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September 2016

Saint-Jean-Cap-Ferrat Prestige

Organizzato dal 23 al 25 settembre sul porto di Saint-Jean-Cao-Ferrat, questo evento ha visto per il terzo anno sfilare e gareggiare in bellezza ed eleganza delle fantastiche vetture d'epoca lungo la penisola e le strade della cittadina. Questo il circuito:

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Automobili che datano dai primi del '900 agli anni '60 hanno sfilato e fatto immergere turisti e appassionati nell'atmosfera dei tempi passati attraverso i loro design esclusivi e i curatissimi dettagli.

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Un vero gioiello presente alla manifestazione è la macchina da Grand Prix del 1913 "Théophile Schneider". Il modello presentato a Saint Jean Cap Ferrat Prestige è l'unico sopravvissuto di una serie di quattro. Col suo motore da 5 litri di cilindrata e una potenza di 120 cavalli, poteva raggiungere la velocità di 165 km/h.

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La Rolls Royce Silver Cloud del 1962 è un esempio dell'eccezionalità dei materiali, dei dettagli e del confort delle vetture di questa casa. Ogni esemplare è un opera unica fatta da un operaio che la firma con nome e cognome al suo interno. Il modello presentato è una rara cabriolet fatta dal carrozziere Mulliner.
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La Lancia Aprilia cabriolet Pininfarina 1938. Prima carrozzzeria autoportante aerodinamica, 4 ruote indipendenti sono solo alcuni dei mezzi tecnici che danno all'Aprilia più di 30 anni di vantaggio sulle future automobili degli anni '60. Motore a 4 cilindri da 1500 cm3.
 

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L'Hispano-Suiza Sport Saloon del 1927. Questa celebre marca di automobili fu creata da un ingegnere svizzero, costruita in Spagna con l'aiuto di re Alfonso XIII e segnerà gli anni '30. La vettura presentata ha la caratteristica di avere una carrozzeria in tessuto moleskine, teso su una struttura in legno. 

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L'evento era corredato da esposizioni di artisti, come Stéphane Cipre che ha presentato la sua Topolino, "Vacances au bord de la mer" e sostenuto da sponsor tra cui Aston Martin e Retro Style, un servizio di ristorazione e noleggio vetture esclusive.

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Il week end è stato animato da spettacoli vari come l'esibizione di queste musiciste su trampoli che sabato pomeriggio hanno intrattenuto i visitatori del salone.

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So'Riso Bistrot

Ci siamo capitati davvero per caso, senza sapere che questo locale così speciale aveva aperto da poco, attirati un po' dall'aspetto informale ma accogliente e dall'atmosfera che si intuiva da fuori e un po', una volta avvicinatici, dal menu esposto che prevedeva piatti unici veloci ma, all'apparenza, sani e gustosi, abbinamento che corrispondeva un po' a quello che stavamo cercando per quella sera.
Eh lo so, "cena veloce sana e gustosa" sembrerebbe un duplice ossimoro, dal momento che troppo spesso quando il cibo è "fast" si sa già che a rimetterci in genere è la qualità di ingredienti e sapori, ma noi siamo degli inguaribili ottimisti e siccome ci crediamo sempre, a volte veniamo anche premiati.
Come questa volta.

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Il bistrot So'Riso di via Magenta a Milano -abbiamo scoperto poi chiacchierando con Monica Bagni che lo gestisce con competenza ed entusiasmo- nasce da un'idea di Valentina Scotti, la figlia del "Signor Riso" per intenderci, che ha avuto l'illuminazione di creare un'esperienza alimentare nuova e salutare basata sui cereali antichi senza glutine declinati in vari modi a seconda del momento della giornata cui sono destinati.

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"Yogurt and rice" recita l'insegna, perché qui non solo si possono mangiare vere e proprie portate (piatti unici, risotti mantecati, vellutate  e insalate) e gustare ottimi aperitivi, ma è prevista anche la colazione a base di dolci senza glutine e yogurt (cremosi e gelato) con topping ai cereali, frutta e cioccolato.

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Alla base ci sta la voglia di coniugare tradizione cerealicola e benessere in cucina, fantasia, sapore e salute e dal risultato che abbiamo potuto gustare noi stessi direi che ci sono proprio riusciti.
Il nostro piatto, un pollo in crosta di mais servito con riso rosso era delizioso. Ad accompagnarlo delle sottilissime gallette di riso allo zafferano che, abbiamo scoperto poi, sono fatte sul posto con una speciale macchina.

Qui si possono anche acquistare i vari prodotti del brand, un'ampia scelta di cereali e prodotti derivati.

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Una bella scoperta, un'insegna a cui auguriamo tanta fortuna e, perché no, anche l'espansione oltre i confini nazionali, che -per dire- anche qui in Francia non ci starebbe niente male una novità di questo genere.

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Lago maggiore - Isole Borromee

Una gita a... ogni volta che si fa un'escursione di questo genere mi viene in mente il celebre cruciverba della Settimana Enigmistica, che si proponeva (e molto verosimilmente si propone ancora, visto il poco dinamismo di quella rivista - ma confesso che non lo so, è tanto che non la acquisto), dicevo, si proponeva di far estrapolare dalle definizioni e dalle foto che corredavano lo schema la "meta della nostra gita". 
Chissà se ne è mai stato fatto uno che avesse come soluzione l'Isola Bella. 

In ogni caso, incroci combacianti o meno, lì ci siamo diretti sabato scorso, approfittando di un nostro breve passaggio in terra lombarda.
Tra le isole Borromee l'unica che avevo già visitato, anche se un sacco di anni fa, era l'Isola Madre (probabilmente per fare il giro col battello più lungo, mi ha poi confessato Marco), quindi questa volta non ci sono storie che tengano, si visita l'isola principale, col suo palazzo e gli splendidi giardini che occupano gran parte della sua superficie.

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Di proprietà ancora oggi della famiglia Borromeo sorge a circa 400 metri al largo di Stresa. Un tempo chiamata Isola Inferiore o di san Vittore, fu data in feudo ai Borromeo dai Visconti nel XV secolo. Fino al 1630 l’isola Bella era uno scoglio abitato da pescatori. I Borromeo già proprietari dell’isola Madre dal 1501, dal primo ventennio del seicento concentrano i propri interessi sull’isola dando avvio al progetto che porterà alla creazione del palazzo e del giardino. 

Il palazzo fu iniziato nel 1632 quando Carlo III Borromeo decise di realizzarlo e dedicarlo alla moglie Isabella D'Adda, da cui prese il nome. Contemporaneamente, a opera dell'architetto Crivelli fu creato l'impianto generale dei giardini, con l'idea di dare all'isola la forma di una nave con la prua rappresentata dal palazzo e la poppa dalle terrazze dei giardini.
Per realizzare i terrazzamenti fu trasportata con le barche una grande quantità di terra, che copriva il suolo roccioso dell'isola. Il giardino ospitava aranci, limoni, bossi e cipressi, a cui si mescolavano coltivazioni di piante utili.

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Dopo alterne vicende, interruzioni, pesti, riprese dei lavori e ristrutturazioni il progetto ebbe come suo fine quello di far diventare la villa il luogo di feste sontuose e rappresentazioni teatrali per la nobiltà europea. Furono aggiunte le decorazioni in pietra (balaustre, statue, obelischi, vasi) e al piano terra una serie di stanze aperte verso il giardino furono decorate a grotta con motivi che appassionarono Stendhal.

Il palazzo venne completato dal principe Vitaliano X nel XX secolo. Fu lui a terminare la facciata nord e il molo collegato e realizzò il grande salone sulla base del progetto originario.

Il palazzo ha pianta a T dominata dalla facciata lunga 80 m, con al centro la sporgenza curvilinea del salone d'onore, sviluppato su due piani e coperto a cupola. 

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Al primo piano, intorno al salone centrale si trovano sale decorate e arredate, tra cui la sala di Napoleone dove questi soggiornò nel 1797, la sala del Trono e la sala della Musica, dove si svolse nel 1935 la Conferenza di Stresa. 
Gli ambienti ospitano quadri di noti pittori, tra i quali Luca Giordano, Francesco Zuccarelli e Pieter Mulier, detto il Tempesta. Nella galleria degli Arazzi sono conservati arazzi fiamminghi cinquecenteschi con scene di animali simboleggianti la lotta tra il Bene e il Male.

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Nel 2008 è stata inoltre riaperta al pubblico anche la galleria dei Quadri (o del Generale Berhier), dove si conserva la collezione di pitture della famiglia, con opere di Raffaello, Correggio, Tiziano e Guido Reni.

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Al piano terra si aprono verso il giardino una serie di ambienti con decorazione a grotta, con motivi decorativi formati da ciottoli e piccoli sassi bianchi e neri e schegge di tufo, immaginate da Vitaliano Borromeo come luogo di frescura e diletto, popolate ancor oggi da oggetti frutto della sua passione collezionista.

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Ai giardini si accede per mezzo del'"atrio di Diana", che ha come scopo soprattutto quello di nascondere il disassamento tra il palazzo e il parco.
Da qui si passa al "piano della Canfora", così detto per il monumentale albero impiantatovi nel 1820. In sei aiuole disposte simmetricamente sono ospitate numerose piante esotiche.

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Sul lato meridionale il piano della Canfora è dominato dal "Teatro massimo", articolato in tre esedre sovrapposte e caratterizzato da numerose statue. Alcune scale conducono alla terrazza superiore, mentre i lati digradano con quattro gradinate a stretti ripiani, a forma di piramide.

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Verso sud si trova il "Giardino Quadro" con una vasca centrale e aiuole simmetriche decorate da siepi in bosso. 

 
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La chiesa di San Vittore era originariamente una cappella risalente all'XI secolo e venne ampliata in seguito in stile gotico. All'interno conserva affreschi cinquecenteschi e l'altare maggiore del seicento.

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Probabilmente mi è rimasta qualche definizione da completare, la gita è stata breve e non so se ho trovato tutte le risposte ai quesiti, nonostante i suggerimenti fotografici. 
Una cosa è certa: se non avessi scoperto che l'isola Bella prende il suo nome dalla consorte di Carlo III, non mi sarebbero comunque restati dubbi sull'etimologia di questo toponimo.

Buffo come a volte si danno risposte giuste anche se sembrano sbagliate.


Blog Party n. 10 a Filago Marne

Ebbene sì siamo arrivati al traguardo dei 10 anni! O meglio, gli anni trascorsi sarebbero 9, ma corrispondono a 10 appuntamenti consecutivi a partire da quel luglio 2007 in cui un avvenimento non troppo felice (la chiusura di Play Radio) è stata l'occasione perché il nostro gruppo di frequentatori di Off Air, il blog di Luca Viscardi, si decidesse finalmente a trasformare in amicizia concreta quello che fino ad allora era rimasto uno scambio virtuale.

Ne sono cambiate di cose da allora: coppie che si sono create e altre che si sono dissolte, bambini che sono nati e cresciuti, traslochi, partenze, arrivi, addii e "arrivederci chissà", qualche bisticcio e qualche new entry, ma ogni volta che ci si ritrova la voglia di fare festa, di ridere, di raccontarsi è la stessa di quando il primo commento del giorno su Off Air di tanti anni fa era il pretesto per iniziare la giornata col sorriso.
Già, perché, come ha già avuto modo di ricordare Luca, siamo stati un po' un facebook ante litteram, che niente ha potuto poi disgregare, né la fine della piattaforma di blogging che ci ospitava, né l'arrivo di nuovi social network potenzialmente più dispersivi.

Eccoci qua dunque, a raccontare la decima volta di noi!

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Appuntamento all'Agriturismo Baccia a Filago Marne, nei pressi di Bergamo.
Cristiana ha pensato bene di addobbare l'ambiente per le nostre "nozze di stagno": palloncini e confetti gialli per l'occasione!

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I sorrisi stampati sono ovviamente anche i nostri:

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Il pranzo fila via liscio, gli argomenti sono molteplici, ma le passioni vere non cambiano con gli anni...

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e si trasmettono di generazione in generazione

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ma si sa che il clou della giornata arriverà alla fine del pranzo, con i dolci di Fabio e Cristiana, 

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ma soprattutto con lo scambio dei pacchi (mai termine fu più azeccato) del Riciclone! 

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L'assenza della Ste ha tolto, come dire, un po' di pepe all'atteso momento, ma quest'anno si è concessa la deroga di riciclare il riciclato degli altri anni, con il risultato che i celebri "troll" norvegesi hanno di nuovo cambiato casa.
Uno è addirittura capitato in Costa Azzurra, ma non so, secondo me non è abituato al clima e facile che decida autonomamente di scappare di casa, vedremo. 

Sempre esilarante questo momento, se devo fare un podio io metto al primo posto le meraviglie  toccate a Paolo: 

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Anche se il catafalco portato da Luca (no, ma simpatici gli omaggi degli ascoltatori della radio, eh? ma proprio!) aveva il suo perché... nel senso di "ma perché???"

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I regalini per Andrea sono stati apprezzati e tutti se ne sono tornati a casa con un "dolce ricordo" (grazie Cris!)

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Grazie ancora amici, abbiamo raggiunto un bel traguardo, ma è solo il primo, lo so! 


Tommaso Labranca - Poesie dell'agosto oscuro

Tommaso Labranca

Poesie dell’Agosto Oscuro

prima edizione: autunno 2005

stampato in proprio printed in EU

i testi riprodotti sono di proprietà dell’autore www.labran.ca

I marchi registrati presenti nelle poesie sono proprietà dell’industrie registratarie

www.pluscool.org
di Tommaso Labranca e Dea Verna

[email protected]

 

 

Tommaso Labranca

 

Poesie dell’Agosto Oscuro

 

Ipsofilia1

Vorrei essere un’aquila...
                                     un falco...
                                                   una poiana...

O il Personal Traïner2

                                  di Dolce 

                                                  o di Gabbana

 

 


Cvpio Dissolvi

 

Nei giorni disadorni di questo agosto oscuro
Lo specchio sopra il muro non riflette alcun futuro

Rispetto all’altro anno le rughe han fatto un danno
Rispetto all’altra estate si son disidratate

Mi applico a fondo
Chanel Hydromax®
Dovrei anche stare
Più tempo in relax

Spianare le rughe
Celare l’occhiaia
Per esorcizzare
L’odiata vecchiaia

E antiossidanti e poi fiori di Bach1
Per non far la fine del vecchio Aschenbach

Se col botulino sparisse l’angoscia...
Se il bisturi insieme alla pelle già floscia
Potesse tirarmi su anche il morale
Mutando oltre ai tratti il mio tema natale.

Filosofare insulso, restiamo in superficie
Qui serve solo un lifting che non lasci cicatrice

Tirando forse un poco la pelle dietro ai lobi...
(mi dicon spesso in molti che rassomiglio a Moby)
Star giovane per sempre, per obbedire all’hype
(per altri invece sono quasi uguale a Michael Stipe)

Ragazzo volevo
Unirmi agli Wham!
Mi trovo specchiato
In un video dei REM.

Ma a cosa mi serve la gioventù eterna
Che senso avrà mai quel rubare a Dea Verna
La crema anti-age con cui il tempo s’iberna
Se poi mi rintano in oscura caverna?

Al buio la vita diventa un fastidio
E il lifting ideale rimane il suicidio

 

Due sonetti dinanzi al Just Cavalli1

D’in su la vetta della Torre Branca2
Passerei solitario questa estate
Spaziando il guardo oltre le vetrate
Sulla città che adesso è giù in Sri Lanka

A Formentera, Cuba o nelle Azzorre.
Io solo resterei là sulla torre

A individuare i luoghi in cui ho vissuto
Cercandoli felice nel tessuto

Urbano, ma il passo mi è precluso
Da un buttadentro dallo sguardo ottuso.
La torre condivide il suo portale

Con quello che conduce ad un locale
D’uno stilista dal casato equino

Che non gradisce v’entri il popolino.

 



Vaghe stelle del format, io non credea
Trovarvi qui, in questo agosto oscuro
A rintemprarvi dal lavoro duro

In questo bar e non su spiaggia egea.

L’ottuso muscolato si sfacchina
D’in tra la folla per aprire un varco
Ad Amadeus che con una velina
Vuol fare l’happy hour dentro il parco.

Chi resta fuori intanto si tormenta
Di non sedere accanto a Michael Kenta
A Magda Gomez o ad Edoardo Costa.

Chi è dentro ostenta gioia e lo fa apposta
A farsi degli esclusi grande beffe,
Bevendo insieme a Mascia del GF.

 

 

Borghezio Stop Islam1

 

Esoscheletro lucente
               Di cristalli e di cemento

                             Armato / ho amato

Sin dai tempi del liceo
              Stare sotto al grattacielo

                              Pirelli / ribelli

Le modernità perenni
               Che segnarono quegli anni

                             Cinquanta / m’incanta

L’equilibrio che tien su
               Le planimetrie di Giò

                                Ponti / tu sconti


L’invasione musulmana

                             Della nostra Val Padana

Ma lo sai che non mi indigna

                              L’inserviente un po’ ulivigna

                                         Che ti lustra con il Bref

Mi addolora invece (eccome!)

                   Che dicendo il tuo cognome
                               
                                  Oggi venga in mente Afef.

 

 

Madonna’s up & down1

 

A metà di questo agosto
Fatto d’ore assai noiose

               Hanno preso un senso opposto
               Due madonne assai famose

Una sta sul piedistallo
E si dice ascenda al cielo

                L’altra cade da cavallo
                Mentre cavalcava a pelo

 

 

Why does my heart feel so bad?1


Why does my heart feel so bad?
Why ever in August I feel so sad?

Is that my digital player is not a real I-Pod
And looking at my gizmo I just feel like a cod2?

Is that I am not sporting some flashy genuine Nikes
And people laugh at seeing my lousy look-alikes?

Is that I am not dancing, nor doping in Ibiza
So in order to be cool I must open my freezer?


 

Carolo Rossellæ1 Dicatvm

 

Mi viene incontro pedalando triste2
Pare mi fissi e invece non mi vede
Davanti a lui nel seggiolino siede

L’ultima nata. Lui in spalla ha le provviste
Che la consorte con culo enorme e panza,
in magico equilibrio sulla sella,
ha messo in uno zaino blu per quella
patetica illusione di vacanza.

Lui chino sotto il finto zaino Invicta3
Precede l’altro figlio, lemme lemme.
Domani ha il primo turno all’ATM4

E questa vita gli appare circoscritta
Ad un sentiero, sparso di pietrisco.

Mentre lo incrocio davvero non capisco
Da dove nasca l’insoddisfazione

Che non gli fa godere l’occasione.

Se degli affetti suoi non tiene conto
È certamente colpa del raffronto

Tra l’esistenza sua che è così cheap
E il vivere che invece fanno i vip

Che adesso stanno stesi sulle rive
Di qualche ressort chic delle Maldive.

Essere lì! Sfidare gli tzunami!
O i charter che precipitano a sciami5!

Essere lì e non su questa bici!
Lanciati da Cesàra6 Buonamici
In quei servizi pieni di vincenti
Durante il tg5 delle venti.



Biografia in 18 parole di Donatella Versace1

 

Lasciai la bella Reggio
Attraversai la Sila

E dissi al mondo: “Il bianco
Sarà il nero del Duemila.”


Biografia in 18 parole di Nzuzi Nsangata2

 

Lasciai la bella Moba3
Attraversai i Mugila4

E dissi al mondo: “Il Nero
Sarà il Bianco del Duemila.”

 

 

Three American Lives1



American Dream

Esco di casa, le dieci del mattino
Controllo la cassetta della posta

Ci trovo dentro solo un volantino:
anche il postino è via per tutto agosto.
La Tecnoimmobiliare ti consiglia
Villette a schiera con mutuo al 3 per cento
Per vivere con tutta la famiglia
Nel sogno americano seducente
Che abbellirai facendone il tuo asilo
Tra nani in gesso e Veneri di Milo

American Gothic

Esco di casa, le tre pomeridiane
Assenze, afa e gracidar di rane

E come sempre attoniti e silenti
Moglie e marito seduti immoti al punto
Che pare quasi che abbiano radice
Fissi nel sole come la Fenice.

Solo un forcone è quanto a loro manca
con alle spalle la villetta bianca
(costruita quando giunsero dal sud)
per ricordare il quadro di Grant Wood.

American Psycho

Esco di casa, son già le diciannove
In radio sento il fatto che commuove
L'Italia intera: a colpi di machete
Due nonni fatti a pezzi dal nipote.
Gli avevano intestato la villetta
Ma lui voleva i soldi, aveva fretta.
Così tra splatter, pulp e un po' di psycho
Si narra come il nipotino Maicol

(nacque nell'anno in cui sbancava Thriller)
per una villa è diventato killer.





La sera in cui a casa Totti/Blasi

si ruppe il plasma da 72 pollici1

 

Ore 20.30
             Lui: “...”
                                  Ore 20.37
                                         Lei: “...”
                                                                      Ore 20.59
                                                                     Lui: “...”

Ore 21.14
                Lei: “...”
                              Ore 21.28
                                             Lui: “...”
                                                          Ore 21.35
                                                                          Lei: “...”


Ore 21.56
Lui (dormiente):
                            “Zzzz... Mmmhh... mmmhh...”

Ore 22.07
Lei (dolcemente):
                 “Amo’ che c’hai? Perché mo te2 lamenti?”

Ore 22.19
Lui (semidormiente):
                 “No, gnente amo’... sto a ffa’ l’allenamenti.”

 

 

Metafisica del mais1

 

Giorno di festa nel cuore dell’agosto
                 Che passo pedalando lungo il solito percorso

Su strade di campagna sempre poco trafficate
                 Che il mese, il giorno, l’ora hanno desertificate.

A fare da raccordo tra sporadici villaggi
                 Ci sono le distese sconfinate di granturco

Foreste in miniatura che a settembre spariranno
                 Per tramutarsi dopo misteriosamente in polli.

                 Il brivido exotic di un tandoori indiano
                 È in nuce nel mais qui nel lodigiano.

 
 
2005: l'esate del Sudoku

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Non so se ho voglia di recarmi a Tookyoo
A bere tè e fare inchini serio

Piuttosto me ne andrei a San Romerio2 
Accolto nell’antico xenodochio.

Là solo di sakè ci si rimpinza
Perché in Oriente non hanno lo sciroppo
Di menta Fabbri e in gola sale un groppo
Di sete e nostalgia là nella Ginza.

