressive, spaziando dalla scultura alla pittura, dagli interventi in spazi pubblici e privati alla rielaborazione plastica di forme note che acquistano sotto il loro sguardo e le loro mani un senso tutto nuovo.
Nella sezione Gallery del loro sito si possono trovare tutte quelle che sono uscite dalla loro vena creativa incredibilmente ricca. 
Parte delle loro prime opere ruota attorno allo studio dell'oggetto come feticcio, ma già la loro prima collaborazione segna le linee guida che negli anni a venire contraddistingueranno le grandi opere pittoriche, quelle su juta.

All'origine c'è la Madre (1994), Questa grande tela di 270 x 270 cm inaugura la collaborazione tra i due artisti, che qui si firmano ancora come ®distribuzione. La ripetizione è il motivo alla base di quest’opera che è composta da 24 dipinti cuciti su una base di juta, diversi per tecnica e realizzazione, ma raffiguranti tutti lo stesso soggetto. Si tratta di un arnese di uso comune nel lavoro agricolo, dalla forma semplice e stilizzabile, costruito con un materiale primitivo, non lavorato; sono infatti dei semplici rami di legno incrociati a formare una sorta di maniglia da impugnare con uno scopo ben preciso.
“Mangheneti” in dialetto trentino, piccoli “mangani” che hanno la significativa forma della croce a stigmatizzare sin dall’inizio uno dei temi che diventerà tra più ricorrenti e semanticamente pregnanti nell’opera di Henjam: il feticcio per eccellenza della spiritualità che si fa tangibile.

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Emblematica, oltre che la forma, è anche la funzione di questo attrezzo che serve a tendere i fili di ferro nei filari delle vigne, ma anche i fili spinati che fungono da recinzione nei campi coltivati in campagna. E la tensione sembra davvero correre in quest’opera da un riquadro all’altro, nel ripetersi di questa forma eloquente che mima al tempo stesso quella della negazione, del rifiuto, del divieto d’accesso e quella della moltiplicazione.

Moltiplicazione per 24, perché tanti sono i tasselli di questo puzzle che non è affatto necessario ricostruire, dato che ogni dipinto costituisce un’opera a sé, e che diventa corale solo nel momento in cui la juta si fa trama fisica e narrativa fungendo da collante alla serie di immagini.

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Henjam torna alla pittura nel 2003 con le grandi opere su juta. La juta rappresenta un ritorno alle origini sia per il richiamo alla Madre, sia per la qualità stessa della materia, non raffinata e per certi versi primordiale come il suo colore che riporta a quello della nuda terra.
L’origine appare anche nei temi che vi sono sviluppati: minimali, privi di qualunque sovrastruttura significante, essi rappresentano lo sguardo di Henjam che si posa su un mondo ancora incontaminato da qualsiasi giudizio, un mondo in cui costruzioni ancora vergini dispiegano il loro vuoto che è quasi un’attesa.
Si tratta di grandi opere (dai 250 ai 200 cm x 140 cm) dal cromatismo essenziale in cui grandi campiture di toni neutri vanno a creare elementi architettonici dalle linee quasi irreali nella loro immaterialità. Poche sono le ombre in questi interni immaginari, praticamente assenti le linee curve, là dove una luce meridiana tutto disegna seguendo la retta dei suoi raggi.

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photo credits: ©Paolo Pisetta

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E’ il passaggio il tema essenziale che affiora nitido dalle opere di questa serie, un passaggio che però si manifesta sempre nel suo non realizzarsi: finestre di cui si intravede appena l’apertura, scale sospese tra piani che restano oltre il nostro campo visivo, porte che portano ad altre porte in una mise en abîme significativamente ricorsiva e soprattutto quella recinzione che anziché chiudere il passaggio si apre su un vuoto denso come la trama della juta su cui è disegnato, un vuoto circondato dalla preziosità dell’oro che ne resta inesorabilmente al di fuori.