Non era meglio per una volta andare
A Igea Marina oppure a Gatteo a Mare
Per ordinare sotto gli ombrelloni

Per voi ed i vostri amici la Tassoni?

 

 

Ludwig II me

 

Quando d’agosto mi trovo dentro un treno
del metro verde che va verso Cologno2

io chiudo gli occhi e brevemente sogno
di stare in una villa su a Laveno3

Villa? Chalet! Tre stanze ed un boudoir
non grande come quella di George Clooney
che è sempre fatta oggetto di importuni
assalti all’ex pediatra di E.R.

Ma ciò che mi distingue dall’attore
è un Cigno enorme in legno e silicone
che riesce a trasportare otto persone
con cui galleggio sul lago Maggiore

Raccolti sette amici decadenti4
di notte, quando ormai la luna è alta
con musica di Wagner che ci esalta
lasciamo andare il Cigno alle correnti

Ma appena abbiamo superato Cerro5
buttiamo via il cd de “La Valchiria”
per ascoltare Mina, Giorgia e Syria

e al Siegfried preferiam Tiziano Ferro

Rispetto a Orietta Berti appare scialba
anch’Eva Marton. E il canto di un Hans Sachs6
non vale un verso solo del gran Max

Pezzali che poi noi cantiamo fino all’alba7

Svanisce il sogno, scompare lo chalet
Si arresta a Gobba il treno con un fischio
ed io mi affretto perché altrimenti rischio
di perder la navetta Mediaset8.

 

Memoria Vortex Oscura1

 

Ormai non c’è più posto
Per darsi solo in fuga

È giunto Ferragosto
Che come sanguisuga
Assorbe le energie
Rimanda sine die
Ogni progetto o impegno.

È semplice il disegno
Di questo giorno vuoto:
Una giaculatoria,
Un susseguirsi immoto

Di ore e di minuti
Che non avranno storia
Uguali e ripetuti
Come le terzine di Philip Glass

Come le terzine di Philip Glass
Come le terzine di Philip Glass
Come le come le come le come le
Come le terzine di Philip Glass
Come le terzine di Philip Glass
Come le terzine di Philip Glass
Glass Glass Glass Glass Glass
Philip Philip Glass Glass Glass
Come le terzine di Philip Glass
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Reminescenza dell’agosto 1987

Nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma iei

Nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma iei

Nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma iei

Nu ma nu ma iei
Nu ma nu ma nu ma iei

Reminescenza dell’agosto 2004

Resti qui

Te ne vai
Sono sempre fatti tuoi
Resti qui

Te ne vai
Sono sempre fatti tuoi
Resti qui

Te ne vai
Sono sempre fatti tuoi
Resti qui

Te ne vai
Sono sempre fatti tuoi
Resti qui

Te ne vai
Sono sempre fatti tuoi
Resti qui

Te ne vai
Sono sempre fatti tuoi.

Reminescenza dell’agosto 1973

 

 

Esclusione De Luxe con amarene



Tutte le sere vuote1
I pomeriggi a casa
Le ferie non godute
La vita un po’ noiosa
Il senso di esclusione
L’inconsiderazione
Il non avere amici
Le poche uscite in bici
Le attese irrealizzate
(chissà... l’anno venturo...)
Gli amori irricambiati

Che il cuore malsicuro
Traffiggon come aghi

E tutte le altre sfighe
Che a lungo mi han vessato
Trovato hanno ricetto
Sicuro in un gelato,

un semplice Cornetto®.

 

In quasi quarant’anni
Di spot pubblicitari
Né pene, doglie o affanni
Ma gaudi voluttuari

In un mondo perfetto
Han fatto del Cornetto®
Un catalizzatore

Di risa, amici e amore
Di amplessi sulla rena
Senza mai giorni bui
Insieme in acqua: lui,
tritone, e lei, sirena.

Hanno cambiato stile
Costumi acconciatura

Ma una cosa dura:
Disprezzo quasi ostile

Per chi da solo resta
Escluso dalla festa
Gustarlo da appartato
Non è mai stato ammesso
Ché il senso del gelato
Legato stretto è al sesso.
Svuotato della panna

Il cono simboleggia
Le parti su cui poggia
Il coito uomo-donna:
un lato penetrante 
a coppa invece l’altro 

Il vivere nel niente
Mi fa vedere oltre
E anche in fase down
Son meglio di Dan Brown.



La ballata del vecchio marinaio1


“Per cena c’è un’acciuga.”
              (Fuggir dal bagnasciuga...)

“Stasera tu non esci!”
              (O! Meglio star tra i pesci!)

“Ma che gilet, Patrizio!”
              (Mi veste da novizio.)

“Il grigio mi par d’uopo.”
              (Mi fa sembrare un topo.)

Le sartie oppure le sarte?
               Dubbio non c’è: si parte.
Orzare oppure oziare?
               Da soli in mezzo al mare
                               Non c’è dicotomia.

È meglio veleggiare
               Tra un porto ed una rada

Che stare a casa mia
               Con lei, Miuccia Prada.

 

 

Crain @ de discotek1

I

Amore spento
Fuoco già estinto
Durò soltanto

Per quel momento
Che mi parve incanto
Un portento
Dal cielo giunto
Si mutò in vento
Che mi prosciuga dentro
E fa di me un torrente

Che non ha più fonte
Non ha più la sua corrente
E l’inverno attende.


II

Discoteca scadente
Sulle rive del Brenta
Finta estate caliente
Grasse in autoreggenti
Qualche triste studente
Io casuale cliente
Tu improvviso frammento
Di un prezioso diamante.

Sguardo che è rapimento
Di Cupido instrumento.
Mi colpisce violento

Il sorriso convinto
Come spada da kendo.

Come zefiro aulente
Che discende da un monte
Sulla pista tra gli unti

Si avvicina sospinto
Il tuo corpo discinto.
Ora giunti
Or disgiunti
Alla fine ti arrendi
Alla fine ti accendi
Non son baci, ma accenti
Di un amore impaziente
Di una attesa urticante.
Quando si placa l’onda

Mi sbilancio e domando:
“Il tuo numero?” e attendo...
Tu ci pensi un secondo

Poi mi dici “C’ho un Wind
Tre due otto sei venti...”

Gesto da adolescente
Uno squillo soltanto

Per sentirti dir “Pronto?”
Per mostrarmi presente
Ma la voce è gelante:
“Numero inesistente”.

 

III

Di neve
Un manto
Discende
D’argento
Pesante

Sul sogno si posò.

Sul cuore un guanto
Nero distendo
Fatto è d’amianto
Spegne all’istante
Ogni accenno al sentimento
Che mi fa spavento
Che mai più in me riaccendo

Ti passo accanto
Freddezza ostento
Or saldo il conto
Poi me ne andrò.


IV

Amore spento
Fuoco già estinto.

Le quattro e trenta...

Mentre l’oriente
S’accende

Il buio resta in me.

 

Note antidemocratiche
per una interpretazione
univoca delle poesie

 
 


Il localismo esasperato tipico in certi passaggi del Labranca trova in queste poesie la sua migliore espressione. Forse l'A. puntava a sottolineare in questo modo la differenza tra il suo testardo restare locale e l'ottuso emigrare esotico della più parte della popolazione durante l’oscuro mese di agosto.

Ecco perché si rendono necessarie queste note, dove le precisazioni tecniche si uniscono a spiegazioni di luoghi geografici e dell'anima incomprensibili al di fuori della zona di residenza dell'A.

Ipsofilia

1Il termine ipsofilia ha due significati. Il primo indica la tendenza di animali o vegetali a vivere ad alte quote. Il secondo indica una attrazione sessuale verso se stessi. In questo componimento il termine conserva entrambi i significati.

L'A. desidera essere un animale ipsofilo e in questa sua ricerca dell'elevato giunge a sognare il grado più alto: formare i corpi (il personal trainer) di chi decide come devono essere formati i nostri corpi (gli stilisti).
Ed è in questa chiusa che si deve leggere il secondo significato del termine, in quanto, forgiato e rivestito, il proprio corpo diventa l'oggetto principe della propria attrazione sessuale.

2Come la dieresi indica, non va letto "personal trainer" all'inglese, ma "personal tra-ì-ner". Solo così si ottengono due versi di 14 sillabe l'uno.

Cvpio Dissolvi

1Va letto Bach, con la finale fricativa come nel cognome del sommo musicista, e non "bac" con la c dolce. Solo così si ottiene la rima con il successi-vo Aschenbach (anzi, von Aschenbach wie seit seinem fünfzigsten Geburtstag amtlich sein Name lautete).

Due sonetti dinanzi al Just Cavalli

1Il Just Cavalli è un locale di presunta tendenza, decorato con eccessi estetici tipici del barocco brianzolo (cfr. Tommaso Labranca, Estasi del Pecoreccio, Castelvecchi 1995). Si trova a Milano, nel Parco Sempione sotto la Torre Branca.

2La Torre Branca (ex Torre Littoria) è una torre metallica alta oltre 100 metri, uno dei pochi punti da cui si può vedere Milano dall'alto. È opera dell'archi- tetto Giò Ponti, inaugurata nel 1933 in occasione della Quinta Triennale di Milano. E' stata riaperta recentemente al pubblico, ma spesso l'ottusa secu- rity del Just Cavalli non vi permette l'accesso temendo che il visitatore ipso- filo della torre devii in realtà verso i divani zebrati dell'esclusivo locale.

Borghezio Stop Islam

1Il titolo si rifà a certi adesivi apposti a Milano su pali della luce, biciclette, vagoni della metropolitana. Mario Borghezio è un politico della Lega Nord.

2Effettivamente una delle sedi del liceo dell’A. era poco distante dal gratta-cielo Pirelli.

Madonna's Up & Down

1In questo componimento d'occasione, tipicamente foscoliano, l'A. punta a confrontare l'evento universale con l'evento transitorio. Secondo il dogma proclamato nel 1950 da Pio XII, il 15 agosto si celebra l'Assunzione della Madonna.

Il 16 agosto del 2005, di contro, la cantante Madonna cadde da cavallo riportando alcune fratture. Quest'ultimo è un evento transitorio e non dogmatico, dimenticato pochi giorni dopo il suo verificarsi.
Ma a ispirare l'A. è proprio il gioco tra eternità ed effimero, tra dogma e gossip, la meravigliosa simmetria di movimenti verso l'alto e verso il basso.

Why does my heart feel so bad?

1Il titolo è lo stesso di una composizione di Moby. Ecco il testo in italiano:

Perché il mio cuore prova questo disagio?
Perché in agosto mi sento sempre così triste?
Sarà che il mio lettore di mp3 non è un vero I-Pod
E guardando l'aggeggio che posseggo mi sento un po' un merluzzo?
Sarà che non esibisco Nike originali e appariscenti

E la gente ride delle mie miserabili scarpe taroccate?
Sarà che non sono in preda a balli e droga a Ibiza
E se voglio essere cool mi tocca aprire il freezer?

 

2E' stato tradotto liberamente cod con merluzzo, anche se non è proprio la stessa cosa. Il cod (Gadus Morhua) è un pesce dei mari nordici che non ha traduzione precisa in italiano. E' quello usato per il fish and chips e per i bastoncini di pesce.

2Cool gioca sul logoro doppio senso tra figo e fresco. Un momento infelice dell'A. (Et Homerus aliquando dormit...)

 

Carolo Rossellæ Dicatvm

1Carlo Rossella (Pavia 1942 - ) è attualmente direttore del TG5.

2I protagonisti di questa composizione sono verosimilmente gli stessi che agivano nel capitolo La coppia con bambino (Tommaso Labranca, Neoproletariato, Castelvecchi 2002). Quattro anni dopo la coppia ha un nuovo figlio, ma non ha saputo ancora superare quello stadio di eterna insoddisfazione "che nasce dal raffronto" tra la propria vita e le esistenze idealizzate televisive.

3La rima Invicta/circoscritta è stata definita dal Lunardelli "rima siciliana". In realtà non è una rima giocata sull'incontro tra i ed e o tra o ed u. Né può dirsi una assonanza. L'A. ha specificato che la rima è pura, poiché va letta Invitta/circoscritta, secondo la tendenza delle parlate settentrionali a semplificare certi suoni difficili, come dimostra l'uso diffuso della parola tennico al posto di tecnico.

4ATM: Azienda Trasporti Milanesi, società che gestisce i trasporti pubblici nel capoluogo lombardo.

5Con notevole cinismo l'A. non rinuncia all'ispirazione cronachistica di sciagure aeree o catastrofi naturali che hanno vessato il turismo di massa nel periodo di composizione di queste Poesie.

6Naturalmente la pronuncia corretta è Césara, ma la Poesia è spesso fatta di codesti arbitrari spostamenti d'accento.

 

Biografie in 18 parole

1Donatella Versace, stilista, è di origini calabresi. Ha effettivamente detto in una intervista le parole incluse nel virgolettato, rispondendo a una giornalista che le domandava come mai prediligesse il bianco nelle sue creazioni. I due brevi componimenti mettono a confronto non solo due visioni del mondo che alla fine convergono (nel Duemila, il Nero che prenderà il posto del Bianco tenderà probabilmente a vestire di bianco così come i bianchi vestivano di nero nel secolo precedente), ma anche due tipi di immigrazione: quella vecchia e interna (dalla Calabria a Milano) e quella nuova e glo-bale (dal sud al nord del mondo).

2Nzuzi Nsangata è un nome di fantasia, creato unendo più nomi africani realmente esistenti.

3Moba è una città del Katanga (Congo), porto sul lago Tanganica.

4Mugila: i monti Mugila sono poco distanti dal lago Tanganica e dalla città di Moba. L'A. ricorda le tre ore notturne di ricerca su un atlante per trovare un qualsiasi toponimo africano che rimasse con Duemila e che prendesse il posto di Sila.

Three American Lives

1Il titolo compie una crasi tra due opere di altrettante figure di riferimento dell'A.: Three Lives della scrittrice Gertrude Stein (1874 - 1946) e American Life della cantante Madonna (1958 - ).
Si tratta di un trittico edilizio-pittorico-cronachistico che fonde tre elementi tipici dell'estate, in un'atmosfera in cui Montale incontra Mentana in una agenzia immobiliare.

La sera in cui a casa Totti/Blasi si ruppe il plasma da 72 pollici

1Il nulla angosciante, l'incomunicabilità, la pesantezza del tempo sono elementi che si possono rinvenire all'interno di qualsiasi aggregazione umana anche di ridotta estensione come una coppia.
L'A. ci offre un esempio di quel nulla all'interno di una coppia vip. In questo modo l'A. si inserisce in quel filone editoriale che presentandoci la vita insulsa e ripetitiva dei cosiddetti vip glamourizza quel nulla, quella volgarità, quello squallore, quella banalità che invece odiamo nelle nostre vite.

2In una prima versione il verso recitava “Amo’ che c’hai? Perché tu ti lamenti?”. La cosa destò stupore tra i primi lettori delle poesie inviate via sms: ma Ilary Blasi è toscana? Così almeno lasciava pensare quel “tu ti”. In realtà i toscani direbbero “te tu ti lamenti”. Appurata l’origine romana della Blasi l’A. ha provveduto a modificare il verso in quello attuale.

Metafisica del mais

1Dagli appunti dell'A. si evince che in origine la composizione con questo titolo doveva contenere questi versi come prologo, seguiti da tre composizioni dedicate ai tre direttori dei tg Mediaset e da un epilogo. Di questo vasto affresco sono rimasti solo questo prologo e la composizione dedicata a Carlo Rossella.

2005: l'estate del sudoku

1Il testo si legge:

Kore wa suika no Inventabibite® Fabbri desu ka?
Iie, kore wa suika no Inventabibite® Fabbri dewa arimasen!
Dewa, kore wa nan desu ka?

Kore wa sake desu!
Kore wa banana no Inventabibite® Fabbri desu ka?
Iie, kore wa banana no Inventabibite® Fabbri dewa arimasen!
Dewa, kore wa nan desu ka?

Kore wa sake desu!
Kore wa remon no Inventabibite® Fabbri desu ka?
Iie, kore wa remon no Inventabibite® Fabbri dewa arimasen!
Dewa, kore wa nan desu ka?

Kore wa sake desu!
Kore wa aamondo no Inventabibite® Fabbri desu ka?
Iie, kore wa aamondo no Inventabibite® Fabbri dewa arimasen!
Dewa, kore wa nan desu ka?

Kore wa sake desu!

 

Traduzione:

Questo è un Inventabibite® Fabbri all'anguria?
No, questo non è un Inventabibite® Fabbri all'anguria. E allora che cos'è?
Questo è sakè!
Questo è un Inventabibite® Fabbri alla banana?
No, questo non è un Inventabibite® Fabbri alla banana. E allora che cos'è?
Questo è sakè!
Questo è un Inventabibite® Fabbri al limone?
No, questo non è un Inventabibite® Fabbri al limone.
E allora che cos'è?
Questo è sakè!
Questo è un Inventabibite® Fabbri all'orzata?
No, questo non è un Inventabibite® Fabbri all'orzata.
E allora che cos'è?
Questo è sakè!

Il livello elementare con cui è scritto il testo giapponese, tutto in hiragana e senza alcun kanji, è un richiamo ai manuali di conversazione per turisti.

2San Romerio è una località dei Grigioni (Svizzera), nota per il suo xenodo-chio, ossia un ostello medievale in cui si dava ospitalità gratuita a chi accet- tava di convertirsi al cristianesimo.

Ludwig II me

1La metropolitana milanese è composta da tre linee, contraddistinte da colori: rossa, verde e gialla.

2Cologno Monzese, località alla periferia orientale di Milano, dove hanno sede diverse emittenti televisive.

3Laveno (Varese), località sul lago Maggiore.

4Vivace è il dibattito su chi possano essere questi sette amici decadenti. Ogni critico propone una sua lista, derivata dalle rubriche nei cellulari dell'A. E ogni critico ha la spudoratezza di inserirsi.

5Cerro Maggiore, località confinante con Laveno.

6Hans Sachs è uno dei protagonisti di Die Meistersinger von Nürnberg di Richard Wagner.

7Questo verso, che appare a prima vista errato nella metrica, è in realtà un doppio omaggio a Max Pezzali, un primario riferimento dell'A. Oltre a essere citato direttamente, il Pezzali viene omaggiato anche ritmicamente, in quanto l'A. riprende lo stile ora agglutinante, ora sincopato, ora frammentario della sua metrica. Il verso va dunque scandito pezzalianamente così:

pezzalichè-poinò-cantià-mo-fi-nal-lalba.

8Si tratta di un pullman gratuito che dalla fermata della metropolitana di 45 Cascina Gobba va alle varie industrie di Cologno Monzese. La navetta è messa a disposizione gratuitamente da varie aziende, ma è comunque molto più cool chiamarla "navetta Mediaset" che "navetta Negri Bossi".

Memoria Vortex Oscura

1Il titolo, che si rifà a Wichita Sutra Vortex, è un doppio omaggio ad Allen Ginsberg e a Philip Glass.

2Da notare nel vorticoso e reiterato stream of consciousness finale della composizione come l'A. abbia seguito una umiliante parabola discendente nella sua vita musicale: si passa da una ricezione passiva radiofonica comunque di qualità (Mia Martini, Minuetto 1973) a una precisa scelta intel-lettuale (Philip Glass, Satyagraha 1986) per finire in una voluta e stoltamen-te dichiarata imbecillità tamarra (Haiducii, Dragostea din tei 2004).

Esclusione De Luxe con amarene

1Torna ancora Max Pezzali in questa lirica che nella prima parte contrappone l'elenco di tristezze solipsistiche all'elenco di gioie aggreganti de La lunga estate caldissima. Tipicamente gozzaniana è invece la riflessione tra parentesi al verso 10. D'altronde Pezzali non è che un "Gozzano ai tempi del consumismo compiuto" (Tommaso Labranca, Moto propria - Esegesi di Max Pezzali, Pluscool 2007).


La ballata del vecchio marinaio

1Il tema della composizione è ancora una volta il desiderio di solitudine all'interno di una coppia. Il titolo della composizione è lo stesso di The Rime Of The Ancient Mariner la più celebre delle Lyrical Ballads di Samuel Taylor Coleridge (1772 - 1834). Il marinaio cui è dedicata questa composizione è Patrizio Bertelli (1946 - ), velista e amministratore delegato del gruppo Prada.

Crain @ de discotek

1Composizione intrinsecamente veneta per origine, ispirazione, carattere e ambientazione. Le stanze I e III sono state composte dall'A. nell'aprile 2005 tra le province di Treviso e Vicenza. I versi di queste stanze sono modellati su una composizione strumentale poco nota delle sorelle Paola e Chiara Iezzi, Television, tratta dal cd omonimo.

Il titolo della composizione è una corruzione tra dialetto veneto e tecnobanalismo di Crying at the Discoteque di Alcazar (primi del XXI secolo). L’A. ha fatto spesso notare che il racconto non riflette alcuna sua esperienza personale e che l’assenza di ogni riferimento al sesso dei protagonisti fa sì che chiunque possa immedesimarsi nei fatti cantati. La Genti, commentando questo non-biografismo, ha detto: “Allora è poesia vera.”

 
 

Partecipazioni di Tommaso Labranca ad Andata e Ritorno

Andata e ritorno è una sit-com in onda dal 2006 su Rai 2, in cui la trasferta di alcuni pendolari sempre presenti sugli stessi vagoni di un treno diventa il pretesto per seguirne le storie e le alterne vicende. 
Si tratta di una striscia quotidiana della durata di una decina di minuti cui, oltre ai 6 attori protagonisti, partecipano saltuariamente con dei camei anche altri personaggi famosi.

Dalla primavera del 2007 e fino alla fine della trasmissione che conduceva con Luca Viscardi e Salvio Cianciabella su Play Radio (vale a dire fino alla fine della suddetta radio, avvenuta il 30 giugno del 2007), Tommaso Labranca prese parte in più occasioni alla fiction assieme ai due colleghi.
Si trattava di ricreare sul set/treno lo stesso spirito e l'atmosfera del programma Il Buono, il Brutto e il Cattivo, commentando i fatti e le notizie trattate durante la trasmissione, spesso di quello stesso giorno, vestendo i panni dei personaggi che ognuno dei tre incarnava anche in onda.

Qui di seguito un montaggio che ne riunisce una buona parte.

 

 

 

 


78.08 Tommaso Labranca intervistato da Fabio Canino

 

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"Il passato non esiste. Esistono le cose. Le incontri per strada, le ascolti alla radio, le leggi nei libri. Tutte ti si fermano dentro e vivono contemporaneamente a te. Le porti sempre nella testa e torni a rivederle quando ti imbatti in qualcosa che le ricorda o che vorrebbe essere completamente diverso, senza riuscirci. E solo conoscendo i modelli originali puoi capire se un rifacimento è riuscito o meno. Se serviva davvero farlo" (Antonio Maniero)


Tommaso Labranca - La piccola fiammiferaia reloaded

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Fiaba economico-natalizia ispirata
alla lacrimevole istoria 
Den Lille Pige Med Svovlstikkerne
di H. C. Andersen
di cui contiene ampi campionamenti
Versione elettronica regalata per il Capodanno 2010
da www.tommasolabranca.eu
Non protetta da copyright!
Può essere liberamente copiata e diffusa
citando la fonte
addì 28 dicembre 2009
scadenza ultima per il versamento dell'acconto IVA

Per Luca R.
e per tutti quelli con la partita IVA

 

Faceva un freddo terribile, benché da molti anni ormai i giornalisti riempissero gli spazi vuoti dei loro fogliacci con allarmanti notizie sul surriscaldamento del pianeta. "Però li capisco" pensò la piccola Bruna, che giornalista non era, pur collaborando con queil fascicoli rilegati che pochi comperavano, ancora meno persone leggevano ed erano mere giustificazioni per fare molti soldi grazie agli inserzionisti.
"Spesso non si sa davvero cosa scrivere e allora va bene anche commentare la foto di un orso bianco in bilico sul residuo di un iceberg".
Sarà stata l'immagine del ghiaccio che galleggiava sul mare artico o, più verosimilmente, il gelo che regnava nella sua casa, fato sta che la piccola Bruna rabbrividì, a lungo. In verità il clima non era diventato più feroce. Certo, i giornalisti di Studio Aperto strillavano in inverno "E' hemhergenzah frheddoh...", accentando tutte le vocali, con una cadenza irpina che ne tradiva l'assunzione per raccomandazione di qualche ex-democristiano. Certo, d'estate i giornalisti del TG$ intervistavano i turisti immersi nelle fontane per commentare dei banalissimi 35 gradi all'ombra. Ma era solo perché il pubblico bovino di quei notiziari viveva mollemente in un microclima falsato da termosifoni e condizionatori d'aria e quando uscivano dalle loro case, dalle loro palestre, dai loro lounge bar trovavano anormale il naturale avvicendarsi delle stagioni.
E così aumentavano ancora la potenza delle caldaie, causando lo scioglimento dell'iceberg su cui il povero orso bianco galleggiava perplesso e serviva da riempi-pagine per i giornalisti più pigri.

Nella casa della piccola Bruna il freddo era però crudo e reale. La sua caldaia non funzionava da una settimana. Aveva trovato a fatica un idraulico ma questi pretendeva di essere pagato subito. "Sono mille e duecento euro per la caldaia e ottocento per il montaggio. Pagamento immediato, anzi mi dia subito mille euro di anticipo perché non lavoro sulla fiducia." La piccola Bruna cercò di dirgli che avrebe potuto pagarlo solo a trenta giorni dalla fattura, ma l'idraulico, che pur essendo di pura razza italiana non conosceva il significato del termine fattura, le rise in faccia, mostrandogli molte otturazioni d'oro e forse anche un diamante incastonato nell'incisivo. "Allora ci vediamo tra trenta giorni!" urlò!. E andò via. La piccola Bruna avrebbe voluto spiegargli che anche lei lavorava, ma i soldi li vedeva solo dopo sessanta, novanta giorni. E dopo aver emesso fattura, che è un foglio di carta con su tanti numeri che poi si presenta al commercialista. E che ultimamente aspettava anche centoventi o duecentocinquanta giorni prima di vedersi saldare il dovuto. E che se lei avesse richiesto un anticipo ai suoi committenti avrebbe potuto dire addio al lavoro. 
Ma l'idraulico non sentiva, stava già scendendo le scale e intanto chiamava la sua agenzia viaggi in cerca di un last minute per Formentera. "Non importa il prezzo, posso permettermelo..." furono le sue ultime parole mentre usciva dal portone.
La piccola Bruna allora indossò un altro maglione telefonò ancora una volta alla segreteria amministrativa di una rivista per la quale aveva scritto urgentemente un lungo articolo ad agosto. "Agosto..." pensò mentre cercava il cellulare. E rivedeva la città vuota attraversata con la metropolitana verde per andare fino all'enorme torre in cui aveva sede la casa editrice.Erano passati quattro mesi e del suo pagamento non aveva avuto notizia.
Il telefono della segretaria amministrativa suonava sempre a vuoto. A volte partiva una registrazione: "L'ufficio amministrativo è a disposizione dei signori collaboratori solo nei pomeriggi di mercoledì, con data dispari e senza precipitazioni a carattere nevoso."
Quella volta però, pur non essendo mercoledì, rispose qualcuno. "Pronto?" La piccola Bruna fu così sorpresa dal fatto di aver ricevuto risposta che quasi non riusciva a parlare. Fece un profondo respiro e si presentò, iniziando subito ad illustrare il suo caso. L'articolo ad agosto, l'urgenza, la fattura, l'attesa ormai di molti mesi, l'importo di poche centinaia di euro...
" Non so come aiutarla", rispose sbrigativamente una vocina aspra, dall'accento lucano. "Sono uno stagista e sono l'unico rimasto qui e stavo anche per andarmene. La responsabile non c'è da prima di Sant'Ambrogio. Ha fatto il ponte poi si è ammalata, poi sono cominciate le vacanze di Natale. Tornerà dopo il 10 di gennaio. E adesso mi scusi, ma devo andare anch'io in montagna con gli amici dell'ape perché col cazzo che torno in Lucania a capodanno a morire in quel nulla da cui ho fatto di tutto per scappare e adesso che sto a Milano che è una città cosi grigggia e così brutta, scappo appena posso scroccare viaggio e alloggio a qualche minchione...".

La piccola Bruna era rimasta muta, stava per dire qualcosa, ma sentì il colpo della cornetta che cadeva  a terra, mentre lo stagista lucano lasciava la redazione urlando "Viaaaaaa!", precipitandosi per dodici piani lungo le scale di sicurezza e riuscendo nel contempo ad aggiornare con l'iPhone finto, di produzione cinese la sua pagina su facebook con lo status "Capodanno sulla neveeeeeeeeeeeeeeeeeee".
Alla piccola Bruna sfuggì una lacrima. Decise quindi di uscire. Il freddo che attanagliava le persone per le strade della città sarebbe stato comunque inferiore a quello che provava in casa a caldaia spenta. In bagno si stavano formando le prime stalagmiti. Sul pavimento della camera da letto si sarebbe potuto svolgere uno spettacolo di Holiday On Ice.
Stava per iniziare la sera di San Silvestro. Le strade erano affollate di coppie tracagnotte. I maschi in tuta felpata bianca e testa rasata, le femmine su tacco dodici e con magliette cortissime che facevano intravedere ventri flaccidi resi violacei dal gelo mordente. tutti con la stessa felicità negli occhi, tutti con uno stipendio fisso per quanto miserabile, tutti avvolti nello stesso profumo, una nube di Acqua di Giò taroccata che rendeva la città una succursale di Chernobyl, appena più tossica.
La piccola Bruna avrebbe voluto comperare qualcosa, una di quelle maglie a righe che splendevano nelle vetrine [testo mancante ndr] le toccasse pagare quel'anticipo a fine anno, su soldi che non aveva ancora incassato. Ma lo Stato era feroce e la sua commercialista, prima di partire per Sharm, le aveva ingiunto di pagare, pena l'impalamento da parte dell'Agenzia delle Entrate.
La piccola Bruna era rimasta terrorizzata da quelle minacce contabili e la notte sognò il ministro Tremonti che arrivava a casa sua vestito come lo sceriffo di Nottingham e le portava via anche le buste di Riso Gallo, quelo pronto in due minuti, che rappresenatava la base della sua alimentazione. Allora nel cuore della notte la piccola Bruna si alzò. La caldaia rotta aveva reso la sua camera da letto accogliente come un lago di metano liquido su Titano, ma lei riuscì a raggiungere il computer e a collegarsi al sito della sua banca, quella pubblicizzata da tre comici invisibili che grazie anche ai suoi soldi, ora erano di sicuro alle Maldive a maledire il caldo eccessivo. Tremando per il gelo e per il ricordo dell'incubo con Tremonti, la piccola Bruna pagò per via telematica l'F24 dell'acconto IVA verso le 3.45 del mattino.
Camminava cercando di non vedere lo splendore delle merci nelle vetrine, di sfuggire allo sguardo delle coppie che anelavano felici alle trombate di capodanno perché chi non tromba a capodanno... La piccola Bruna si infilò le mani nelle tasche del cappottino Max Mara, tristemente fuori moda perché comperato quando la crisi non c'era ancora e poteva ancor permettersi di cambiare cappotto ogni anno. E in quelle tasche trovò sette euro! Una manciata di monete dimenticate chissà da quando! Gli occhi le si riempirono di lacrime e quasi non si accorse dei fiocchi di neve che le cadevano sui lunghi capelli biondi, sparsi in bei riccioli sul collo; ma essa non pensava davvero ai riccioli! Non vedeva nemmeno tutte le finestre che scintillavano di lumi; per le strade si spandeva un buon odorino di risotto al radicchio come di altre disgustose pietanze tipiche delle orrende cene tra amici alle quali non veniva mai invitata. Era la vigilia del capodanno e lei ancora una volta non aveva ricevuto nessun invito.
Volle quindi provare a prelevare qualcosa. Si avvicinò al primo Bancomat che incontrò lungo la strada. Lo sportello le apparve esausto per il continuo sfornare contanti in quella giornata. Inserì la sua tessera, digitò freneticamente il PIN e attese... Attese finché non apaprve la scritta "Prelievo non disponibile. Carta bloccata. Rivolgersi al proprio istituto". La neve si scioglieva sulla tettoia di protezione dello sportello e una grossa goccia colpì la piccola Bruna sul naso. Era solo acqua gelida, ma la piccola Bruna ebbe la sensazione che il Bancomat le avesse sputato in faccia.

La piccola Bruna pianse lentamente per l'umiliazione. Si sentiva l'ultima creatura al mondo. Le tornò alla mente allora quel passaggio del Vangelo, dove si dice che gli ultimi saranno i primi. E pensò che forse la fede avrebbe potuto aiutarla. Si diresse rapida verso un tempio poco distante. Entrò. I credenti avevano già dato la loro quota di presenza ecclesiastica nelle superbe messe natalizie. Si avvicinò a un altare per accendere una candela, ma ne trovò solo di elettriche. Inserì allora cinquanta centesimi, riducendo i suoi averi a 6,50 euro, e uno squallido cero votivo elettrico si illuminò.
Mentre pregava intensamente, dal nulla apparve un prete che spense immediatamente il cero elettrico. La piccola Bruna lo fissò stupita e, mentre il religioso si allontanava, inserì altri 50 centesimi portando la sua dote totale a 6,00 euro. La fiammella elettronica tornò a guizzare e la piccola Bruna riprese la sua prece interrotta, ma da dietro la vicina colonna che reggeva una statua di san Fruttosio apparve il braccio del viscido sacerdote che spense di nuovo l'elettrocandela. La piccola Bruna indignata, si allontanò da quell'altare e andò in fondo alla chiesa dove resisteva una riserva di candele di cera. E lì, invece di accendere un terzo segno votivo, la piccola Bruna arraffò la scatola di fiammiferi, in segno di risarcimento per la truffa elettroclericale, e scappò fuori dalla chiesa, inseguita dal sacerdote che, sollevando la tonaca con le mani come una ballerina di can can, correva gridando: " Ladra sacrilega!". Ma, intralciato dalla veste, il sant'uomo cadde nel bel mezzo della navata centrale. E indugiò lì a terra, godendo nel sentirsi come papa Ratzinger che era anch'egli appena rotolato in mondovisione nel bel mezzo di San Pietro.
La piccola Bruna, uscita dal tempio, giunse ansimando nell'angolo formato da due case, di cui l'una sporgeva innanzi sulla strada, lì sedette abbandonandosi, rannicchiandosi tutta, tirandosi sotto le povere gambine.
Stringeva quei fiammiferi nella mano. Che avrebbe potuto farne? Venderli per strada? Inutile. La concorrenza degli accendini senegalesi era troppo feroce. Li avrebbe usati per scaldarsi, ecco.
Il freddo la prendeva sempre d più, ma non osava tornare a casa. Del resto, forse non faceva freddo anche a casa? Abitava proprio sotto il tetto e il vento ci soffiava tagliente, sebbene le fessure più larghe fossero turate, alla meglio, con paglia e cenci. Cioè, non era proprio così; sono i campionamenti della storia originale di Andersen a essersi infiltrati nel racconto. La piccola Bruna temeva che a casa avrebbe trovato i pinguini impegnati in una battaglia a palle di neve perché la caldaia continuava a essere rotta e lei non aveva potuto sostituirla, perché l'esoso idraulico pretendeva soldi che al momento non aveva ma che aspettava, oh, se li aspettava! Se solo la segretaria di amministrazione del giornale si fosse decisa a far partire i pagamenti! Intanto le sue manine erano quasi morte dal freddo. Ah, quanto bene le avrebbe fatto un piccolo fiammifero!

Ne cavò uno dalla scatola rubata in chiesa e trracc! Come scoppiettò! Come brucò! Mandò una fiamma calda e chiara come una piccola candela, quando la parò con la manina. Che strana luce! Stava per spegnersi, allora la piccola Bruna prese dei fogli di un giornale free press risalente alla settimana prima, lessa rapidamente Sei milioni di italiani sulle strade delle vacanze. Prima che il fiammifero si spegnesse del tutto, la piccola Bruna diede fuoco a quella carta e, che strano, nel bagliore le apparve una località sciistica di grande prestigiose, nel tepore di un bar creato dentro una baita schifosamente falsa, vide lei, la segretaria di amministrazione che beveva un Cosmopolitan per sentirsi Carrie di Sex and the City. Rideva, la troia.  
Aveva al suo fianco un buzzurro in cui la piccola Bruna riconobbe il vicedirettore dela rivista! un tipo che lei conosceva da molti anni, uno paraculatissimo che aveva fatto una carriera istantanea, passando da stagista a vicedirettore in quindici giorni. Il tipo stava allungando una mano verso la tetta destra della segretaria di amministrazione, ma proprio allora la fiamma si spense, la baita scomparve ed ella si ritrovò là seduta, con un pezzettino di fiammifero bruciato tra le mani. Si alzò e, pulitasi alla meglio l'ormai stazzonato cappottino Max Mara, la piccola Bruna iniziò a sentire fame. Non mangiava dal giorno prima. A casa non aveva quasi nulla. Nel frigo giaceva il residuo di un minestrone così antico che, se scoperto, l'avrebbe fatta incriminare per occultamento di cadavere.
Aveva ancora sei euro in tasca. Inutile cercare un bar. Erano ormi le nove della sera di San Silvestro ed erano tutti chiusi. Si incamminò verso il McDonald's più vicino, dove i sei euro sarebbero stati un piccolo tesoro. Ma giunta sotto gli archi dorati ( che sono marchio registrato) vide con sgomento che anche il fast food era chiuso! Persino i sottopagati friggipatatine stavano scappando verso una notte di divertimento totale allo Studio Zeta, la più grande discoteca della Lombardia, dove avrebbero dilapidato metà del loro magrissimo salario.
La piccola Bruna si sedette su una panchina. "Se sopravviverò", disse a se stessa, "scriverò un articolo in cui racconto le difficoltà della vita di un senza fissa dimora e magari lo propongo a... " e qui fece il nome della testata che da più di quattro mesi non la pagava.
Il freddo si era fatto ancora più pungente, la piccola Bruna decise allora di sacrificare un altro dei suoi preziosi fiammiferi. Sotto la panchina c'erano alcuni vecchi quotidiani in cui la notte prima si erano avvolti certi ex dipendenti Alitalia che vivevano ormai all'addiaccio. Scelse la pagina meno fradicia e, prima di darle fuoco, la scorse velocemente. Era un foglio de il manifesto. Conteneva un lunghissimo articolo di un economista comunista con cattedra alla Sapienza di Roma, dove non aveva mai messo piede, mandando solo suoi assistenti che lo odiavano. L'articolo si scagliava ferocemente contro "il popolo delle partite IVA, questa massa di evasori fiscali, gente dal guadagno facile, che rappresenta la peggiore espressione del liberismo economico, l'ossatura dell'Italietta berlusconiana che vive ai margini della legalità, mentre i poveri operai precari cassintegrati...". Non lesse oltre. Accese il secondo fiammifero e diede fuoco al giornale che bruciò, e il fuoco rischiarò un albero vicino che, nel punto in cui la luce batteva, divenne trasparente come un velo. La piccola Bruna vide una stanza, in cui la tavola era apparecchiata con una bella tovaglia d'ua bianchezza abbagliante e con finissime porcellane; nel mezzo della tavola, l'oca arrostita fumava, tutta ripiena di mele cotte e prugne. Il più bello poi fu che l'oca stessa balzò fuori dal piatto e, col trinciante e il forchettone piantati nel dorso, si diede ad arrancare per la stanza, dirigendosi proprio verso la povera piccola Bruna....
"Quack Quack" disse l'oca. "Perdonami! Perdonami!"
La piccola Bruna, stupita da quel che vedeva, disse: "Perdonarti? E di cosa?"
"Perché non ti ho saldato la fattura 21/09 dell'agosto ultimo scorso! Quack ... avrei voluto, ma le indicazioni dela dirigenza erano precise: ritardare i pagamenti dei collaboratori esterni! Quack!"
"Oh, ma tu sei..." domandò la piccola Bruna.
"Quack! sì sono io! La segretaria di amministrazione! Questo è il destino che mi è toccato nell'aldilà. Essere trasformata in un'oca!"
Non sei cambiata molto, in fondo!"
"Quack! ma come ti permetti! Questa è la mia pena eterna!"
"Ma allora... sei morta!"
"Quack, sì! un paio di ore fa. Mi ero scolata tre Cosmopolitan con il vicedirettore e lui oltre a due Negroni sbagliati e a unLong Island si era fatto anche una riga di coca, comperata con i soldi della piccola cassa.
Poi siamo usciti perché volevamo trombare nel suo albergo, ma il cocktail micidiale di alcol e droga, la strada ghiacciata e la velocità eccessiva ci sono stati fatali. E siamo caduti nel burrone della morte all'interno dell'auto maledetta che ha preso fuoco... Quack!"
La piccola Bruna stava per dire qualcosa, meravigliata per la rapidità con cui la segretaria era stata spedita nell'aldilà e punita, contrappasso forse alla sua lentezza amministrativa, ma il fiammifero si spense, e non si vide più che l'albero opaco e freddo.
Si ricordò a quel punto di un articolo scritto sei mesi prima (e non ancora pagato) per un'altra rivista. Un bell'articolo di lifestyle in cui descriveva com'era fantastico vivere di notte in una città che non dormiva mai. Tra le altre scempiaggini di cui lo aveva riempito, c'era la descrizione di certi negozi-non negozi, fatti di distributori automatici e aperti ventiquattr'ore al giorno. ce n'era uno vicino a casa sua. Si alzò e stringendo nel pugno la scatola di fiammiferi benedetti, iniziò a correre verso quell'ultima meta salvifica.

Lo Schifezze Express era per fortuna aperto: rutilante di luci, di distributori in cui brillavano gelati da passeggio, scatole di biscotto, confezioni di profilattici, uova fresche e cibi precotti che potevano essere scaldati nel forno a micronde di cui era saggiamente dotato. La piccola Bruna, avidamente inserì le ultime monete in quelle macchinette meravigliose e selezionò un pacchetto di pennette al salmone e una bottiglia d'acqua. Ma il freddo le faceva tremare le dita e invece del codice relativo alla mezza minerale digitò quello della Red Bull Cola.
Non se ne crucciò. Infilò il cartone delle pennette nel micronde e contò con ansia famelica i centoventi secondi necessari alla cottura. Al dlin del forno tirò fuori la confezione ustionante e iniziò a divorare le pennette, dimentica dell'acclusa forchetta di plastica. Le prendeva con le amni, come aveva fatto tante volte con lo zighinì al ristorante etiope, quando non c'era la crisi... Poi bevve in un sol fiato la Red Bull Cola ghiacciata. L'effetto fu immediato: sentì come se tutti i tori di Pamplona le attraversassero lo stomaco, disperdendosi poi in direzione del fegato. cadde a terra.
"E' il freddo", si disse. "Ora accendo un altro fiammifero e starò subito meglio..." Accese il terzo fiammifero. La piccola Bruna si trovò sotto a un magnifico alberò, ancora più grande e meglio ornato di quello che aveva veduto a traverso ai vetri delle finestre alte quattro metri, nel loft del ricco vicedirettore (quello paraculatissimo), la sera di Natale.
Il fiammifero si spense. Strofinò contro un muro un altro fiammifero, che mandò un grande chiarore all'intorno; e in quel chiarore apparve il ministro Tremonti, avvolto in un manto turchino, con una corona in testa, tutto raggiante, e mite, e buono....
"Oh, signor Ministro!" gridò la piccola Bruna. "Mi prend acon sé! Faccia di me il suo addetto stampa! So che lei sparirà, appena la fiammella si spegne, come sono spariti la bella baita calda, l'oca amministrativa e il grande albero del paraculatissimo vicedirettore!"
Presto presto accese tutti insieme i fiammiferi che ancora rimanevano nella scatolina: voleva trattenere il ministro Tremonti. I fiammiferi diedero tanta luce, che nemmeno di pieno giorno è così chiaro: il ministro non era mai stato così bello così grande...
Egli trasse da sotto il manto turchino u F24 e disse: "Mia cava! vedo che hai pagato l'acconto IVA nei modi e nei tevmini pvevisti! E ova tu muovi pvopvio pev avev compiuto il tuo doveve! Meviti quindi di venive con me, vevso lo Splenove e la Gioia, su, in alto, in alto, dove non c'è più fame né fveddo né angustia né tasse! Laddove le fattuve sono saldate con puntualità a tventa giovni! Vieni! Andiamo!"