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Le opere della serie Limes segnano il ritorno alla pittura di Henjam nel 2017. E’ ancora la juta che torna a fare da schermo tutt’altro che neutro a delle visioni che si definiscono appunto “immagini di confine”.
I soggetti  di queste opere non possono prescindere dal supporto utilizzato, materia grezza, fortemente corporea su cui il colore si stende leggerissimo, spirituale e quasi immateriale.
Il Confine qui è concepito più come linea da attraversare che come separazione e divisione tra due mondi distinti. Quelli rappresentati non sono infatti dei limiti che definiscono ma delle frontiere che lasciano passare e fanno conversare tra loro mondi apparentemente inconciliabili.
Se si dovesse trovare una patria elettiva per queste opere visionarie essa sarebbe senz’altro Despina, la città che Calvino disegnò al confine tra due deserti e che appare sotto forma di cammello a chi viene dal mare e come nave a chi viene dal deserto.
Come a Despina anche nelle opere di questa serie ciò che affiora è il desiderio. Desiderio soprattutto di completezza, di fusione dell’inconciliabile, di unione di corpo e di spirito.
La simbologia è evidente in Limes Opera Iª dove una cattedrale monocroma ed eterea fa da sfondo e si intreccia con un campo da gioco, in cui in palio non vi è nulla di spirituale.

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La carnalità esce più prepotente ancora in Limes Opera IIIª dove delle carni da macello espongono la loro cruda corporeità attraverso una rete da cantiere. Questa membrana si abbassa ma lo spettatore ne resta al di fuori, vicino abbastanza per avvertirne gli effluvi sanguigni, ma estraneo ad essi.

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Il cantiere, simbolo dell’azione tanto cara a Henjam, torna anche in Limes Opera IVª, dove la struttura di un edificio industriale in costruzione si erge in forma di cimitero costellato di croci, di fronte e quasi in affronto alla vita che lì accanto sembra osservare senza ancora poterlo davvero fare.

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La spiritualità nella sua forma materiale dell’effigie religiosa riappare infine nella "Madonna del Gelato” (Limes Opera IIª ) in cui il confine tra l’evanescenza di ciò che si vuole ultraterreno si scontra fin quasi a fondersi con uno dei simboli più intensi del godimento sensoriale: il dolce zuccherino di un gelato, la freschezza che svanisce sciogliendosi sul palato.

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 Gli ultimi due dipinti in ordine temporale di Henjam costituiscono due opere a sé.

Oceano: qui la scelta del supporto si fa estrema. Henjam interpreta la massima espressione della bellezza naturale su un rifiuto artificiale. L’idea è quella di rappresentare il mare su un supporto  che spesso ne è contenuto.
Il fatto che si tratti di una tela cerata che in genere è utilizzata per il trasporto su strada sfiora solo accidentalmente temi ambientalistici. Non c’è giudizio, Henjam registra, rielabora e crea.
Quello che esce letteralmente da questa superficie difficile e al tempo stesso fortemente significativa è una massa in movimento, un volume tridimensionale che prende forma e vita quanto più ce ne si allontana per mettere a fuoco l’opera nel suo insieme. La trama della base allora perde la sua ruvidità filettata per rivelare quasi involontariamente la sua trasparenza di fondo, esattamente come fa l’acqua che cercando di riflettere il cielo non può fare a meno di lasciar misurare la sua profondità.

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Varco
:
Ancora juta per quest'opera che arriva quasi all'iperrealismo nella raffigurazione di una tromba delle scale vista dall'alto. Il soggetto, realizzato con l'intenzione specifica di immortalare un ricordo altrui, si vuole infatti più vero e più perfetto della stessa realtà, quasi a riprodurre quello che non può esistere che fuori dal tempo.
E' la finzione di una finzione, un quadro al quadrato, un ricordo ricordato.
E' un'apertura su una quarta dimensione, la presenza immanente di qualcosa che non c'è.

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Paddle Yoga à Agay

Il format intrapreso dalla nostra cara Delphine, vale a dire lo yoga declinato in versione Stand Up Paddle, sta prendendo sempre più piede e se lo si è provato almeno almeno una volta si capisce facilmente il perché.
Si tratta di un'attività che si svolge all'aperto, di solito in scenari magnifici di mare o di lago (a proposito, durante un recente soggiorno in terra trentina ho scoperto che se ne fa anche sullo splendido e turchese laghetto di Tenno, check out this: Lago di Tenno noleggio/rent), un'attività estremamente allenante e al tempo stesso rilassante come solo le cose che danno serenità sanno esserlo.
Trovarsi a fior d'acqua, fluttuare su una superficie instabile mentre si avverte la propria forza e fermezza è un'esperienza unica. Se poi si realizza in scenari come questo che vi propongo, è facile capire perché se ne può diventare velocemente dipendenti.  

Eccoci dunque ancora una volta (e non sarà l'ultima) a praticare con questa brava istruttrice sul meraviglioso specchio d'acqua della rada di Agay.

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Il quadro parla da solo.

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Torneremo presto, ça va sans dire.



 

 

 


7. Un (decimo) anniversario al mese - 24 luglio 2007

Su Vox arriva il primo iPhone

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E contemporaneamente anche il Marco.

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Lo screenshot purtroppo non è quello originale, ma sono comunque riuscita a recuperare quel commento per vie traverse grazie alle "migrazioni stagionali" di off air (qui siamo su typepad, dove il blog di Luca Viscardi era "mirrorato").
Lo ricordavo benissimo (refusi di maiuscole e ps. compresi), come ricordo ancora il puntatore del mio mouse che si sposta sull'icona di quel profilo che mi sembrava tanto buffo, tasto destro e "add friend". Lo facevo con tutti i nuovi commentatori di off air, all'epoca ero piuttosto socievole.

Non è la schermata originale ed è per questo che non vi appare lo pseudonimo che aveva allora (Cris, poi diventato marco(b) per distinguerlo dall'altro Marco (tortina) e infine marco(a), 
dopo che gli avevo detto che b pareva brutto perché faceva seconda categoria).

marco(a), marco di a, marco di anto.
Non ho ancora capito quale sia la formula della funzione, ma forse c'è tempo per studiarla ancora.

(ciao quasi ex collega)


Senza fine (vite)

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Terra di Cassel
Lacca di Garanza
Ocra Gialla Naturale
Verde Cinabro Scuro
Blu di Prussia
Bianco di Zinco
Bianco di Titanio

Sette, sono solo sette i colori utilizzati per creare questo dipinto: 7 come le 7 meraviglie dell'antichità, i 7 colori dell'iride, le 7 note della scala musicale, le 7 virtù ma anche i 7 vizi capitali, le 7 vite del Gatto, i giorni della settimana e persino i 7 nani.
E come le stelle principali di Orione.

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Chissà quale mano avrà spinto gli antichi a tracciare una linea che unisce proprio quei puntini lì nel cielo, chissà come hanno fatto a vederci proprio un cacciatore.
Io ci ho sempre visto una clessidra.

Ma la storia d'amore tra me e il tempo è una cosa complessa e si perde nelle sue stesse pieghe, che sono le labbra della memoria, quelle che sussurrano parole a volte patetiche ma sempre vere.

E di memoria qui si tratta perché il soggetto di questo dipinto è la tromba delle scale della casa che mi ha visto bambina, lì dove sono cresciuta fino a 14 anni, esattamente fino alla fine della mia frequenza alle scuole medie. Buffo a volte come certi confini diventino centrali. 

Questo dipinto è opera infatti anche del mio compagno di banco delle medie, quello che non ho mai più rivisto in seguito e che assieme a Matteo ha voluto farmi dono di questa meraviglia.
Alberto e Matteo sono Henjam e li trovate qui, nel sito che sto aiutandoli a creare.
Per ora non è ancora completo, ma andateci a visitarlo, loro ci sono già in gran parte con le loro opere e presto sarà terminato. Anche se è prevista una sezione blog in continuo aggiornamento che fa sì che sarà sempre un po' in fieri.
La bellezza è azione, mi ha detto qualcuno una volta.

Questo dipinto però ha qualcosa di speciale e non solo per me che lo vivo con partecipazione emotiva squisitamente privata.