Allo spuntare della fredda alba, chi passava presso il negozio con i distributori automatici vide la piccola Bruna, con le gotine rosse e i sorriso sulle labbra, morta assiderata nell'ultima notte del vecchio anno. La prima alba dell'anno nuovo passò sopra il cadaverino, disteso là, con la scatola dei fiammiferi tutta bruciata.
Sul mistero della giornalista trovata morta a Milano con in mano alcuni fiammiferi, il TG5 ci campò per due mesi buoni.

www.tommasolabranca.eu

[email protected]

 

 

 


Tommaso Labranca - Andy Warhol era un coatto

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Tommaso Labranca

Andy Warhol Era Un Coatto

Vivere e capire il trash

Pubblicato originariamente da Castelvecchi nel 1994
Edizione elettronica ridigitata e reimpaginata nella primavera del 2004

Diffusa gratuitamente tramite il sito www.labranca.co.uk.

L’edizione elettronica differisce da quella cartacea nei seguenti punti:
1. Manca l’introduzione di Emanuele Bevilacqua, di cui non ho i diritti.
2. Manca l’Interessante Indice degli Argomenti, che era comunque inutile.
3. Sono state tolte alcune immagini volute in origine dall’Editore e non necessarie ai fini della scrittura.

Grazie a Luca “Quack” Gargioni.
© 1994 - 2004 by Tommaso Labranca

Questa è la versione 1.0 dell’edizione elettronica. In caso riscontraste errori, comunicateli a: [email protected]
Se ne terrà conto per l’eventuale versione 2.0

PARTE PRIMA

GIOVANI SALMONI DEL TRASH

 

 

0. Capitolo Zero

Quando i casi della vita mi pongono di fronte a una cartuccia stereo 8 di Fausto Papetti, mi guardo intorno cercando negli altri uno sguardo di complicità. Ma il mio entusiasmo per l’importante rinvenimento di un reperto trash è puntualmente raffreddato poiché trovo sempre il nulla, la meraviglia, l’ignoranza e l’inesattezza. Spesso trovo anche una domanda: «Che cos’è il trash?».

Ogni volta che mi pongono questa domanda sono preso dal panico. Per me, che recepisco gli eventi trash non attraverso la mediazione culturale ma lungo i canali di una misteriosa telepatia, non è stato facile arrivare a dare una forma il più possibile razionale a questo universo in cui la materia più diffusa è l’irrazionalità. Temevo soprattutto che, descrivendo il trash, sarei dovuto ricorrere proprio a quelle mediazioni che, alla fine, l’avrebbero ucciso.

Di solito gli osservatori credono di raggiungere precisione e imparzialità ponendosi in orbita geostatica sull’oggetto del loro studio, avvertendo nel frattempo della loro totale non-appartenenza all’ambiente che analizzano. lo invece non mi trovo sopra, ma dentro al trash. Lo osservo e lo difendo attivamente dagli attacchi dei suoi molti nemici.

 

1. Come nasce un Giovane Salmone

Secondo il credo dei mediocri che governano la nostra estetica tutte le cose che ci circondano non possono che ricadere necessariamente in uno dei due settori contrapposti: o brutto o bello, o alto o basso, o culturale o sottoculturale, o/o. All’origine di questo desiderio di ripartizione non c’è alcuna colpa: è naturale scegliere e catalogare le cose secondo la propria sensibilità. Il torto nasce quando la sensibilità personale viene sostituita dall’imposizione del pregiudizio estetico.

Chi accetta e pratica questo comportamento manicheista rinuncia a giudicare un evento in base alla rispondenza con il proprio gusto e si dedica totalmente al pregiudicarlo in base alla sua consonanza con un canone imposto. Nel 99 per cento dei casi quel canone è chiamato «valore culturale». Insomma, chi accetta il pregiudizio delega a terzi la formazione del proprio gusto.

Il pregiudizio estetico possiede una forza che a volte può far perdere le speranze a chi voglia combatterlo: di fronte a una persona che lo applica, la ragione non riuscirà mai a spuntarla. Se uno di questi personaggi è determinato a non voler vedere un certo film solo perché Maurizio Porro ne ha parlato male sul Corriere della Sera, nulla riuscirà mai a fargli cambiare idea. Il pregiudizio estetico è come un torrente impetuoso, inarrestabile, che con la sua forza cerca di convogliare a valle il consenso di ogni essere pensante.

Ed ecco che sulle rive di quel fiume avviene la nostra trasformazione. Siamo ritti sulla sponda e osserviamo il flusso dell’acqua. Possiamo restare lì e continuare a chiamarci osservatori, ascetici e al di fuori di ogni corrente. Possiamo gettarci in quel turbinio e farci comodamente trasportare nell’esaltazione del consenso collettivo. O infine, ed è ciò che vi invito a fare, possiamo sì gettarci in acqua ma, trasformati in Giovani Salmoni del Trash, dobbiamo essere pronti a risalire questo fiume ribollente di boria e ignoranza, dobbiamo raggiungerne le fonti e renderle aride.

 
 

2. Come agisce un Giovane Salmone

I Giovani Salmoni, nonostante il loro ruolo di osservatori consci e difensori del trash, sono perfettamente uguali ai trashisti, ossia a quei milioni di persone che applicano, cercano, usano e sfruttano il trash senza però rendersene assolutamente conto.

Ai Giovani Salmoni piacciono le cose brutte, basse e sottoculturali che brutte, basse e sottoculturali però non sono realmente, ma tali vengono ritenute dai misoneisti, soprattutto da quelli che vedono costantemente intaccato il proprio ruolo dominante.

Per esempio, ai Giovani Salmoni piace guardare la televisione, non solo per fare un dispetto alla scrittrice Susanna Tamaro e ai suoi lugubri conniventi, ma proprio perché a loro piace.

Ai Giovani Salmoni del Trash piace il King Bacon di Burghy: affrontare la cedevolezza del pane intriso di salsa, attraversare le foglie di insalata, il bacon che scrocchia e finalmente, a metà della polpetta di carne, far incontrare l’arcata dentaria superiore con quella inferiore e in quel momento pensare a Gualtiero Marchesi e a tutti i detrattori del fast food.

Ai Giovani Salmoni del Trash piace guardare gli edifici IACP dalle cimase vagamente postmodern stagliate contro l’azzurro del cielo, meglio se con gli occhiali da sole che fanno da polarizzatori, e fissando le loro forme e i loro colori inusuali richiamare alla memoria i testi degli architetti aggrappati al razionalismo più di quanto facciano certe signore con i loro fustini di detersivo.

Insomma, ai Giovani Salmoni piace fare tante cose che le menti eccelse dell’estetica established, se conoscessero il vero senso dell’espressione, definirebbero trash. Ma a loro piacciono senza condizioni né limiti e, quello che più conta, piacciono spontaneamente. Non è mai affettazione di un gusto degenerato. Se un Giovane Salmone dice che gli piace ascoltare technorave, la drum che pompa, le urla campionate, i giri tanto banali da cadere nel campo gravitazionale del pianeta Pace-Panzeri-Pilat, lo dice perché è vero che gli piace.

 

 

3. I cinque pilastri del trash

Dunque, proprio come fa un trashista, anche il Giovane Salmone si esprime liberamente nelle proprie scelte estetiche. Questa libertà di espressione del proprio gusto è uno dei cinque pilastri del trash ed è un atteggiamento condiviso da milioni di persone anti-intellettuali.

Si potrà osservare che questa è una libertà condizionata, poiché, dicono, le masse sono controllate, il loro gusto è gestito dall’alto e i loro rappresentanti non posseggono alcuna facoltà di discernimento. Ma questo non è quasi mai vero. Anzi, è vero il contrario. Sono gli intellettuali a essere rigorosamente controllati e gestiti da se stessi e dall’immagine che si sono autocostruiti. Sono gli intellettuali, vero popolo bue, a non avere alcuna facoltà di discernimento, ad accettare tutto ciò che viene porto loro con lo sviante timbro di “evento culturale” e a rifiutare platealmente il resto.

Troppo spesso si dimentica che la massa è fatta di singoli. Certo, qualcuno tenta di guidare il gusto, ci riesce benissimo e molti cadono in questa trappola, ma alla fine nessuno segue esclusivamente la strada indicata. Fate un giro per i mercati rionali, stazionale davanti alle discoteche periferiche o alle scuole pubbliche, prendete l’autobus invece del taxi e vedrete come i diversi gusti imposti vengono mescolati, alterati, personalizzati fino a essere resi irriconoscibili. La contaminazione è un altro pilastro del trash.

E se nella maggior parte dei casi le commistioni sono eseguite in maniera sconcertante o in base a giustificazioni sommarie è perché si risponde, inconsciamente, ai dettami di due ulteriori pilastri: l’incongruità e il massimalismo, ossia il rifarsi a un modello senza preoccuparsi di imitarlo perfettamente.

Un’analisi più attenta del semplice giudizio sbrigativo e quasi infastidito espresso dagli intellettuali sulle tendenze di massa dimostrerebbe come quella libertà più che condizionata è guidata. Dietro quella libertà si nasconde un’azione che costituisce la vera molla principale di tutto il comportamento trash: il copiare qualcuno. Se il fine di questi costanti tentativi di emulazione fosse il semplice emulare per la necessità di emulare, se il risultato di questo inarrestabile imitare fosse un esercito di cloni perfetti come i replicanti di Grace Jones nel video di Demolition Man, allora ci dovremmo prostrare al suolo davanti a chi tuona che siamo un branco di pecoroni. Invece questo non avviene: si imita non per il gusto sterile di imitare e confondersi con mille altri, ma per poter spiccare all’interno del proprio gruppo. Inoltre il risultato di questa emulazione non è mai simile al modello. Si tratta dunque di una emulazione fallita.

Nel noto programma di vendite a domicilio Domenica con Semeraro, trasmesso da varie Tv locali un po’ in tutta Italia, il presentatore Walter Carbone cerca di emulare Pippo Baudo, ma non potendo invitare Madonna e dovendo ripiegare su Mario Tessuto, il suo risultato è trash.

Nei suoi libri e film Alberto Bevilacqua cerca di emulare certi artisti aulici, ma innestando l’estetismo decadente sulla crapulaggine parmense, il suo risultato è trash.

Durante il TG4 Emilio Fede cerca di imitare la CNN, ma circondato da collaboratori surgelati come il tristemente celebre Paolo Brosio dal Palazzo di Giustizia dì Milario, íl suo risultato è trash.

Quest’ultimo pilastro, l’emulazione fallita, è dunque importantissimo e basta da solo a soddisfare ogni tentativo di spiegazione poiché, enunciandolo, è già venuta a galla la formula matematica del trash:

INTENZIONE - RISULTATO RAGGIUNTO = TRASH

Per chi ama la precisazione ecco l’emulazione fallita trasformata in una formula matematica ancor più formalizzata, ma di facile applicazione:

kS – R = T

dove:
k = una costante (intenzione, povertà di mezzi, incapacità, contaminazione, incongruità, massimalismo, ritardo ecc.) che altera lo scopo
S = scopo, cioè l’emulazione di un modello
R = risultato, ciò che si ottiene
T = trash!

Di fronte a un evento estetico si provi ad applicare questa formula. Se T è diverso da 0, si è di fronte al trash. Semplice, tanto che non pare necessaria nessuna spiegazione ulteriore. E invece non è così, per colpa di quella k. Se non ci fosse quella costante d’alterazione tutte le emulazioni sarebbero riuscite e noi ci troveremmo a vivere (meschini!) in un mondo senza trash, davvero noioso e per nulla interessante. Invece la k c’è, assume forme infinite e la sua individuazione rende appassionante lo studio dei fenomeni trash.

 

 

4. Primus inter pares

Nonostante la verità della formula che abbiano visto nel capìtolo precedente accompagní da sempre l’umanìtà nelle sue espressioni estetiche, pochi sono coloro che vi hanno dedicato un’attenzione che sia andata al di là della semplice presa in giro, lasciata cadere da una posizione forzatamente elevata.

L’unico sviluppo interessante di quella formula presente in tutta la letteratura italiana del Novecento è offerto dalle canzoni-saggio Tu vuò fa’ l’americano e Torero di Renato Carosone. I testi dei due brani hanno parecchie similitudini, tanto da far presupporre che il protagonista sia lo stesso in entrambi i casi. Assumiamo anche noi questa tesi. Ricorderete tutte le situazioni narrate nei testi. Siamo negli anni Cinquanta: all’indomani della caduta del Fascismo, riacquistata la libertà espressiva, un giovanotto napoletano si appassiona ai miti hollywoodiani e tenta di emularli col solo fine di spiccare quando passeggia per via Toledo. Allora inizia a travestirsi da americano, porta i jeans, cappellini con visiera da giocatore di baseball oppure si fa crescere basette sudamericane e indossa sombreri (splendido esempio di massimalismo: i toreri sono spagnoli, parlano dunque spagnolo. Lo spagnolo si parla anche nei Paesi dell’America Latina, dai quali venivano i balli allora più in voga. Dunque i toreri, per il semplice fatto di parlare spagnolo, devono portare il sombrero messicano e le loro basette sono sudamericane).

Ma il giovanotto partenopeo è disperatamente votato al trash: non solo dopo aver bevuto whisky e soda si sente male, ma quando va a ballare vestito come Tyrone Power in Sangue e Arena, mescola il bolero con un cha cha cha (contaminazione, incongruenza e massimalismo!).

Come vedete i pilastri del trash ci sono tutti. La grandezza di Carosone, però, non sta tanto nell’averli individuati perfettamente, quanto nel modo che egli usa per sottolineare il fallimento del giovane illuso, ponendosi non al di sopra degli eventi, ma dichiarandosi primus inter pares. Carosone è meritevole prima di tutto perché decide di compiere la sua osservazione, e poi perché non la lascia cadere da una cattedra inesistente, ma usa gli stessi mezzi cui ricorre il criticato. Per prendere in giro il fanatico del rock’n’roll, il musicista ripete ritmi che si richiamano a quello stile. Per colpire chi ascolta bolero e cha cha cha usa proprio un cha cha cha. Questa è la strada più difficile. Come sarebbe stato facile dire: «tu, napoletano, ti perdi dietro a certi ritmi d’oltreoceano invece che ascoltare le canzoni della tua città», adagiando le parole su tappeti tarmati di violini e mandolini. Carosone è dunque un vero Giovane Salmone del Trash, perché pur avendo compreso quanto ridicolo si celi dietro certe scelte emulative non le evita, ma vi ricorre anch’egli. Se non diventa ridicolo a sua volta è perché fa certe scelte senza mai prendersi troppo sul serio, facen-doci intendere che in fondo anche a lui potrebbero essere imputate quelle accuse di emulazione fallita che egli muove al protagonista delle due canzoni. Carosone annulla dunque l’alto e il basso, il ruolo docente e quello discente e unisce nel suo Prodotto critica e autocritica.

 
 

5. Territorial Pissing

Ma casi come quello di Carosone sono rari. All’apparire del trash, infatti, scattano in certi individui componenti di inaccettabile e ingiustificata superiorità. La delegittimazione di questi comportamenti deve costituire uno degli impegni di ogni Giovane Salmone.

Il fallimento del tentativo di emulazione e il paragone di questo con il modello originario spingono molti a ridere del trash altrui, tacendo del proprio. Tutti ridiamo del trash e tutti sbagliamo, poiché non siamo mai motivati nella presa in giro.

Nascono così i sorrisini di compassione che il presunto superiore fa quando tratta la materia del presunto inferiore. Un esempio di questo atteggiamento è rappresentato dalle trasmissioni della serie televisiva Mai dire TV, condotta dal trio Gialappa’s Band, che più recentemente si è prodotto anche in un commento in diretta delle partite del mondiale di calcio USA ‘94. Nelle loro performance i tre conduttori sono invisibili e questo rendersi invisibili, questo distaccarsi dalla realtà, dalla tangibilità non è solo un atto di vigliaccheria, ma è anche il più tipico comportamento anti-trash: lancia il sasso e nasconditi, prima di diventare tu stesso bersaglio di altri sassi. Ben celati, per esempio, i tre passano in rassegna brani tratti dai palinsesti di piccole emittenti locali. La scella è ottima: la televisione locale è uno dei più alti esempi di emulazione fallita. Purtroppo, invece di proseguire in un’osservazione imparziale e al limite della scientificità della trashitudine di quelle emittenti, i conduttori di Mai Dire TV si esibiscono in una serie di battute e prese in giro assolutamente gratuite, poiché trasmesse da una rete (Italia 1) che nell’era post-Freccero è precipitata nelle regioni della più desolante mediocrità, fatta di filmetti californiaini e show da ripristino della pena capitale e per la quale raggiungere i livelli del trash sarebbe già un successo di originalità.

Questo comportamento è originato da un atto di territorial pissing intellettuale. Il territorial pissing è praticato in natura da altri animali ed è stato mantenuto dai cani anche dopo il loro addomesticamento. Ho scelto l’esempio dei cani da guardia per due motivi: perché ha alla sua base un fenomeno di addomesticamento (tanto simile a quelli di urbanizzazione e colonializzazione che determinano il trash, come si vedrà più avanti) e perché meglio incarna coloro che, tra gli umani, si credono i padroni, ma sono tenuti ben saldi al guinzaglio da qualcun’altro.

I cani, per segnare i limiti del territorio di cui si sentono padroni, orinano lungo i confini e lungo le cancellate delle ville cui sono messi a guardia. Poveri cani: igno-ano che i veri padroni di quello spazio non sono loro, ma quelle persone che preparano loro le ciotole e li portano a spasso con il guinzaglio. Questo è il territorial pissing canino. L’uomo, per segnare i limiti del territorio estetico o sociale in cui si sente dominante, non orina, ma fa di peggio: ride, compassiona o distrugge con la critica, creando così una barricata virtuale (a volte, però, addirittura fisica, come nel caso della già vista invisibilità della Gialappa’s Band) dietro la quale crede di essere al sicuro dalle contaminazioni del ridicolo.

Ecco dunque compiuta una prima, sommaria descrizione dei trashisti e dei loro rivali. A illustrare lo squallore di questi ultimi rispetto alla ricchezza (anche umana) dei primi, bastano i diagrammi a flusso dei loro processi mentali:

Trashisti (Carosone)

Emulazione

Incongruità

Massimalismo

Contaminazione

Fallimento dell’emulazione

Trash

 

Antitrashisti (Gialappa’s Band)

Trash

Sottolineatura del ridicolo altrui

(territorial pissing)

Inutile specificare, a questo punto, da che parte vuol stare un Giovane Salmone. Ma attenzione: lo scenario non è così semplice. Le due fazioni si suddividono con diverse sfumature, che affronteremo più avanti.

 
 

6. Trans & trash

A rendere più complessi lo scenario e l’intera classificazione del trash entra in gioco il fatto che lo stesso trash supera il concetto normalmente diffuso di classificazione.

A proposito di questa difficile inquadrabilità della materia di cui ci occupiamo esiste un parallelo illuminante tra due parole legate da un destino che va oltre quello fonetico. Entrambe indicano due terre di nessuno, due mondi che, seppure generati dalle categorie usuali, non riescono a essere classificati in nessuna di queste. Le parole sono Trans e Trash.

Qualsiasi tentativo di classificare un transessuale si rivela subito insufficiente. Il transex è indefinibile fisicamente: benché presenti caratteri di entrambi i sessi non è né uomo né donna. E anche psicologicamente viene a mancare la sicurezza di una definizione: il trans non è eterosessuale, né omosessuale. È, appunto, trans-sessuale, ossia ha supera- to qualsiasi sessualità. Racchiudendole tutte e negandole allo stesso tempo.

Dunque l’unica cosa da fare è creare una nuova categoria in cui poter porre il Trans-sein, superando la morale e le convenzioni arbitrariamente prestabilite.

Ma le affinità non finiscono qui: nessuna categoria è più parallela al trash di quella trans. Dimenticate da subito i trans di lusso, quelli tirati a lucido tipo Ru Paul, in cui ogni paillette pare sistemata da un architetto. Il trans-trash è quello degli autoscatto sfocati della rivista Stranafemmina: l’insospettabile commercialista che si fotografa allo specchio, con sullo sfondo una disordinata camera da letto Aiazzone. Altro che piume e lustrini. Nella mia lunga frequentazione dell’universo trash ho visto annunci in cui i trans più ruspanti indossavano colorati prendisole con uno sbalorditivo effetto Sora Giulia. Il trans-trash ci offre un’immagine femminile davvero massimalista (basta un reggicalze a fare una donna?), incongrua (l’ombra bluastra di una barba contro cui si dichiara sconfitto qualunque fondotinta), povera (cotone provvisorio nel reggiseno invece di siliconature permanenti). Massimalismo, povertà, incongruenza... nel trans-trash, di notte, si incarna la formula presentata precedentemente. Ed è ben presente anche la variabile k, quella che causa il fallimento dell’emulazione. Anzi, mai come in questo caso essa è concreta e toccabile con mano, visto che tra l’intenzione di apparire donna e il risultato finale frustrato vi sono alcuni centimetri di carne, più o meno pulsante.

 
 

7. Trash, Camp & Kitsch

Quando ci si accorge del Favoloso Universo del trash è ormai troppo tardi per poterne fare ancora parte. Quando si è trash non si sa mai di esserlo. Non appena, però, nasce un primo fugace bagliore di rivelazione, quando ci si comincia a porre domande sulla struttura degli eventi estetici che costellano la nostra vita, ecco che si abbandona all’istante la Rutilante Galassia del trash. È normale: una volta scoperto di aver fino ad allora condotto una B-life, si farà di tutto per rinnovarsi in una A1- life.

Una volta usciti dal tunnel del trash si può entrare a far parte di uno dei due possibili universi paralleli eppure divergenti: quello del camp e quello del kitsch. La destinazione finale dipende dall’atteggiamento che si assume una volta venuti a conoscenza della propria trashitudine. Se la si accetta si diventa camp, si espone senza vergogna il trash, stando attenti a sottolineare che «io, però, non sono veramente così!». Se si fa di tutto per rifiutarla si diventa kitsch, si nasconde il trash e quando ne traspare anche un lembo si è pronti a precisare che «io non sono assolutamente così!». Veramente c’è anche un’altra possibilità, ossia quella di diventare un Giovane Salmone del Trash, che non si lascia andare al flusso della corrente verso le mete scontate del camp e del kitsch, ma risale il flusso del trash per assorbirlo, analizzarlo, perdersi al suo interno. E a ogni salto controcorrente in questo torrente inarrestabile, il Giovane Salmone si chiede addolorato: «Perché io non sono così?». Ma rientrare in questa categoria è cosa assai difficile, soprattutto se si vuole conservare una propria dignità.

Camp

L’esponente camp non ripudia il trash, ma il suo approccio è imperfetto. Il campista è un conoscitore parziale del trash, che accetta con un po’ di vittimismo, come per dire: «Questo è ciò che passa il convento, poveri noi. Per non restare affogati nel mare di spazzatura, cerchiamo di giocarci e di prenderla in giro». È la tipica filosofia su cui si basa la programmazione di RaiTre. Il camp può essere puro o evolutivo. Il camp puro è l’osservazione dei moduli trash effettuate da un esterno, spesso acculturato, che si diverte a giocare con quegli elementi, dopo averli scoperti, cercando di ricreare nuove commistioni artificiali. Il camp evolutivo è lo stadio cui giunge un trashista che si accetta dopo che i suoi occhi sono stati aperti, Calibano di fronte allo specchio che non scappa inorridito, ma resta affascinato dalla propria mostruosità e fa di tutto per sottolineare i suoi aspetti più orribili (pensando però a una prossima plastica).

Il trionfo del camp puro si ha negli ultimi film di Almodòvar, nei quali l’esagerata accumulazione di elementi disparati più che da un contagio naturale nasce da un’entropia intellettualizzata, a circuito chiuso, creata da un campista per un pubblico di campisti, non certo di trashisti.

Il migliore esempio di camp evolutivo è invece offerto da alcune televisioni private. Agli inizi i venditori di pentolame e dimagranti dele televisioni locali erano spontaneamente (superbamente) trash in tutto. Nell’immagine: vestiti come parrucchiere o banconieri di salumeria finalmente in balera aggiungevano qua e là qualche lustrino o lasciavano intravedere porzioni di seni e gambe per emulazione del livello superiore televisivo cui si rifacevano. Nel linguaggio: espressioni ruspanti, scorrette e dialettali mescolate a frasi del più trito neogergo televisivo: «il tempo è tiranno», «il bello della diretta», «il numero in sovraimpressione», «il nostro centralone sta scoppiando» e altri motti assorbiti per emulazione da reti nazionali e da telepersonaggi di spicco. Si sarebbe potuti andare avanti così all’infinito, con un germinare inarrestabile di eventi trash cui forse non avremmo resistito, soccombendovi, o che avremmo completamente ignorato. Ma ecco apparire all’improvviso un elemento rivelatore, vero deus ex machina che, emerso da una nube di polvere d’oro ha portato con sé la luce per molti: Blob.

Blob, senza parlare (ed è ciò che lo differenza, in meglio, da Mai Dire TV), ha codificato il trash, almeno quello televisivo (anche se una simile distinzione non ha motivo di esistere, visto che tra vita e televisione il trashista non fa alcuna differenza), soprattutto nel suo aspetto di esagerazione. E, rivedendosi, quei protagonisti che in origine si comportavano così rispondendo solo alla propria spontaneità, vagamente mediata da una naturale emulazione del visto-in-tv, sono caduti in trappola, campificandosi. Ossia hanno cominciato a emulare non più il personaggio di livello superiore, ma se stessi. Blob ha aperto loro il terzo occhio e, invasi da tutta questa luce, quei personaggi si sono visti, hanno conosciuto le proprie esagerazioni e hanno fatto di tutto per esagerarle ulteriormente. Ed ecco cos’è il camp: il trash che si è rivelato a se stesso, ma che, spintosi troppo in là nel gioco, non è più trash, poiché non è più spontaneo. Tristemente, dato che la campificazione è un processo che non risparmia nessuno, lo stesso Blob ne è rimasto vittima e, lungi dal proporsi come acritico détournement situazionista quale era nel 1989, è ormai diventato l’emulazione di se stesso, in una giostra scontata di fantasmi. Così, mentre il trash si evolve, cambia e distrugge continuamente il suo stesso passato, il camp si congela nell’attimo in cui è nato, perso in un loop da cui pare non vi sia via d’uscita.

Kitsch

Con un errore diffusissimo si ritiene che il kitsch sia un sinonimo di cattivo gusto. Lasciamo pure questa illusione alle fashion copy più ricche e incolte che non hanno mai consultato il Duden. I Giovani Salmoni, invece, staranno dalla parte della più severa filologia tedesca, per la quale kitsch identifica un’opera d’arte (per lo più letteraria e tardo-romantica) che mira a essere elevata e sdolcinata e per farla elimina dal territorio della sua narrazione tutto ciò che è basso. Questo nelle intenzioni, poiché i risultati appaiono disperatamenti scadenti e patetici quando vengono raffrontati al modello. Così, tentando di nascondere il trash, se ne crea dell’altro.

Kitsch non è il risultato ottenuto ma, il processo con il quale lo si ottiene, è l’atto che Kundera, in Nesnesitelnà Lehkos Bytì, definisce come letterale eliminazione della merda dalla propria vita. Dunque il kitscher non è colui che fa una scelta di rigore, seguendo i moti del proprio istinto, ma è colui che vorrebbe essere ciò che non è e, circondato, sommerso, soffocato dalla merda (il trash) combatte ogni giorno un’estenuante battaglia per nasconderla.

L’esempio più diffuso a livello popolare (e proprio per questo grave) di pulizia etnica eseguita in nome del kitsch è quello commesso quotidianamente dalla Fininvest su due dei principali prodotti dell’immagionario trash: le telenovelas e i cartoni animati giapponesi. Terrorizzata anche dalla più piccola pillacchera di merda, della quale nega persino l’esistenza, la Fininvest compie ogni giorno grandiose operazioni di kitschaggio, distruggendo la spontaneità trashista e sostituendola con prodotti stucchevoli.

Telenovelas e cartoni animati giapponesi vengono presentati sulle emittenti più ruspanti nelle loro forme originarie. L’intervento si limita esclusivamente al doppiaggio. I risultati sono spesso capolavori di massimalismo trash, come nel caso della telenovela Rosa... de lejos (Rosa... da lontano), il cui titolo nella versione italiana non è stato tradotto, ma tout court massimalizzato in Rosa De Lejos, dove forse si credeva che De Lejos fosse il cognome di Rosa...

Abituata a celebrare la falsità dell’immagine, la Fininvest, prende invece le telenovelas, le rimonta, le pulisce, le integra persino con sequels di produzione autoctona. Con aria schifata, e in preda ad attacchi di kitsch furioso, i responsabili Fininvest eliminano le sigle originali sudamericane cantate da idoli locali o anche i motivi eseguiti da ignoti cantanti neoromantici italiani per sostituire il tutto con sigle dalla grafica rinnovata, accompagnate da motivi già noti, ma così drogati dall’equalizzazione che, smanettassimo per due ore di seguito, non riusciremmo mai a ripetere uguali sugli impianti di casa nostra. Tutto è perfetto dal punto di vista tecnico, ma dov’è la spontaneità originale dell’opera? E con che diritto la Fininvest procede in questo tentativo di educazione estetica di un gusto ribelle come quello incoltivabile del trash?

Allo stesso modo vengono trattati i cartoni animati, operando ancora una volta a livello di sigla. Senza pietà vengono buttate via mirabili marcette giapponesi o canzoni in italiano eseguite da gruppi ombra o da antichi cantanti sixties appositamente riesumati. E il cartone animato viene banalizzato con motivetti-fotocopia ammiccanti e pseudo-attualizzati, veri e propri crimini contro l’infanzia, concepiti da Alessandra Valeri Manera e perpetrati da Cristina d’Avena. Potremmo mai perdonare a costoro la kitschiazzazione di Lupin III, eseguita abolendo l’affascinante valzer musette che ne apriva e chiudeva gli episodi?

 
 

 

8. Caldi e freddi

Abbiamo fatto un grande passo avanti: abbiamo definito le parti in gioco nella battaglia estetica che ogni giorno si svolge. Da una parte ci sono i trashisti puri, i Giovani Salmoni e i campisti che mai nasconderebbero la propria essenza trasholina. Dall’altra ci sono i kitscher. La differenza sostanziale tra questi due gruppi, quella che poi crea tutte le altre diversità nel modo di porsi in relazione agli eventi estetici, sta nell’approccio all’intellettualità. Chiamiamo approccio caldo quello dei primi e approccio freddo quello dei secondi.

I caldi

A livello inconscio (trashisti) oppure conscio (Giovani Salmoni e campisti), i fautori dell’approccio caldo sanno che l’universo estetico è composto da elementi, tutti indipendenti e perfettamente amalgamabili tra loro in una serie infinita di combinazioni. Veri e propri atomi, questi elementi non sono ulteriormente divisibili. Essi possiedono delle caratteristiche formali, ma sono del tutto privi di valori morali o estetici. Di ogni elemento si potrà dire quanto dura, quanto è grande, magari anche cos’è, ma non si sarà mai in grado di esprimere al proposito un giudizio, una valutazione extraformale: non si potrà dire se è bello o brutto, se resterà o passerà rapidamente di moda, se risulta conveniente citarlo o non citarlo in un particolare contesto, se ha o meno un valore. Ecco, il valore: questo è un concetto talmente momentaneo che vi si può rinunciare in partenza. Pensiamo alla plastica, materiale sempre considerato povero, ma misteriosamente passato dalle regioni del disvalore a quelle del supervalore nel caso degli orologi Swatch.

In realtà non è la plastica a dare valore agli Swacth. Quando la plastica (elemento neutro) viene assemblato con altri elementi (viti, ruote, lancette, vetro, idea, design) a creare uno di questi orologi, a fornire il valore al Prodotto finale non è nessuna delle caratteristiche degli elementi che lo compongono (costo della plastica, fama del designer...), bensì le intenzioni che lo sorreggono: creare un oggetto di moda e in serie limitata. Per quanto riguarda l’effetto trash di questi orologi come dimenticare i Watch splendidamente reclamizzati sulle reti televisive locali dall’asmatico Roberto il Baffo?

On a mis de soi-meme partout, tout est fécond, tout est dangereux et on peut faire d’aussi précieuses découvertes que dans les Pensées de Pascal dans une réclame pour un savon. Queste parole di Proust sono l’esempio migliore della vacuilità delle categorie convenzionali e ci invitano a guardare il mondo liberato dalla sua rete di meridiani e paralleli artificiali.

I trashisti-caldi creano dunque i loro Prodotti così, prendendo alcuni Elementi da una serie infinita e riunendoli in un Prodotto. Fin qui l’azione è meccanica e il Prodotto avrà le stesse caratteristiche formali sommate degli Elementi che lo compongono. Naturalmente, qualsiasi azione di produzione estetica non è mai soltanto meccanica, ma è governata da qualcosa di sfuggente (la già vista costante k). Questo qualcosa si potrebbe chiamare con i nomi genio, creatività, demone o con altri mille insufficienti termini, alcuni dei quali disgustosamente romantici; scelgo, per comodità, intenzione. L’intenzione assegna un valore al prodotto, lasciando indenni gli elementi. Se l’intenzione corrisponde a un desiderio di emulazione e il risultato dimostra poi il fallimento di quel tentativo, ecco che nasce un Prodotto trash.

I freddi

Dunque non sono i Prodotti in sé a essere infami, sono le Intenzioni che stanno dietro di loro a essere abiette. Purtroppo questa verità fondamentale non è stata ancora compresa e noi caldi siamo vittime innocenti di chi ha deciso di procedere per contrapposizione, cioè degli intellettuali kitscher e freddi.

I fautori dell’approccio freddo si comportano in maniera ignobile. Questi esseri costituiscono purtroppo la maggior parte dell’attuale popolazione intellettuale. I loro caratteri primari sono: una certa propensione agli aspetti estetici nobilitati dell’esistenza, una notevole mediocrità e chiusura mentale, una eccessiva sopravvalutazione di se stessi, del proprio operato e dei propri gusti, un allontanamento definitivo, perlomeno in pubblico, dalla vita reale.

Si potrebbe pensare che il modus operandi dei kitscher sia simile a quello dei caldi, con l’intenzione rappresentata dal desiderio di pulizia, di elevatezza, di cultura. Invece non è così: i freddi operatori di kitsch ignorano totalmente l’esistenza degli elementi poiché entrano nell’universo culturale a un livello più superficiale e molto più rozzo, il livello dei Blocchi. Un Blocco può essere visto come una sorta di Prodotto, ma tenendo presente alcune fondamentali differenze. Prima di tutto il freddo acquisisce il Blocco, là dove il caldo costruisce il suo Prodotto. In secondo luogo la materia collante tra gli elementi del Prodotto, cioè l’intenzione, nei caldi è di tipo diversissimo, mentre nei freddi è sempre una e una soltanto: la supponenza. Un blocco non è sezionabile, è un insieme di elementi talmente irrigidito dal cemento del pregiudizio estetico da apparire come una cosa sola. Anzi, da apparire come la sola cosa possibile. Per il kitscher oltre il blocco c’è il resto del mondo, c’è la presunta ignoranza, c’è il brutto, il sottoculturale, il non-citabile, c’è ciò di cui vergognarsi e che si deve nascondere.

I blocchi vengono acquistati in vari modi. Il più diffuso e nefando è la preparazione scolastica. A ogni livello, dalle elementari all’università, si creano potenziali detrattori di trash cui si consegnano con cerimonie ufficiali pacchetti omnicomprensivi di cultura premontata, evitando di fornire invece i molto più pratici kit per il fai da te. Ma un Blocco può essere anche considerato come l’insieme dei diktat forniti da un quotidiano o da un opinion-maker...

Mentre i caldi più evoluti, campisti e Giovani Salmoni, giocano con la cultura, prendendola, smontandola, dissacrandola, ricostruendola personalizzata e demistificata, i freddi hanno per le mani quei Blocchi a-merdici, puliti, netti, impersonali e acquisiti precotti. Gli operatori di kitsch non sono assolutamente in grado di andare oltre, perché non sono assolutamente in grado di pensare. Compiono azioni di separazione solo a Blocchi e la loro attività principale è la sostituzione di dogmi. O anche la sostituzione della merda umana con una sostanza elevata e artificiale, falsa e illusoria.

Insomma il kitsch, come tutti i tentativi di conservazione della presunta purezza della razza, è un atteggiamento assolutamente deprecabile e attuato da imbecilli, di fronte ai quali qualsiasi reazione è giustificata, dall’insulto alla bomba.

 
 

9. Colonizzatori alla colonia

In un articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa del 12 marzo 1993 Pier Francesco Loche scriveva: “Non c’è ridicolo solo dove l’uomo non ha mai messo piede”. Questa frase è vera, però solo a metà. Per raggiungere la pienezza della verità si dovrebbe precisare: ”Non c’è ridicolo solo dove l’uomo occidentale e urbanizzato non ha mai messo piede”.

A cadere nella spirale del trash sono, infatti, sempre i più deboli, le vittime dei processi selvaggi e improvvisi di urbanizzazione e di occidentalizzazione. Le miscele trash più esplosive si hanno quando l’Ingenuità originaria incontra l’Elettronica, quando il Lumpenproletariat eredita improvvisamente la Tecnologia. Nascono allora effetti incontrollabili (pensate ai cremaschi con l’autoradio volume-pumped).

In campagna (una campagna ideale, allo stato originario) il trash non esiste. I rifiuti, infatti, nascono e si moltiplicano là dove maggiore è il consumo e più urgente la necessità di rinnovare (rinnovamento esclusivamente formale!) al fine di accrescere la voglia verso il nuovo consumo. In campagna, invece, nulla viene buttato via, né materialmente né metaforicamente. I rifiuti materiali vengono riciclati, le deiezioni sono usate come concime. Le abitudini diventano tradizioni e mutano a fatica.

Un ottimo esempio di come il rinnovamento trashista sia esclusivamente formale è questo: ho fatto ascoltare ad alcuni adolescenti un brano folk in dialetto calabrese, destando l’ironia e le risate dei ragazzi che credevano di trovarsi di fronte al trash (loro lo chiamavano brutto e vecchio). Ho aggiunto a quel brano una traccia di batteria elettronica techno abbastanza potente e dei campionamenti tratti dal testo cantato. Riascoltando lo stesso brano gli stessi ragazzi si sono entusiasmati. Eppure era cambiata solo la forma, poiché l’essenza (ossia la semplicità binaria del ritmo che si ritrova in tutte le espressioni musicali popolari, dal folk alla dance) non era mutata.

Ormai, situazioni di campagna, ossia di assenza del trash si possono osservare solo in quelle poche remote zone dell’Albania dove non giunge il segnale di RaiUno. Ma presto anche lì accadrà ciò che è accaduto in Africa i cui abitanti, affascinati dal glamour d’orientamento kitschizzante dell’invasore, hanno iniziato a rinnegare la propria essenza.

Là, tra gli infiniti mali causati dai colonizzatori, il peggiore è forse quello causato da una colonia, il profumo Ploum- Ploum, celebrata in uno spot autoctono risalente a metà degli anni Sessanta.

Il breve film ci introduce ai momenti topici nella giornata di un africano evoluto. Eccolo al mattino, davanti allo specchio, mentre si rade e si cosparge di Ploum- Ploum. Poi siede a una scrivania, impugnando il ricevitore di un telefono, ancora avvolto nella sua nube di Ploum- Ploum. E infine, stretto a una avvenente negra, balla languidamente sullo sfondo di una catena di squallide lampadine colorate, di quelle che in occidente non si usano più neanche nel Festival de l’Unità di Zogno (BG), continuando a esalare sentore di Ploum-Ploum, la cui emivita è evidentemente superiore a quella del cobalto-60.

Guardando questo filmato pubblicitario viene spontaneo definirlo trash e ridere. Ridiamo perché si tratta di uno spot vecchio? No. Adattandolo ai giorni nostri si riderebbe lo stesso. Perché è un filmato africano? Ci siamo quasi: si ride non perché lo spot è africano, bensì perché lo spot non vuol essere africano.

Nel momento in cui l’africano al profumo di verbena simula una appartenenza a un mondo che non è il suo (ma che è quello appetibile dei colonizzatori francesi) scatta la classificazione nell’universo del trash, capo di imputazione: emulazione fallita.

La colpa, però, non è tutta dei colonizzatori occidentali. In realtà il trash è innato in ogni persona, di qualunque luogo essa sia originaria. Il desiderio di emulazione è una caratteristica comune a tutti gli uomini, fa parte del corredo genetico di tutte le razze umane. Negli africani era assopita. L’occidentalizzazione ne è stata il trigger, il fattore scatenante.

Ma non è tutto. Quello spot è di inusitata potenza anche per quanto riguarda l’uso del massimalismo. Già le parole del jingle esprimono l’inevitabile concetto-a- catena profumo-Francia-seduzione: Parfum de Paris, parfum qui séduit. Ma il mas- simalismo qui va oltre il concetto, si incarna nella materia delle scene, degli arredi. Il film pubblicitario, girato con una fotografia a colori drogati da cartolina balneare Cecami, si snoda lungo scenari accennati, ossia semplici sfondi sui quali spiccano uno o due oggetti alla volta, con una potenza simbolica tale da sconfiggere la mnemonicità delle composizioni religioso-didascaliche medievali.

Sembrerebbe, agli occhi di un qualsiasi kitscher, un’ambientazione “minima-lista ed essenziale”. Si tratta invece del contrario, di massimalismo e ridondanza. Il simbolo, così isolato, così fintamente minimalista, richiama in realtà una accumulazione di concetti, costruiti a formare un castello di ingenuità (e l’ingenuità è il pan del trash). Basta uno specchio da bagno a fare presupporre intorno un intero bagno e oltre la porta un intero appartamento. Il telefono resta sempre il simbolo dell’uomo importante e impegnato: l’unica cosa reale nell’ufficio inesistente del nostro africano è proprio una cornetta di telefono. Per finire, sottolineatura esagerata dell’atmosfera di mondanità, musica, luci e colori in cui si muove questo pubblieroe è la patetica catena di lampadine colorate che pendono dai muri virtuali di un night tanto esclusivo, quanto inesistente.

State ancora ridendo? Allora provate a sostituire lo specchio del bagno con una vasca idromassaggio, la cornetta telefonica con un cellulare, il night esclusivo con la barca a vela e confessate: siamo meno ridicoli dell’africano? Siamo più avanti di lui, più intelligenti, più furbi? Siamo veramente lontani dal trash?

Anche nel trash nulla si crea e nulla si distrugge.

 
 

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10. Il trash dei ricchi si chiama entropia

Dall’ornamentalismo al demeublé, dall’unione di pezzi d’alto antiquariato con oggetti in plastica degli anni Cinquanta alla mescolanza tra design esclusivo e frutti dell’anonymous design, dal métissage al grunge. Negli anni Ottanta le riviste patina-te non hanno lesinato sull’argomento “mescolanza di elementi diversi e (forse) incompatibili tra loro”.

Non era una novità: in passato l’eclettismo ha avuto più di una stagione d’oro e il Coppedè ha segnato un intero quartiere romano. Inoltre, tutto quel fiorire di mix stilistici era uno dei fondamenti dell’estetica postmodernista, popolarizzata anche nell’arredamento di boutique e discoteche.

I più evoluti trend-makers osservano questa tendenza e la chiamano entropia. L’ennesima sosia di Madonna che si esibisce in una remota discoteca del Casertano applica tutto ciò senza curarsi minimamente di dare un nome al suo comportamento.

Abbagliata dall’oro dell’icona di partenza, questa trashista cerca di diventare come lei, ma la sua emulazione è sempre imperfetta, poiché è poligama. Nella sua aspirazione non c’è il desiderio di diventare come Madonna, non copierà mai perfettamente il modello prefisso (e se lo facesse sarebbe un falso e, per tanto, per niente interessante), ma toglierà, aggiungerà, varierà elementi, rispondendo agli stimoli del proprio impellente furore imitativo.