Questo dipinto è più che una composizione perfetta in cui le rette giocano con la sezione aurea e le linee curve si mimetizzano nascendo come per magia dall’affiancarsi di angoli acuti.

Questo dipinto è più che una realizzazione perfetta di colori sapientemente modulati per arrivare a creare una morbida tridimensionalità là dove non c’è che una superficie piatta ma al tempo stesso difficile e scabra quale è la iuta. 

Questo dipinto è molto di più della finzione di una finzione, perché in quanto tale tende ad avvicinarsi intimamente alla verità, che è perfetta proprio perché non si realizza mai se non come astrazione totale. 
Quadro di un quadro, quadro al quadrato, ricordo di un ricordo, ricordo ricordato.
Riflesso del riflesso in occhi altrui che lo hanno restituito alla memoria. La mia.

Questo dipinto è anche molto più della rappresentazione di un ricordo. E’ il ricordo stesso che si sveglia da un sonno in cui non sapeva di essere precipitato. E si sorprende di non aver più saputo di avere proprio quel colore e quella forma lì, quella rotondità nei pomoli d’ottone, quella ruvidità della pietra e quel colore del legno verniciato e un tempo un po’ scheggiato e i riccioli, soprattutto quei riccioli di metallo nitido.

Questo dipinto è molto di più di un dono, è la presenza immanente di qualcosa che non c’è.

Questo dipinto è un varco. 

Lo vedi e ti porta dentro, ti porta oltre, ti porta attraverso. Lo sguardo punta avanti ma al tempo stesso va verso il basso. Questo dipinto è quella quarta dimensione che non riuscivi a concepire e d’un tratto ti appare, epifania inaspettata.
E allora il basso diventa alto, il dentro fuori, il prima dopo. 

E ci sei solo tu qui ed ora, che fissi la tua nuca, mentre lo sguardo va verso il basso, gli occhi diventano liquidi e si fanno cascata che precipita verso il rosso di quelle piastrelle, promessa di un’intimità ancora bambina, quella che non ricordavi e che profuma di cipria e naftalina.
E’ rosa, antica e conservata per sempre nell’armadio del cambio stagione. 

Questo dipinto presto tornerà a casa. La sua.

 

 

 


Ancora in kayak ad Agay - l'Île des Vieilles

Di questa escursione ho già parlato più volte, lo so, come delle altre che è possibile fare nei dintorni di Agay, sia verso il Cap Dramont sia in quota, sul massiccio dell'Estérel. 
Ma guardando le foto che seguono è facile capire perché valga comunque la pena ripetersi e anche perché alla fine qui le attività che hanno a che fare con l'acqua vincono sempre e comunque. 
Limpida e cristallina il suo color turchese è accentuato dal contrasto con il rosso vivo della riolite di cui è costituito questo antico massiccio vulcanico. 

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Da Agay una delle
escursioni più belle è quella in kayak, che prevede che si prenda la costa in direzione est, verso il Cap Roux e l'Île des Vieilles, un'isolotto roccioso poco agibile, ma tra le cui coste si scavano piccole baie e piscine naturali incredibilmente suggestive.  

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La pagaiata ha come scopo, oltre che godere appieno di questa natura sorprendente, anche quello di trovare qualche piccola spiaggia isolata, lontana dai rumori della civilizzazione. Qui ce n'è tante che sono accessibili solo dal mare, è facile quindi trovare piccole oasi di tranquillità anche nei mesi estivi più centrali. 

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Ok non vi do troppe informazioni sul come trovare la "nostra" che se la pubblicizzo troppo poi rischio di rovinarmi le prossime sieste al sole, ma qualche foto ve la regalo, un po' di indizi per ritrovarla in fondo ci sono.

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E come buona tradizione la nostra giornata si è conclusa con una sessione di yoga proprio sul molo di questo porticciolo nascosto tra le anse della costa. L'unione tra corpo e universo qui assume un significato molto più profondo che altrove.
O, perlomeno, è più soddisfacente da realizzarsi.

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Namasté