I motivi di queste variazioni sul tema di partenza sono diversi: in primo luogo vi è il fatto che la trashista emulatrice non rinuncia mai a ciò che le piace, né tanto meno rinuncia alla sua spontaneità. Inoltre non ha compiuto alcuno studio approfondito del modello, ma ne ha solo una visione di massima. Infine c’è l’infatuazione contemporanea per più modelli, tutti confluenti nella stessa emulazione. In pratica, questa improbabile sosia diventa un compendio della teoria del trash poiché contiene i cinque pilastri:

1. la libertà di espressione;

2. il massimalismo: se si imita Madonna di Like a Virgin e non quella di Like a Prayer è perché quell’immagine ha avuto il maggiore impatto sul pubblico il quale, proprio per effetto del massimalismo trash, riconosce Madonna quasi solo nei pizzi, nella biancheria intima portata all’esterno e nei capelli biondi;

3. la contaminazione e 4. l’incongruenza: pur ripetendo nell’aspetto Madonna, la sosia si esibisce in brani di tutt’altri artisti, accompagnata, da un’orchestra con un deciso sound liscio. Inoltre Madonna si evolve e cambia aspetto, la sosia resta sempre ferma all’imitazione della Madonna di Like a Virgin.

5. l’emulazione fallita.

Attenzione: anche Madonna è trash in partenza poiché anch’essa emula altre dive con una notevole dose di massimalismo. Infatti, la pop singer americana ritiene ingenuamente che basti farsi bionda per emulare Marilyn Monroe. Ma Madonna fa parte della metà ricca del mondo estetico e il suo trash si chiama entropia.

 
 

11. Degli errori 1: i falsi non sono trash

Il presupposto che sta alla base di tutta la teoria trash è questo: vi sono creatori originali e vi sono loro emulatori dagli esiti più o meno riusciti. L’emulazione è una terza fase, molto evanescente e inafferrabile, che sta tra i due contrari, il vero e il falso.

Il creatore del vero è un artista, è il demiurgo, lo stilista, l’ideatore, il rivelatore, l’iniziatore, mosso da tecnica e demone.

Il creatore del falso (falsario) è un imbroglione, ma anch’egli è un artista, benché limitato. È mosso solo dalla tecnica e non ha spirito. La sua attività è tesa soltanto a copiare pedissequamente il già fatto, a cercare di ripetere il successo già affermato. Non desidera apparire, desidera solo guadagnare. Chi nell’umido di qualche cantina sta producendo in questo stesso momento Vuitton in cartone e Cartier in ghisa dorata non si preoccupa assolutamente di lasciare una traccia che possa identificarlo. Anzi, meno è identificabile dalla Finanza, più il falsario è felice.

L’emulatore-trash è totalmente diverso dal falsario. Egli non vuole falsificare anonimamente un prodotto di successo: vuole fare di più, vuole venire alla luce, diventare celebre, sostituirsi al creatore, imporre la sua versione del prodotto sperando di annientare l’altro. E quanto un emulatore sia identificabile lo dimostra il fatto che non si sceglie un prodotto emulante per errore, ma con cognizione. Si può credere di acquistare una vera borsetta Fendi, poi a casa si scopre che è taroccata (è successo anche a Lady Diana Spenser). Ma quando in uno degli stupendi market hard discount di recente diffusione si acquista un vasetto di crema al cacao Niger invece di Nutella si sa perfettamente cosa si sta facendo. Non si può tornare al supermercato e dire che si è stati imbrogliati, poiché non c’è imbroglio (come nel caso del falso), c’è solo inganno. Il massimalismo ha colpito ancora: il vasetto è uguale a quello della Nutella, ci sono nocciole e il logo è una chiara reminescenza del prodotto originale, ma sull’etichetta c’è scritto un altro nome.

Facile, a questo punto, capire che se l’emulazione è fallita esteticamente (il gusto Niger non è il gusto Nutella), non lo è commercialmente; il pubblico-trash acquista Niger poiché è gratificato due volte: per il prezzo più basso e perché ritiene di aver acquistato qualcosa che, a grandi linee, assomiglia al prodotto originale.

Insomma, sono tutti contenti: il produttore-emulatore, che sogna di soppiantare l’originale, l’acquirente-massimalista, che risparmia, e l’osservatore, cioè io, che ha dovuto compiere un interessante esame comparativo tra i due prodotti (cioè: ho svuotato a cucchiate alterne i due vasetti, ricavandone alla fine anche due stupendi bicchieri spaiati).

 

12. Degli errori 2: immanenza del trash

Tra i tanti errori di valutazione che vengono commessi a proposito del trash c’è quello, frequente, di chi considera il trash come il risultato della svalutazione operata dal tempo su cose precedentemente considerate di qualità. Falsa concezione: è già stato visto come gli elementi non posseggano qualità intrinseche. Se non è accettabile chi tenta di dare agli elementi dei valori generalizzati al di fuori del gusto personale, ancora più esecrabile è chi vede in questi presunti valori un decadimento operato dal tempo.

Un Giovane Salmone esperto è in grado di identificare gli aspetti trash di un Prodotto nel momento stesso in cui quest’ultimo appare. Un Giovane Salmone molto esperto, basandosi sull’apparizione di un Prodotto originario e non-trash, è in grado addirittura di prevedere l’apparizione di un Prodotto trash da quello derivato. E di fronte a simili capacità di preveggenza qualcuno ha ancora intenzione di parlare della trashizzazione operata dal tempo passato?

Il trash non è una qualità che si acquista con il passare del tempo. Il trash è uno stato, una condizione originaria. Purtroppo chi assiste senza un’adeguata preparazione estetica a una delle innumerevoli Schegge di RaiTre sarà portato a credere che Canzonissima ’70-’71 con Raffaella Carrà era accettabile ai suoi tempi ed è trash oggi. Ma allora perché quando sulla stessa rete vede La strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, sempre del 1970, non definisce trash anche quel film? Evidentemente perché c’è dietro qualcosa di diverso dal semplice trascorrere del tempo, né si tratta di diversità nelle presunte qualità dei due Prodotti. C’è dietro quel qualcosa che abbiamo già visto e che è stato chiamato intenzione. Canzonissima ’70-’71 era, è e sarà trash poiché nasceva dall’intenzione di emulare le precedenti edizioni storiche e tuttora apprezzate di quella stessa trasmissione (per esempio quella del 1959), tentativo fallito per diversi motivi (soprattutto i mutamenti sociali che causano una diversa risposta da parte del pubblico a certe offerte). L’intenzione di Bertolucci era un’altra, non importa qui sapere precisamente quale, ciò che conta è sapere che non si trattava di un tentativo di emulazione.

E già, perché in molti prodotti l’intenzione non corrisponde necessariamente all’emulazione! In questi casi, naturalmente, si avranno Prodotti non-trash (come il film di Bertolucci), che esulano dai territori di questa analisi.

Il trash è dunque residente nel Prodotto e si manifesta con lui. Non dovremo aspettare altri vent’anni per definire non-trash la Carrà del 1992 che invece di emularsi tenta altre strade, e conduce un talk-show in spagnolo. Né avremo da aspettare altri vent’anni per definire ultra-trash le ultime prove di Bertolucci, perso in una serie di baracconate hollywoodiane orientali e medio-orientali.

Il trash, signori miei, è immanente.

Bisogna ammettere che, come tutti gli errori, anche questo ha un fondo di verità. Infatti vi sono cose che con il passare del tempo ricevono una diversa accoglienza da parte delle persone, a volte persino dei propri creatori. Ma non è l’oggetto a cambiare: dal punto di vista qualitativo il Prodotto e gli Elementi che lo compongono sono immutabili. Ciò che determina la trasformazione è il mutato rapporto dell’oggetto con il contesto, la sua diversa funzionalità in seguito all’apparire di nuovi Prodotti, di nuovi Elementi, di nuove conoscenze. Quando un Prodotto sfasa il suo rapporto con lo Zeitgeist non diventa trash, ma soltanto junk. La principale differenza tra trash e junk sta nell’evoluzione. Il prodotto trash, infatti, è non-evolutivo. L’apparizione tra i fenomeni estetici di Mal e i Primitives non ha apportato alcun vantaggio all’umanità, né è servito da base per un miglioramento delle conoscenze musicali a livello popolare. È apparso, è durato, è passato. La storia della musica avrebbe potuto fare benissimo a meno di Mal e dei Primitives, mentre senza dubbio non si sarebbe evoluta allo stesso modo se fossero mancati i modelli beat originari cui quel sottoprodotto si rifaceva. Il trash dunque è sterile, ma proprio per questo ci è indispensabile.

 
 

 

13. Il bakismo

L’emergere del trash è indissolubilmente legato al ritardo. La spiegazione è sillogistica:

  1. Il trash ha un suo pilastro nell’emulazione.

  2. L’emulazione, poiché si rifà ad un modello pre-esistente, è necessariamente in ritardo.

        3. Il trash è l’espressione di un ritardo.

Esistono tre ritardi possibili, dalle valenze trash progressive.

Primo livello: emulazione JIT (just-in-time). In fondo non ha alcuno vero effetto trash, poiché ne nasce al di fuori, nell’universo della mediocrità, ma è comunque importante parlarne, poiché i suoi frutti sono facilmente confondibili con l’originale e servono a loro volta da modello.

Capita spesso che l’emulazione JIT abbia un successo pari o addirittura superiore a quello del suo modello. È un’emulazione ricca, poiché fatta con dovizia di mezzi, anzi con gli stessi mezzi usati per lanciare il modello. Si verifica spesso nel settore della musica leggera. Marco Masini era un’emulazione immediata e ricca di Eros Ramazzotti, ma entrambi sono di grado zero, mediocri, puliti da ogni eccesso o spontaneità, quindi trash. Lo stesso si è verificato con i tanti cantantucoli d’après Zucchero (quindi vertiginosamente sottoprodotti di un sottoprodotto), derivati da un presunto modello rock tutto birra e barbe incolte. Qui, in fondo, le basi per un tuffo nel trash ci sarebbero, soprattutto il massimalismo: l’idea-rock sulla quale si sono basati i produttori per sintetizzare questi cantanti è estremamente nebulosa e mescola nello stesso calderone gli U2 con Sting e Bruce Springsteen. Il risultato sta al rock come lo skai sta al vero cuoio. Ma queste operazioni sono con una tale base monetaria che non diventano mai ridicole. Sono solo infami.

Al secondo livello entriamo finalmente nel trash (e non ne usciremo più). Ecco l’emulazione metatemporale, ossia l’emulazione povera. In questo caso, la distanza tra apparizione del modello e l’emulazione non ha una periodicità definibile. L’emulazione metatemporale non nasce dalla moda del momento, ma dal desiderio irrefrenabile (che insorge in un qualsiasi momento successivo) di copiare un modello maggiore. Tra gli esempi più eclatanti: i balletti della Carrà ispirati ai grandi musical di Broadway, lo pseudo-rap di Jovanotti. A determinare questo tipo di emulazione è sempre il desiderio di essere qualcosa di diverso da ciò che si è, senza però avere i mezzi (culturali) di farlo. Incombente sullo sfondo dell’emulazione metatemporale si staglia la solita sagoma del massimalismo (lustrini + cilindri = Broadway; batterie scatolari + pettinature afro = rap). Il pubblico su cui fanno presa queste produzioni non saprà mai com’è fatto un vero musical di Broadway, né è in grado di capire i testi con cui i neri americani esprimono la propria rabbia e il proprio disagio. È dunque un pubblico incolto, non perché non legge i libri di Roberto Calasso, ma solo perché non possiede i mezzi culturali per poter eseguire il confronto e recuperare il ritardo puntando all’originale.

I prodotti dell’emulazione metatemporale hanno però due aspetti positivi: sono filtrati dalla personalità di chi li realizza (perché a realizzarli sono non furbi manipolatori di tendenze, ma trashisti ruspanti e appassionati che non rinunciano al proprio gusto) e possono istigare alla scoperta o riscoperta dell’originale.

Infine, eccoci al terzo livello, quello del bakismo, ovvero della infausta emulazione lievemente ritardata. Chi ha una minima dimestichezza con l’informatica sa che molti programmi, quando aggiornano un documento, mantengono traccia della versione precedente alle modifiche, identificata dall’estensione “bak”. Il file bak (al di là della sua utilità di back-up in caso di perdita di dati) è sempre meno interessante di quello aggiornato, proprio perché è superato.

L’emulazione lievemente ritardata si chiama bakismo perché si comporta nello stesso modo, ossia crea un prodotto emulando non un modello contemporaneo (livello 1), né metatemporale (livello 2), ma seguendo con il fiato corto, a pochi metri (attimi, mesi o anni) di distanza.

Un esempio tra i maggiori di questo atteggiamento è rappresentato dalle pubblicità della fabbrica di abbigliamento Conbipel. Nel corso della sua ascesa commerciale (un numero sempre maggiore di punti vendita accompagnato da una diffusione del messaggio pubblicitario dalle piccole tv locali ai network nazionali) questa azienda non ha mai mancato un solo appuntamento con il bakismo. Senza analizzare l’intero corpus pubblicitario della ditta piemontese basta ricordare due momenti di questa anamnesi estetica. Agli inizi (1984) la pubblicità prevedeva la ripresa di alcuni indossatori e indossatrici immobili o dalla gestualità appena accennata che posavano accanto a gigantografie di divi hollywoodiani al suono della Moonlight Serenade. Niente di male se non che quell’immobilismo e la scelta di puntare su Bogart e Marilyn erano emulazioni lievemente in ritardo di modelli dei tardi anni Settanta. Coeva a questo comunicato Conbipel (trash allora come oggi e nei secoli dei secoli) ce n’era un’altra che invece ben incarnava lo Zeitgeist, può apparire come esempio di junk reale. Era la pubblicità della McFarnell Red Beer in cui i protagonisti correvano in scenari nebbiosi da campagna inglese con una colonna sonora arricchita da campionamenti vocali. In tal modo si rispettavano alcuni stilemi estetici degli anni Ottanta (il movimento e una maggiore attenzione all’Europa) che parevano ancora ignoti nei dintorni di Cocconato d’Asti.

Passano gli anni (ma otto sono lunghi) e arriviamo al 1992. Ora i protagonisti degli spot Conbipel arrivano in negozio su un’auto di lusso, mentre lei sceglie un’infinità di capi lui telefona col cellulare e alla fine, estratta la carta di credito, se ne vanno felici. La fonte è fin troppo chiara, è il film Pretty Woman con Richard Gere e per chi non l’avesse ancora capito c’è anche una colonna sonora che rifà il verso alla canzone del film. Tutto bene, lo spot è tecnicamente perfetto, ma disperatamente trash per quanto riguarda il fuori-sync con l’attualità. Il film Pretty Woman è del 1989. Nel 1992 è già uscito in videocassetta e ha già avuto un passaggio in televisione. Fare uno spot che gli si ispira quando è svanita l’eco del successo e non è ancora iniziata la leggenda, significa far sentire amplificato a 3000 W il rantolo di chi corre dietro alle mode con il fiato corto. Eppure lo spot ha presa sul pubblico che lo guarda, non si pone domande estetiche e non ride come aveva fatto con lo spot africano. E se il pubblico stavolta non ride è solo perché i protagonisti sono ricchi e bianchi, ossia sono i padri fondatori del trash e meritano rispetto.

 

14. Trash and Zen

 

Il trash in sé non esiste. È solo un’apparenza che si rivela quando qualcuno vuole negarlo.

Il trash in sé non esiste. Non esiste nulla che sia trash, come non esiste nulla che sia aulico.

Il trash in sé non esiste. All’inizio non vi sono che elementi neutri. Nel momento in cui si compie un’azione di territorial pissing culturale nascono le apparenze: si crede che queste cose siano serie, sane, alte e si crede che tutto il resto sia forzatamente ridicolo, marcio e basso.

Il trash in sé non esiste. Siamo noi che lo creiamo ogni volta che ce ne chiamiamo fuori.

Il trash in sé non esiste. Visto che identifichiamo come trash tutto ciò che non rientra nel nostro Cerchio Magico di Orina Metaforica, esistono tanti trash quanti sono gli esseri viventi.

Il trash in sé non esiste. Questa prima parte del libro ha solo illustrato delle apparenze. Peggio: ha solo illustrato le apparenze che io vedo.

 

PARTE SECONDA

IL TRASH E IL SUO DOPPIO

 

Nutella e Niger

Solo la Settimana Enigmistica conta più tentativi di imitazione della Nutella. Nessuno riuscito, naturalmente. La formula chimica della celebre crema alle nocciole è tenuta più segreta di quella della Coca Cola e chi la conosce non può, per con- atto, abbandonare la provincia di Cuneo. In realtà c’è il sospetto che vengano usate costosissime nocciole tartufate, rara specie reperibile solo nei pressi di Alba. Tutti gli altri produttori-emulatori, non potendosi permettere simili delizie, arrancano come fa la Pepsi dietro la Coke. E proprio ispirandosi a questo paragone, un giorno anche alla Niger decisero di ingaggiare per la propria pubblicità Michael Jackson. La celebre popstar che sbaglia (di proposito) candeggio, di fronte a un prodotto dal nome così spiccatamente black, non solo rifiutò, ma passò la cosa ai suoi legali.

 
 

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Astra e Astri

Emulazione arruffona. Se ad Astra hanno in redazione un art director che ha disegnato un logo originale, ad Astri ci si è limitati a scegliere tra i font del Mac quello che più assomigliava al carattere della testata-modello. La scelta del giallo fa il resto. Così la segretaria che passa frettolosamente all’edicola della metropolitana, ansiosa di sapere se Giorgio suo l’amerà per tutta la vita, afferra la prima rivista su cui intravede la scritta Astr... e scappa via. Ci cascherà ancora il mese prossimo?

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Elvis Presley e Little Tony

Ecco un caso di emulazione talmente spontanea e talmente lampante che a volte mi ritrovo a pensare il contrario. Ossia, che Elvis abbia sempre copiato Little Tony. Non c’è niente da aggiungere. A Little Tony si perdona tutto, tanto è l’amore che porta verso il suo modello. Ha detto Little: “Quando seppi che Elvis era morto, passeggiai senza meta sulla spiaggia per tutta la notte”. Un qualsiasi altro emulatore invidioso, saputo che il suo modello era defunto e che quindi sarebbe stato l’unico a poter sfoggiare ciuffoni cotonati e improbabili zampe di elefante tempestate si strass, avrebbe goduto. Per Little Tony si è invece trattato quasi di una vedovanza.

 
 

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Brian Ferry e Roby Vandalo

Chi è Roby Vandalo? Non lo so. Questa foto è tratta da quella che ritengo (anzi spero) sia la sua unica produzione su cassetta, uscita nel 1990 e contenente cinque canzoni in vago stile disco. Chiaro il modello cui si rifà Roby: Brian Ferry, ex leader dei Roxy Music. E così abbiamo da un lato il Ferry ritratto in un raffinato bia co e nero, con ciuffo ribelle e sguardo maliardo. Dall’altro il Vandalo (nomen est omen...) ritratto in bianco e nero pateticamente sfuocato, con capello gommoso e sguardo da postumi di indigestione da porchetta ai peperoni.

 
 

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Dylan Dog e Dick Drago

Il successo di Dylan Dog ha reso possibile l’apparizione di un vero capolavoro trash: Dick Drago, ovvero l’emulazione fallitissima e ai limiti del plagio. Stessi scenari inquietanti, logo alla carta carbone con ombreggiatura giallo-rossa ripresa paro-paro, monogramma DD identico (per fortuna non usano camicie cifrate, altrimenti...), copertina con impostazione replicata. Persino il prezzo è identico! A sistemare le cose provvede però il disegno di Dick Drago: un tratto così incerto e inabile non si è mai visto nemmeno su Corna Vissute.

 
 

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John Travolta e Reddy Bobbio

Una delle fonti maggiori di emulazione, e quindi di trash, di tutti i tempi è stato il film La febbre del sabato sera. Fu un’emulazione strisciante, impregnante, soffocante cui non si slvò nemmeno la famiglia di Travolta (i patetici tentativi del fratello di venire a galla), né lo stesso Travolta, caduto nell’immancabile “seconda parte”. L’Italia, Paese dei grandi creativi, rispose all’appello con una serie di filmacci emulativi, di musiche imitative, di mode copiative. Tra tutti i prodotti trovo davvero raccapricciante questa rielaborazione sabatoseriana di vecchie melodie EIAR realizzata da tal Reddy Bobbio (che sia parente?). davvero una delle copertine più emulativo-fallite degli ultimi decenni. Un simbolo.

 
 

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Bill Cliton e Mariotto Segni

In politica le emulazioni fallite non si contano. Ne esistono di due tipi: a) figlio di politico che emula il padre e b) politico piccolo che emula politico grande. Mariotto Segni, miracolosamente, incarna entrambe queste tipologie. Lasciamo perdere le emulazioni di tipo a. e focalizziamo il nostro interesse sul tipo b. Quando, ai tempi del referendum sulla proporzionale, Segni apparve su tutti i giornali in compagnia della moglie Vicky, fummo in molti a pensare a Bill e Hillary Clinton. Sarà per il gusto di presentarsi con famiglia al seguito, saranno i nomignoli che rendono più umana la politica (Mariotto da Mario e Bill da William), saranno le y che concludono vezzosamente i nomi delle due signore...chissà!

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PARTE TERZA

AGIOGRAFIE NON AUTORIZZATE

 

Premessa

La critica, per un Giovane Salmone del Trash, non esiste. In tutta la teoria trash la critica è sostituita dall’osservazione. Quando si ricercano i modelli originari nelle emulazioni si esegue un’operazione di analisi concreta, lontana da ogni astrazione tipica dei critici, i quali amano perdersi in comparazioni tra gli oggetti derivati e un presunto standard di elevatezza (che non esiste) o, peggio ancora, tra gli oggetti e la massa delle proprie sensazioni, conoscenze, letture e idee (delle quali ci interessa poco o nulla).

Il mio desiderio più grande, quello che ogni volta torno a esprimere segretamente mentre spengo le candeline sulla torta del compleanno, è la scomparsa dei pregiudizi che, utilizzati in maniera erronea come criteri di valutazione, portano alla creazione di scale di valori tra gli artisti e tra le cose.

Lo stile critico di un Giovane Salmone del Trash potrebbe essere anche chiamato Revisionismo Estetico. Più che critico, quello stile è constatativo. Si constata, cioè, l’esistenza di Elementi (Cronaca Vera, Claudio Baglioni, Tommasi Ferroni e così via). I saggi che seguono possono però sembrare, almeno secondariamente, critici: sono costantemente percorsi da un biasimo verso gli anti-trashisti, biasimo a volte accennato, a volte espresso con nomi e cognomi. Ma questa non è critica: questa è lotta.

Il Giovane Salmone è un fiero nemico dell’intimismo e dell’autonarrazione. Non devono trarre in inganno la frequenza nell’uso della prima persona singolare, né le varie citazioni di episodi personali. I saggi revisionisti non vogliono svelare l’intimo, il cuore. Chi fa simili operazioni confidenziali è un ipocrita, poiché per svelare qualcosa bisogna prima averla tenuta nascosta. Dunque, colui che si confessa ha sempre mostrato, in precedenza, un’immagine di comodo e solo ora trova il coraggio di rivelarsi. Assolutamente monodimensionale, il Revisionista trash fa coincidere esattamente il suo animo con la sua immagine. La frequenza di io e di reminescenze è solo un simbolo della profonda partecipazione alla realtà, atteggiamento condiviso da ogni Giovane Salmone.

Alcune osservazioni sulla struttura: tutte le seguenti agiografie sono estremamente brevi, nessuna supera i 7.000 byte. La loro costruzione non è ciclica, ma progressiva. Ossia, l’oggetto dei brevi saggi non è il nucleo intorno al quale ruota la narrazione, bensì è la base per successive ramificazioni che spesso si discostano dall’elemento di partenza e, raggiunto il punto del non ritorno, terminano bruscamente. Per mettere in atto i non sequitur mi sono ispirato a Totò. La maggiore fonte di ispirazione per questa sezione del libro è stato il film I mostri (con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, regia Dino Risi, Italia 1963), dalla cui ripetuta osservazione spero di aver bene appreso la lezione di brevità epigrammatica.

 

Andy Warhol era un coatto

 

Andy Wharol mi sta molto simpatico. Cerco di leggere tutto ciò che lo riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni esposizione di sue opere.

Un tempo non era così: nel 1989, per esempio, andare a visitare la mostra Le cento opere di Andy Warhol fu per me d’obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Ma nonostante l’equivalenza nella devozione al Palazzo della Permanente di Milano il miracolo non si verificò. Cento opere: pensavo di dover camminare per ore attraverso sale e sale. Mi ero anche portato i panini avvolti nella stagnola. E invece la mostra era concentrata in un unico stanzone tutto diaccio e umido.
Fu in quell’occasione che iniziai a detestare le mostre su Wahrol. Mi aggiravo per la sala e mi sentivo inappagato. Anche appoggiando il naso contro il vetro che proteggeva una Marilyn non provavo alcuna impressione. Sfiorai fugacemente e di nascosto dai custodi la superficie serigrafata di un Mao. Ancora nulla. Lo stesso brivido-zero che provo appoggiandomi, in metropolitana, a un manifesto della Philips sapendo di poterlo ritrovare identico in tutte le stazioni, da Molino Dorino a Sesto F.S. Rifeci un’altra volta il giro dell’esposizione, tanto per dare un senso alle 5.000 del biglietto, e mi resi conto di una cosa: quasi rovinato dagli anni di scuola e da certi atteggiamenti accademici, tra quei quadri colorati simili alle pubblicità di tinte per capelli nei coiffeurs pour dames, io cercavo l’Artista aulico e non la sua vera essenza. Insomma, volevo trovare i quadri e convincermi a ogni costo che quelle non erano pubblicità di tinte per capelli da coiffeurs pour dames. Per fortuna mi salvai in tempo. Lanciai una rapida maledizione all’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che aveva rinchiuso la forza pop in un ambiente asettico e prestigioso e capii che in Warolh (ma dove va l’h?), al di là di tutte le pose, cuore e corpo coincidevano. Mi resi soprattutto conto di quanto, dentro e fuori, Wharol fosse meravigliosamente coatto (sostituire le ultime sei lettere con maranzo se si è a Lodi, tamarro se si è a Milano e dasai se si è a Tokio).

Il suo cognome per noi due volte esotico (il ceco Warhola americanizzato in Warhol) non nascondeva che una consistenza spirituale da apprendista edile bergamasco. Checché ne dicano i non-revisionisti, Andy non era figlio di Duchamp. Hwarol era fratello di Eros Ramazzotti, del quale condivideva, per fortuna, l’atteggiamento anti-intellettualistico.

La Weltanschauung di Warolh era la stessa dei seguaci del primo Jovanotti, riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso.

Certo il lavoro di AW oggi è esposto nei musei, la paga era scritta con una $ seguita da numeri a molti zeri, la discoteca era l’esclusivo Studio 54 dei tempi d’oro e cambiava specularmente l’oggetto del sesso. Ma la filosofia di base era quella. Come doveva godere il nostro artista pop quando si patinava (diceva proprio così) e arrivava in qualche posto con la Iimousine presa in affitto, in compagnia di Debbie Harris o di Grace Jones! Esattamente come gode il coatto celebrato dagli 883 in Sei un mito che, cosparso di deodorante musk acquistato alla Coop, arriva con i tappetini nuovi e l’arbre magique nella Golf, al fianco di una commessa ben zinnuta e con le calze a rete.

Insomma Andrea era un provincialotto, tale e quale il suo concittadino Vudi Alen e i giornalisti dei quotidiani di NY, per i quali il resto del mondo deve essere fantascienza. Ripensandoci, forse Andy era ancora meno di un coatto. Per esempio, viveva in una zona ben determinata dell’urbanistica newvorchese dalla quale usci-va poco volentieri. Aveva notizie frammentarie di ciò che avveniva all’estero. Almeno i coatti nostrani d’estate vanno in Grecia o a Ibiza. Uorol parlava solo l’inglese, e anche piuttosto male. Un coatto, al confronto, è quasi un poliglotta: oltre all’italiano e al dialetto locale conosce l’inglese quanto basta per dire Dis is de ritm of de nait e per affrontare disinvoltamente anche le canzoni straniere nei locali karaoke.

Allo stesso modo dei coatti, però, Warhol non aveva prospettiva storica, non sapeva con precisione cos’era avvenuto prima di lui. Così, non potendo ispirarsi a un passato storico, si ispirò a un passato di verdura, quello della Campbell’s. Ne derivò un’ingente fornitura di zuppe in scatola, un successo mondiale e numerosi tentativi di imitazione. D’altronde, se date in mano una matita a un coatto credete che vi sforni una Madonna con Bambino? No. Disegnerà un’auto, un personaggio televisivo, una scatola di dadi.

Andy partiva dallo stesso livello, ma grazie alla sua profonda conoscenza dell’imbecillità dei critici, decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati e dalla stampa. Ce la fece benissimo perché era un grande. Perché Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda, quello con l’auto più veloce e il car stereo più potente. Quello che tutti cercano di imitare. Negli ultimi anni di vita, ci fanno sapere i suoi Diari, Warol (tolgo l’h e non ci penso più) era angustiato dall’AIDS. Proprio come i coatti che vanno in giro col condom nel portafogli. Ma, invece di diventare sieropositivo, Andy divenne Xeroxpositivo, ossia oggetto di infinite imitazioni. Peccato che tutti questi emulatori trascurino il suo aspetto più vero e amabile, quello borgataro. Anzi, insieme a chi gli dedica le mostre, i cataloghi e le analisi storico-artistiche, quegli emulativo falliti fanno di tutto per creargli (e crearsi) un ingiustificato alone di aulicità e internazionalità, intellettualismo e raffinatezza. Una volta ho visto persino una Campbell’s Soup Can usata come illustrazione di copertina per un libro di saggi di Roland Barthes...

 

L’Eros celeste is not dead!

 

Non è inconcepibile, Erissimaco, che a molti altri dèi i poeti abbiano dedicato inni e peani, e a Eros, invece, che è un dio così grande e potente, neppure uno, fra tutti i grandi poeti del passato, abbia mai destinato un encornio... nessun uomo invece ha mai osato, sino a questo giorno, di celebrare degnamente Eros (Platone, Simposio).

D’accordo. Per Platone, Eros non significava ciò che ormai significa per noi. Per cominciare, la maiuscola si è persa. Per molti, poi, l’Eros celeste sembra essere stato definitivamente ucciso dall’Eros volgare. Ma tutto questo non importa poi tanto. La cosa fondamentale, invece, è che, pur nelle mutazioni subite, la realtà lamentata nel 387 a.C. permane a tutt’oggi: nessuno ha dedicato un inno all’eros, forse intimorito dal fatto che si tratta di un argomento spinto. Spinto dalla pruderie ai limiti dell’oblio.

Per prima cosa: sono un Revisionista Estetico e non Etico. Non mi interessa il giudizio morale che si può dare sulla pornografia. Con la mia azione non voglio scandalizzare, non voglio pubblicizzare la pornografia. Anzi, preferirei non rompere mai l’aura di intimità, segretezza, riservatezza che circonda la visione e il godimento di materiali X-rated. Svelare a tutti il mistero racchiuso nella protezione in cellofan significherebbe distruggere il 90 per cento della potenzialità estetica di un prodotto porno.

Non credo che l’Eros celeste sia stato ucciso dall’Eros volgare. Questo poiché la mia finezza di Revisionista Estetico e la mia totale mancanza di giudizio e pregiudizio mi fanno assaporare sensazioni che vanno al di là della vuota eccitazione carnale. Mi fanno vivere avventure estetiche che richiedono però un esame più accurato della pagina o della pellicola e non un semplice, rapido consumo onanistico.

La vita non è mai schematica, le cose non sono mai racchiudibili in categorie. Estasiarsi spiritualmente soltanto davanti a un’opera d’arte ed eccitarsi o scandalizzarsi soltanto davanti a una foto pomo? No. Le parti possono, devono essere scambiate. Il piccolo Mishima (grande revisionista inconscio) non si eccitava di fronte a una riproduzione del San Sebastiano di Guido Reni? Così io raggiungo l’estasi sciamanica davanti a una pagina di Caballero del 1977.

L’evoluzione dell’eros è forse ancor più veloce di quella dell’informatica. Tra i pomo anni Settanta e quelli degli anni Ottanta c’è un abisso. La differenza non è tanto in quello che le immagini mostrano, poiché l’atto è sempre noiosamente lo stesso. Le diversità serpeggiano tutt’intorno ai corpi allacciati. Il mio modo di vedere le cose non è convenzionale. In una immagine pomo, il Revisionista Estetico esclude infatti la parte locale, i genitali, e si fissa sul resto: i (pochi) vestiti, l’arredamento, gli accessori. Gli occhi non si fermano su seni e natiche, ma scivolano subito sugli zatteroni di lei, si accendono del colore dorato della loro zeppa da quindici centimetri. Gli animi si eccitano nel vedere non una fellatio, ma il rossetto sbavato, le rughe intorno agli occhi, il sudore.

Quante volte mi sono sorpreso a decifrare i titoli dei libri sugli scaffali che facevano da sfondo all’azione... Anche per capire in che nazione ci si trovava. Ricordo che mi colpì molto in una foto evidentemente italiana il ritrovare Le confessioni di Sant’Agostino su uno scaffale al quale si appoggiava con le mani una signorina che offriva la schiena al suo compagno.

Una volta Alessia Galati, mentre la riaccompagnavo a casa, mi raccontò che nulla l’aveva mai eccitata tanto in una pubblicazione pornografica quanto una coperta di pelle di leopardo appoggiata sul letto: «Tutto quello che avveniva su quella coperta era scomparso. C’era solo lei, la coperta e il fascino maiale che emanava». La Galati tentò poi di ricreare in casa sua quella atmosfera, non so con che risultati.

A fianco delle foto, ci sono poi i testi. Veri gioielli letterari nei quali il Revisionista Estetico cerca ancora una volta non l’eccitazione, ma l’esaltazione. Cerca e trova frasi di audacia avanguardista, come quella che non dimenticherò mai: «E mentre suggevo il finnico banano di Hans, il compare mi smarmellava il rigo- glioso tettame». Sembra che Sanguineti, al leggerla, abbia telefonato a Nanni Balestrini dicendogli: «Il nostro lavoro è stato inutile». È una frase che mi ha subito affascinato anche per la sua difficoltà lessicale. Si crede che i lettori di materiali porno siano incolti. Non è vero. Altrimenti come potrebbero essere in grado di comprendere termini inusitati come suggere e finnico, o come potrebbero apprezzare ardite innovazioni linguistiche come tettame e soprattutto l’efficacissimo smarmellava? Ma ciò che più mi ha colpito, forse, è stata l’aderenza di questo passaggio alla Teoria Trashistica del Contagio, di tendenza massimalista, uno dei cui caposaldi è la considerazione della Parte per il Tutto.

Prendete il nome Hans. Non credo che Hans sia un nome tipicamente finlandese, lo trovo più tedesco, ma tant’è. In questo caso, la legge della Parte per il Tutto risponde alla catena di equazioni:

 
 
  1. sexy = svedese

  2. svedese = nordico

  3. nordico = lingue con sonorità dure

  4. lingue con sonorità dure = tedesco

Quindi, necessariamente, il biondo protagonista del servizio, chissà poi perché ambientato in Finlandia, doveva chiamassi «Hans» (il massimalismo insito in questi meccanismi non ci porta così lontano da farci domandare perché mai Hans e non Peter o Wolfgang).

Lo stesso procedimento è applicabile anche a un pregevole film del 1970, dal titolo Mazurka på Sengekanen. Si tratta di un film moderatamente soft-erotico di produzione danese. Poiché di danese senz’altro conoscerete solo due parole, giusto Enten-Eller, vi dico che il titolo significa Mazurka a letto. La traduzione italiana comportò una vera e propria trasposizione geografica e il film fu distribuito con il celebre titolo La mazurka le svedesi la ballano a letto. E l’anno successivo seguì Le svedesi continuano a ballare... la mazurka a letto.

 
 

 

La generazione de I Quindici

C’è stata una generazione che si è formata sul Mondo di Pannunzio. È seguita poi una generazione che è cresciuta intellettualmente con L’Espresso, quello in grande formato. I risultati si sono visti: intellettuali di ottimo livello, analizzatori pro- fondi dei mali della società, autori di testi ponderosi e basilari.

Chi ha avuto la ventura di nascere nella prima metà degli anni Sessanta ha invece avuto, come primo testo di riferimento, un’enciclopedia: I Quindici. Ne sono sicuro, poiché ho condotto personalmente un’inchiesta tra i miei conoscenti.

Agivo così: quando incontravo qualcuno tra i 25 e i 35 anni che, nelle parole o nelle azioni, dimostrava in embrione inconsce idee revisioniste, gli chiedevo subito se da piccolo aveva avuto I Quindici. La risposta è sempre stata sì.

Brevemente, ecco le principali peculiarità dei membri di questa fortunata generazione, così come sono risultate dalla mia inchiesta. Uso la prima persona plurale, poiché anch’io, con molto orgoglio, faccio parte della generazione de I Quindici.

1. Apparteniamo a vari strati sociali. Forse I Quindici sono stati il primo elemento che ha scatenato la reazione livellante che oggi ha portato alla quasi-scomparsa delle classi sociali.

2. Siamo intellettualmente di prima mano. La nostra formazione è nata nella maggior parte dei casi proprio su I Quindici e non su emulazione delle attività e delle mentalità paterne. Questo rende originale la nostra creatività, non copiamo il modo di scrivere, pensare e agire dei colleghi di papà.

3. Abbiamo un’apertura verso l’internazionalità. I Quindici erano sicuramente la traduzione di un’opera americana. Erano pieni di citazioni e allusioni alla cultura e al modo di vita statunitense. Quasi tutti gli intervistati hanno confermato il senso di disorientamento toniokrogeriano da me provato di fronte a quelle immagini di bambini biondi e dagli occhi azzurri. Nessuno si riconosceva nelle storie in cui nostri coetanei mangiavano burro di noccioline o facevano parte di uno dei vari club della scuola. Chiusi negli appartamenti condominiali, in un’epoca che ancora non conosceva l’esplosione delle villette a schiera, guardavamo i ragazzini USA costruire casette per uccelli e porle nel giardino delle loro case. Personalmente, essendo ai tempi ancora perso nelle nebbie catodiche del bianco e nero, mi ha sempre colpito l’immagine di Pico de’ Paperis che appariva in un televisore a colori. Comunque, questa estraneità veniva presto superata e accettata. Una capacità di superamento e accettazione delle differenze che contraddistingue ancora oggi i membri della generazione de I Quindici e che è alla base della nostra inclinazione internazionale.

4. Abbiamo un forte senso del colore. La rilegatura dei 15 volumi era in una tinta neutra, ma ogni volume era contraddistinto da bande che, dall’1 al 15, rappresentavano una fantastica iride raddoppiata. Ognuno degli intervistati ha un preciso ricordo cromatico. Se devo dire che colore ha l’infinito, rispondo: «Il violetto dell’ultimo volume dei Quindici. Profondo e misterioso».

5. Abbiamo una spiccata tendenza alla reminiscenza. Sfogliati in tenera età, quei volumi avevano almeno un’immagine che si è fermata nella nostra memoria. Jacqueline Ceresoli mi ha detto: «Ricordo il disegno di un uomo che volava con uno zaino dotato di retrorazzi. Quella per me è ancora l’immagine del futuro». Ma non erano solo le immagini. Marco Lavagetto ricorda perfettamente l’odore, anzi il profumo che aveva la carta di quella enciclopedia. Insomma, al lettore de I Quindici tutti i sensi si sono aperti insieme.

6. Siamo stati precoci. Chi ha letto il Mondo, prima, e L’Espresso, poi, l’ha fatto dai vent’anni in su, sentendo molto forte il senso di comunione di interessi. Nel nostro caso, la Bildung è iniziata molto prima: non sono rari i casi di membri della generazione de I Quindici che hanno iniziato a leggere a 4 o 5 anni. La nostra formazione si è avviata negli anni Sessanta con questa enciclopedia e si è sviluppata negli anni Settanta lungo una seconda fase che aveva già superato la lettura, sostituendola con la visione (Oggi le Comiche e, in certe regioni, Scacciapensieri sulla TV svizzera). Così, giunti ai vent’anni ricchi di questo bagaglio, non abbiamo avuto più alcuna voglia di dedicarci a esperienze unificanti in cui poterci riconoscere. Il nostro senso di comunione intellettuale è perciò esclusivamente retroattivo ed è stato scoperto solo in seguito.

7. Siamo particolarmente ricettivi di fronte alla rapidità del messaggio iconico. Non facciamo parte della civiltà dell’immagine solo perché qualche sociologo decide di scriverlo sui giornali. Lo siamo perché è nelle nostre radici la capacità di decifrare i pittogrammi, quelli che identificavano l’argomento di ogni volume dell’enciclopedia. Ricordo un globo stilizzato per il tomo dedicato ai paesi del mondo. Un martello e una sega per il volume in cui si insegnava a realizzare oggetti d’ogni tipo...

I membri della generazione de I Quindici si riconoscono poiché all’aeroporto si muovono con sicurezza tra le indicazioni non verbali e pittografiche. Chi non ha letto I Quindici da piccolo, invece, di solito si perde e riconosce a malapena l’omino e la donnina sulle porte delle toilette.

 
 

 

Un fenomeno protoeuropeista

I miei ricordi più remoti me la raffigurano su tavolinetti da barbiere, accanto allo scomparso ABC (una prece).

Mentre oggi i grandi trust editoriali si scannano per un posto al sole nell’Europa ventura, Cronaca Vera ha sempre avuto una diffusione da Mercato Unico anche quando il ‘93 non era che un numero cui mancava 7 per fare 100.

Diffusa tra emigrati italiani in tutte le nazioni, Cronaca Vera è arrivata anche lì dove la Farnesina non giungeva. Oggi la si trova alla libreria del Beaubourg come allo spaccio aziendale della Volkswagen.

L’impatto di Cronaca Vera è notevole sin dall’inizio, sino dalla sua copertina modulare. Essa è infatti basata su un modulo, su una maglia ripetuta, le cui dimensioni sono 90-60-90 (preferibilmente). Spesso però la maglia non c’è, sostituita da un più comodo bikini. Passando all’interno si resta colpiti dai caratteri usati nella composizione: tutti bastoni, ma moltiplicati in una fantasia di corpi e in un irresistibile avvicendarsi quasi psichedelico di dimensioni e inclinazioni.

Per anni devota a un bianco e nero sul quale fiorivano richiami rossi nei titoli, recentemente Cronaca Vera ha aperto le porte al giallo, patinando lievemente la copertina. Il risultato, però, non ha subito flessioni.

Ma l’elemento grazie al quale Cronaca Vera non potrà mai cadere nell’oblio è quello che si potrebbe definire sgranamento garantista. Vittime e assassini, pie missionarie e delinquenti incalliti, tutti ricevono lo stesso trattamento fotografico. La tecnica è precisa e personalissima: si prende una foto tessera in bianco e nero, realizzata rigorosamente nelle apposite cabine automatiche che si trovano in metrò o nelle stazioni, e la si ingrandisce almeno del 500 per cento con conseguente esplosione della grana. L’effetto è assicurato: anche gli occhi più innocenti appariranno torvi, ogni pelo di barba raggiunge dimensioni da baobab, ogni graffio assume gravità di sfregio.

 

Nonostante queste interessanti caratteristiche, nessuno studioso di semantica dell’immagine, né alcun maestro della comunicazione ha mai dedicato una sola parola a Cronaca Vera. Il perché è semplice: tutti costoro, non appena hanno in mano una copia di questo settimanale, tralasciano di eseguirne l’esame strutturale e corrono a leggersi le risposte del Dottor K.

 
 

 

Picnic revisionista

Raramente ho provato una sensazione di coinvolgimento più totale e vicina all’hysteria lacrymosa di quando, alla Contemporanea Internazionale d’Arte Moderna di Milano del 1989, mi trovai di fronte il Desinare al Gianicolo di Riccardo Tommasi Ferroni. Caddi in ginocchio dinanzi alla tela e mi dovettero portar via a forza. Cercherò di descrivere cosa successe in me in quell’istante, anche se so già che sarà molto difficile, un po’ come descrivere con precisione un sogno che ci ha segnati profondamente.

Siamo a Roma, sul Gianicolo, e in lontananza vediamo il panorama della città con le solite cupole, i marmi e altri edifici, alcuni nell’ombra, altri resi abbaglianti dal sole che riesce a filtrare attraverso uno strato di nuvole nere. In primo piano, stesi al suolo, sei personaggi. Quattro di loro (due coppie) sembrano aver trovato qualcosa da fare e lo fanno con molto impegno. Restano discinti, scosciati, abbracciati, avvinghiati in baci che però i due single non sembrano invidiare. Loro hanno un amore molto più grande di quello che possono dare le donne: loro amano la Lazio! Lo dimostrano il fazzoletto al collo dello smagrito sul fondo e il drappo biancoazzurro del panzuto dalla testa scimmiesca in primissimo piano.

Deve essere domenica, tardo pomeriggio. La Lazio deve aver giocato in trasferta e i due non hanno certo i soldi per seguire la squadra anche fuori casa. Devono aver ascoltato Tutto il calcio minuto per minuto e poi hanno mangiato.

Lo smilzo si appoggia con il gomito a un bidone rovesciato della spazzatura. L’obeso, che a guardarlo bene pare quasi Kafka ingrassato, giace su due sacchi dell’immondizia stranamente ancora integri, mentre tutt’intorno ve ne sono di sventrati. Tra questi si stende un firmamento di scatole vuote, bottiglie scolate, flaconi di insetticida, siringhe, pacchetti di sigarette. Non c’è alcun nome, eppure quei rifiuti appaiono così familiari: il pacchetto è di Marlboro, la bottiglia di Fanta... i loro colori ci parlano. Su dei fogli di quotidiano, probabilmente più Il Tempo che Il Messaggero, ecco i resti del desinare: piatti di plastica, ossi (oppure ossa? da tipi del genere c’è da aspettarsi di tutto) e una testa di porchetta che, nel centro esatto della parte bassa del quadro, ride: ed è l’unica espressione umana di tutta la vasta tela.

Non c’è altro eppure c’è tutto: dalla Tempesta del Giorgione all’inevitabile Déjeuner sur l’Herbe (mais sans herbe). Nell’aria c’è la voce di Enrico Ameri e sul fondo una reminiscenza dell’Altare della Patria. Quotidianità e storia. Alto e basso. Benessere e degrado. RTF ha sintetizzalo nei 56.000 centimetri quadrati di questa tela l’unione degli opposti che ieri era ricercata dagli alchimisti, oggi è perseguita dai revisionisti trash e che in ogni momento si celebra miracolosamente e spontaneamente ovunque.

Ma cosa c’è oltre alle immagini? Questo quadro nasconde qualcosa? Vi sono sotto lo strato dei colori a olio dei sottintesi filosofici? Non mi interessa assolutamente saperlo e lascio volentieri questa inutile analisi ad altri. A Guido Almansi, per esempio, che sul numero 77 di FMR (dicembre 1989) ha parlato proprio di questo quadro e, facendolo, ha pensato a Jean Genet. Ma Almansi deve fare il colto, non è un Giovane Salmone, è troppo vincolato a cliché élitari che, nello stesso articolo, lo portano a ritenere i personaggi di questa opera come «seguaci di Pippo Baudo» e di conseguenza membri di una «sottoumanità irredimibile». È leggendo frasi del genere che mi convinco sempre più della necessità di una battaglia revisionista costellata di epurazioni. Mi chiedo proprio con che diritto un non-revisionista come Almansi si metta a parlare di un iper-revisionista come Ferroni. Verso la fine dell’articolo, Almansi strikes back. Dovendo far notare i riferimenti alla Lazio (e alla Roma in un’altra splendida tela di RFT) tiene subito a precisare la sua estraneità dal futile mondo del pallone e dice: « ... è un appassionato di calcio, Tommasi Ferroni, o, come lo scrivente, un feroce odiatore di quel barbaro cerimoniale?».

È l’ultima goccia. Almansi, go home, if you have one! Tutto il quadro è leggibile solo in chiave calcistica! Quel senso di lassismo, di rinuncia, di accettazione fatalista dipinta sul volto dei due laziali nasce dal risultato calcistico: senz’altro uno zero-a-zero, poiché solo un pareggio a reti inviolate può far assumere quelle atarassiche espressioni sospese. Non c’è alcuna nota di speranza nel quadro: i torsi nudi dei personaggi fanno pensare a una primavera avanzata, praticamente alla fine del campionato. Un campionato concluso dai bianco-azzurri in posizioni da bassa classifica, forse in zona retrocessione.

D’altronde, cerchiamo di capire in che anno siamo. Una indicazione ce la offre la bottiglia di plastica accartocciata vicina al piede del trucido in primo piano: è del tipo in PET da 1,5 litri. Queste bottiglie hanno incominciato a essere diffuse verso la metà degli anni Ottanta. Maggiore precisione non è richiesta: l’importante è essere riusciti a sapere che siamo lontani dai fasti laziali, che ci troviamo in quella lunga notte post-Chinaglia mentre lontani sono ancora i bagliori dell’alba di Signori. Solo il calcio, quindi, può farci vedere questo quadro come un viaggio nelle regioni dell’incerto: l’incertezza della situazione in classifica (A o B?) ha effetti a un primo livello sugli uomini (immobili si chiedono «agisco o non agisco?») e a un secondo livello sulla natura, sul tempo (sole e nuvole, luce e ombra).

 
 
 

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Contro il fumetto reso colto

Gian Carlo Mangini è uno e plurimo. Appare infatti sotto più pseudonimi: Mang, per esempio, Oppure (e soprattutto) El Cubano.

È tra l’altro, un disegnatore di vignette e fumetti. In una società che, ante-Eco, sdegnava i fumetti e oggi li eleva a dignità tale da far loro meritare borse e gallerie, analisi e apposite librerie, Mangini/El Cubano rappresenta la Primula Rossa. Inafferrabile, inclassificabile, ininquadrabile in alcuna scuola, corrente, mozione o emozione.

Veramente revisionista. Triplamente revisionista: per la trascuranza delle correnti, per la non-ricerca del consenso, per la sua polimedialità. La banalità multimediale vorrebbe che un disegnatore accompagnasse questa sua attività a quella di pittore o di grafico. Con originalità polimediale GCM va invece oltre: all’attività di disegnatore unisce quella di commentatore radiofonico di baseball!
Oggi le sue opere sono reperibili sempre più raramente. Come G.C. Mangini o Mang appare su alcune riviste enigmistiche e disegna (come non cadere in adorazione dopo averlo saputo!) le avventure a fumetti di Stanlio e Ollio. Come El Cubano ha firmato per lungo tempo la pagina di vignette su Le Ore prima che anche quest’ultimo baluardo del laido si votasse al patinato. Quando i suoi acuti schizzi sexo-umorisitici cessarono le pubblicazioni fummo in molti a rammaricarci, a tal punto che oggi Le Ore ha ricominciato a pubblicarli.

Ma sono i suoi interventi del periodo d’oro che i collezionisti più accaniti ricercano nelle cosiddette buste, raccolte di vecchi numeri offerte a prezzi di concorrenza. Pare anzi che Leo Castelli abbia ultimamente svaligiato le edicole di Porta Venezia in vista di una grande retrospettiva su El Cubano che terrà a New York nella sua galleria. Ma sono solo voci.

Molti rifiutano El Cubano, definendolo pornografico. Facile accusa. È con rabbia che mi chiedo: perché El Cubano scandalizza ed Egon Schiele no? Ma diciamo la verità: Schiele deprime, El Cubano diverte. Tra la violenza stuproistigatrice di certi fumetti erotici e l’enorme noia di erotic comics come la soporifera Valentina, El Cubano genialmente traccia la Terza Via alla Camera da Letto, quella che passa per l’umorismo.

Anni di ricerche psicoanaliliche su turbe e devianze sessuali vengono spazzati via dai tratti colorati del nostro e dal suo universo affollato di personaggi. Cumenda panciuti, siciliani pelosissimi (e dotatissimi), mariti votati alla cornificazione e soprattutto donne, un’infinità di donne dalle vite schizzate e dai seni come palloni aerostatici.

Sono due le categorie più spesso rappresentate dall’Artista: le segretarie (in combinazione, anzi in combutta con i cummenda) e le straniere, eredi iconiche di tante Fride adriatiche, che si esprimono in un improbabile italo-tedesco.

La bellezza femminile in El Cubano è un altro argomento che, alla fine dell’analisi, dimostra la grandezza di questo artista, grandezza che passa attraverso la personalizzazione dei canoni estetici. El Cubano non è un disegnatore dozzinale di donnine tanto perfette, quanto anonime. Egli reinventa la donna, anzi la esagera. La sua ricerca del bello muliebre è spiccatamente antiellenista ed è votata alla sottolineatura dei volumi.

E gli uomini? Al proposito, invito gli esperti a compiere una profonda osservazione psicoanalitica su due elementi ricorrenti nell’opera di El Cubano: 1. in proporzione dimensionale, le donne sono sempre almeno due volle più grandi degli uomini, e 2. la presenza ossessiva, maniacale direi, dei calzini nei maschi anche quando sono completamente nudi.

Ma veniamo alla tecnica: El Cubano è forse l’ultimo grande esponente della Neue Sachlichkeit più pura, netto come Dix, tagliente come Grosz. Naturalmente, lo scenario storico è mutato, non siamo più nel ‘33 e quindi in El Cubano si è passati dalla rappresentazione della tragedia a quella della commedia. Commedia dell’Arte per la presenza di personaggi fissi e ricorrenti, Commedia all’Italiana per la facile regionalizzazione dei caratteri (soldi = lombardo, focosità = siciliano eccetera).

Ed ecco il punto sul quale El Cubano è stato spesso attaccato da molti critici militanti: la precisa, immutabile collocazione temporale degli eventi narrati. Si tratta di accuse gratuite, fatte da personaggi impreparati che si vergognano d El Cubano e preferiscono Corto Maltese aI Lando (ma in cuor loro amano solo Dylan Dog).

È vero: i personaggi di El Cubano sono esteticamente cristallizzati nelle mode degli anni Sessanta. Lo dimostrano le pettinature gonfie agli estrogeni delle signorine e i basettoni degli uomini. Gli stessi, immutabili personaggi sono però immersi in décors e avvenimenti attualissimi. Ne sono prova i riferimenti all’attualità riscontrabili soprattutto nella serie non erotica e a firma Mang intitolata Al bar dell’angolo. E non deve stupire que- sta incoerenza cronologica tra l’abbigliamento e l’evento: anche Tiepolo vestiva Cleopatra e Antonio con abiti del suo tempo. L’artista può permettersi di trascurare le convenzioni cronologiche e vestitive. Ed El Cubano è un artista.

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Franco Franchi era meglio di Lyotard

Come al solito, tutto ciò che troviamo scritto nei libri è inutile ed è il riflesso, molto pallido, di fatti già avvenuti che non hanno certo bisogno della fase narrativa. Esaminiamo il caso della ecletticità. Jean-Francois Lyotard scriveva, non senza un certo disgusto, nel 1982: «L’eclettismo è il grado zero della cultura generale contemporanea: si ascolta il reggae, si guarda un western, si mangia un hamburger la mattina e un piatto locale la sera, si mettono profumi francesi a Tokio, ci si veste rétro a Hong Kong ... ».
Una pubblicità per l’edizione tedesca del mensile Max nel 1991 dichiarava il trionfo di quella tendenza indicata da Lyotard: «Negli ultimi trent’anni si è sviluppata una generazione che pensa e vive in modo particolarmente mobile, aperto e cosmo- polita. Beve Coca Cola, si veste in jeans. Guida cabriolet e ascolta Madonna. Ama Richard Gere e rispetta Gorbaciov. Guarda video e porta orologi di designer. È questa la generazione che legge Max».

Nel primo caso l’eclettismo è visto in maniera negativa, come appiattimento universale che accompagna la trasformazione delle tradizioni locali in anti-tradizioni globali. Ma la visione di Lyotard è troppo colta, è eseguita troppo dall’esterno perché un Giovane Salmone, pur abituale consumatore in contemporanea di hamburger e di spaghetti, ci si possa riconoscere.

L’altra, la citazione di Max, è esasperatamente modaiola e pubblicitaria: qui l’universalizzazione è celebrata e il mondo sembra fatto di imbecilli monodimensionali che (con un passaggio Max/Marx degno del Bersaglio) feticizzano alla stregua di merci simili Swatch e Gorbaciov, allo stesso modo e in qualsiasi latitudine.

E neanche in questo voglio riconoscermi. li Revisionista Estetico non rifugge però l’eclettismo, sebbene la sua tendenza alla commistione sia spontanea e non esposizione di un simbolo intellettuale (Lyotard) o mezzo subdolo per definirsi parte di un particolare stato sociale (Max).

Nessuno dei due esempi sopra riportati può soddisfare un Revisionista Estetico, poiché entrambi mancano dell’appiglio alla realtà. Sono vaghi, sono di comodo, sono devianti. Ma allora la realtà dov’è? Dov’è che l’ecletticità, negativa o positiva, si trasforma in contagio?

La realtà, la verità, il contagio e il vero specchio del Revisionismo sono con- tenuti in un film del 1973: Ku Fu? Dalla Sicilia con furore, diretto da Nando Cicero e magistralmente interpretato da Franco Franchi. Quest’opera, e alcune scene in particolare, rappresentano mirabilmente il modo naturale e anti-intellettuale cui deve tendere chi voglia dedicarsi a un eclettismo sano.

Nel film risultano perfettamente fusi almeno otto elementi. Il primo elemento è lo stesso Franco Franchi, figura per niente neutra, impossibile da inserire in un qualsiasi contesto senza dimenticare la sua fortissima caratterizzazione, tra i tanti sotto-elementi, della quale spicca la sicilianità (elemento 2) subito contrapposta alla cinesità (elemento 3) che è lo spunto di tutto il film. Nel primo tempo Franchi entra in un ristorante cinese nel quale si cantano però stornelli romaneschi (elemento 4). Questa contrapposizione può non essere spontanea, ammetto che il regista possa aver ricercato l’effetto incongruo. L’elemento 5 è però assolutamente genuino: nella scuola di arti marziali cinesi (nel secondo tempo del film) pende una bandiera giapponese. Il massimalismo è uno dei fondamenti del contagio: «Cinesi, vietnamiti, giapponesi si assomigliano tutti, sono tutti orientali». E proprio questo atteggiamento non discriminatorio che a Milano permette a legioni di sudcoreani di gestire ristoranti cantonesi. Il film di Cicero prende atto di questo comportamento direttamente, perché forse lo stesso Cicero possiede per natura questa mentalità massimalista e non vi giunge dopo noiose intermediazioni intellettuali come sto facendo io qui. Ah, essere come lui!

La stessa modularità può essere poi osservata nei frequenti prologhi ai duelli che Franchi, della palestra di Kon Chi Lhai, ingaggia con gli esponenti della palestra avversaria di Lho Kon Teh. L’intuizione di Cicero qui è fulminea e imitativa. lo purtroppo devo dilatare questa rapida intuizione nel tentativo di gettare una minima luce sui meccanismi da cui nasce il contagio. Dunque c’è un duello e siamo in un film. A quale modulo prêt-à-imiter potrà rifarsi Cicero se non al western? Ed ecco perché i primi piani dei contendenti (ricordo che l’ambientazione è vagamente filocinese) sono sottolineati da una tromba messicaneggiante, evocativa di duelli al sole nel deserto (elemento 6).

Vorrei aggiungere che i tre cattivissimi karateki che dovrebbero far fuori Franchi vengono assoldati da Kon Chi Lhai a Milano. Si tratta, per la precisione, dei «migliori sulla piazza a San Babila». Ora, questo elemento 7 potrebbe essere un contagio contratto dall’attualità: il film è del 1973 e in quel periodo a Milano, in piazza San Babila, ne succedevano di lutti i colori. Anzi, di un solo colore: il nero. Cicero dunque precede Lizzani di ben tre anni.

 
 

Altrettanto potentemente incongruo e non motivato da imitazioni e riferimenti diretti è l’episodio in cui Franchi, stordito da una capocciata infertagli da Nuto Kekkor, proprietario del ristorante cinese, esce dal locale intonando un pezzo operistico (elemento 8). Gli esempi potrebbero proseguire all’infinito tra citazioni gitane e napoletane. Ora devo giustificarmi. Perché considero positivo l’eclettismo di questo film e condanno l’eclettismo della pubblicità di Max? Semplice: perché l’eclettismo di Cicero & Franchi non è entropia modaiola, ma pura espressione trash. Ossia nasce dal contagio di elementi incompatibili. Nulla lega tra loro gli otto elementi, ognuno è indipendente dall’altro e tutti si trovano ammassati solo in nome dell’accumulazione.

Invece, nella pubblicità di Max, dietro la scelta pseudocasuale di elementi c’è un super-elemento di base: la ricchezza. Gli orologi di design costano. Richard Gere è ricco. Per vivere in modo aperto e cosmopolita ci vuole la grana. Gorbaciov rientra perfettamente in questo ambito poiché, almeno nelle intenzioni, la sua azione segnò il primo passo per far precipitare l’URSS in questo eclettismo per abbienti.

 
 

 

Musica leggera e letteratura pesante

Se fosse vissuto oggi, Marcel Proust avrebbe a casa sua tutti i dischi di Claudio Baglioni. Soprattutto i primi, quelli favolosi degli anni Settanta, quelli venuti prima della stagione esistenziale. Nelle sere in cui si coricava presto, Marcel non avrebbe mancato di portarsi tra le lenzuola il walkman e di riascoltarsi E tu, Questo piccolo grande amore e Amore bello. In questo modo, non avrebbe avuto bisogno di inventarsi un Vinteuil per trovare un terreno dove coltivare le proprie reminiscenze. Probabilmente (e saggiamente) non avrebbe neanche scritto una sola riga, annichilito dalla grandezza di un artista che incarna meglio di chiunque altro il sentimento del tempo.

Claudio Baglioni è il massimo artista contemporaneo italiano: in futuro la sua immagine simboleggerà per sineddoche l’arte italiana del tardo Novecento, come Caravaggio incarna il tardo Cinquecento e Verdi si identifica con l’Ottocento. Nel 1991 Baglioni ha tenuto una serie di concerti a sorpresa a Centocelle, suo quartiere natale, spostandosi su un camion insieme ai suoi strumentisti. In una registrazione televisiva di questi eventi ho avuto la conferma della sua grandezza. È stato quando gli si è avvicinato un signore sui trentacinque anni che gli ha detto: «Claudio, quanto mi hai fatto sognare da militare con le tue canzoni».

Arte è anche parlare per mezzo dell’artificio ai sentimenti degli altri. Baglioni è grande perché ci riesce. Continua poi a essere grande perché la sua trasmissione sentimentale non è legata al momento, ma resta intatta nonostante il passare del tempo. Non si ride riascoltando un pezzo di Baglioni del 1975 come invece si può fare riascoltando un brano coevo dei Cugini di Campagna o dei Santo California, eppure anche questi erano frequentatori di temi amorosi e di melodie coinvolgenti. Evidentemente la comunicazione di Baglioni è semplice, ma non è ingenua: è vera, quindi destinata a restare.

Baglioni raggiunge l’80 per cento dell’universalità. Lo spettro del suo pubblico non comprende tutti, naturalmente, ma è comunque vastissimo e la forza evocatrice delle sue creazioni coinvolge non solo chi vi si ritrova, ma anche chi non è passato per simili esperienze. Nei primi evoca la nostalgia di ciò che è stato, nei secondi il rimpianto per ciò che non è stato. Parlo per esperienza diretta: il mio stile di vita non sarà mai oggetto di una canzone di Baglioni, eppure mi sarebbe piaciuto sperimentare almeno una volta in prima persona i microeventi narrati in Questo piccolo grande amore.

Non deve stupire se molti, dagli anni Settanta in poi, si siano identifica nelle canzoni di Baglioni. In che cosa d’altro avrebbero potuto identificarsi? Nella letteratura, forse? La letteratura, intendo la letteratura narrativa contemporanea italiana, è qualcosa di totalmente estraneo alla realtà. La letteratura è uno specchio che non riflette più nessuna immagine o forse riflette solo l’immagine del suo autore. In ogni caso è un oggetto inutile e va buttato via.

Baglioni è in grado di suscitare emozioni. Purtroppo, anzi, per fortuna, non si può dire lo stesso di nessuno scrittore suo contemporaneo. Chi ha mai sognato, leggendo un libro di narrativa italiana pubblicato da Feltrinelli tra il 1975 e il 1994? Non c’è alcun autore in cui le generazioni più giovani possano riconoscersi. Chi riesce a identificarsi negli universi stantii di Paola Capriolo o in quelli stereotipati di Lara Cardella?

Baglioni raggiunge l’80 per cento dell’universalità, la letteratura procede per compartimenti stagni. Ben più basse sono le percentuali di coloro che si identificano, per esempio, in Benni; sono settori di pubblico molto meno variegati, più definiti, sempre mediati dall’intellettualismo o dalla convinzione politica o dal desiderio di apparire.

La letteratura manca di immediatezza e di originalità. Chiunque abbia mai scritto una sola riga, pur rappresentando magari una vetta di mediocrità, si sente autorizzato a indossare la veste aulica e a disprezzare la realtà.

Esempio: a fine gennaio 1992, Il Venerdì di Repubblica chiese a un po’ di personaggi, i soliti, che cosa pensassero del Festival di Sanremo. Mi è rimasta impressa nella memoria, a lettere di fuoco, la risposta di tale Lidia Ravera che, per fare la colta kitsch, disse di disprezzare le canzoni e di ascoltare solo Mozart e Beethoven. Mozart e Beethoven, ripeto. Non Ligeti o Xenakis. Ma Mozart e Beethoven. Ossia, la signora Ravera sostituiva la melodia delle canzoni non con una ricerca intellettuale, con l’interesse nell’atonalità o nella stocastica, ma con la KV 550 (solo il primo movimento, per carità) o con la Für Elise... Chissà, magari ai vertici della hit parade che la Ravera cela in fondo al suo cuore c’è Titti Bianchi, ma questo non si può dire a un giornale.

Sono questi comportamenti preconfezionati, rispettosi del pregiudizio, che hanno avviato il processo di dissoluzione della letteratura.

Questo, comunque, è un bene. Le cause che determinano la formazione ideologica di una generazione passano dalla letteratura alla musica, rispettando una necessaria Verschiebung.

Chi non ha ancora accettato il fatto compiuto deve rassegnarsi: la letteratura-narrativa scomparirà, sommersa dalla sua noia, e verrà sostituita da tante cose più fresche, eccitanti e interessanti.