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August 2016

Tommaso Labranca - Nubigenia - scoperta e repentina scomparsa di un continente supernubilare

Tommaso Labranca

nubigenia

scoperta e repentina scomparsa di un continente supernubilare



Questo testo elettronico ripete quasi integralmente la versione del 1991, rispetto al quale sono state eseguite minime variazioni.

Il file, il testo e le foto possono essere liberamente distribuiti citando la fonte. Realizzato ad agosto 2010

[email protected]


Introduzione
La rimozione di Nubigenia

 

Ho ben presente il momento in cui ho smesso di essere giovane. È stato una sera del gennaio 1990. Fino ad allora avevo organizzato insieme agli altri membri del gruppo La Misère Provoque Le Génie diverse esposizioni e iniziative artistiche con l’appoggio del Comune di Peschiera Borromeo, dove abitavo. Manifestazioni tipiche di quella parte degli anni Ottanta un po’ cupa e creativa a ogni costo. Nulla a che vedere con Sandy Marton e compagni ibizegni. Quella sera del 1990 ero passato con un altro membro di La Misère in uno dei locali in cui avevamo organizzato i nostri eventi e trovai alcuni ventenni, vicini alla Lega Nord, che stavano preparando la prima delle loro serate di musica house. Capii istantaneamente che il nostro tempo era finito. Basta con le pretese culturali, i richiami stucchevoli alla Francia degli esistenzialisti o alla Germania del Bauhaus, le malinconie cimiteriali. Basta con l’appoggio della giunta comunista. Anzi, basta anche con i comunisti che stavano cambiando nome.
Il mio accompagnatore decise di buttarsi in questa nuova decade danzereccia, senza accorgersi di come fosse fuori luogo. Io mi ripiegai ancora di più su me stesso. Trovai persino un lavoro fisso, la mia sola esperienza da dipendente, tre anni scarsi come redattore in un service che produceva enciclopedie a fascicoli per la De Agostini. Fu lì che imparai a usare i programmi di impaginazione con cui poi, tra il 1992 e il 1994, realizzai i dieci numeri di TrashWare e i tre libretti autoprodotti Agiografie non autorizzate, Giovani salmoni del trash e Giovani Salmoni del trash 2.0.

Prima però ci fu Nubigenia. Ricordo molto poco dei giorni in cui scrissi questo testo, se non che stavamo vivendo l’inizio della prima guerra del Golfo. Mi è rimasta solo l’impressione che il 1991 sia stato uno dei peggiori anni della mia vita. Avevo questa serie di mie fotografie ancora intrise di quel gusto funereo del decennio che si era concluso e fu forse mettendole in un raccoglitore che mi venne in mente di legarle in una storia. Di presentarle in un ultimo momento espositivo, cercando ospitalità in un paese vicino, Mediglia, dal 9 all’11 marzo del 1991.

I visitatori ricevevano una copia del fascicolo con il testo. Leggendolo e basandosi sulla numerazione, seguivano l’esposizione delle foto e la narrazione.
Ho rimosso tutto di questa esperienza. Non avevo nemmeno conservato un esemplare del fascicolo. Quando Nubigenia mi è tornata improvvisamente alla memoria, sono andato alla biblioteca di Mediglia e ho scoperto che avevano conservato una copia della guida e della cartolina informativa.
Anche dopo aver riletto il testo e rivisto le foto (quelle rimaste: parecchie sono andate smarrite) non mi ritorna in mente quasi nulla. Solo una cosa. La sera in cui stavo allestendo l’esposizione delle foto entrò in biblioteca un ragazzotto un po’ semplice, tipico esponente della fauna locale. Domandò cosa stessi facendo. Cercai di spiegarglielo in poche parole. Con la sincerità dei semplici il suo commento fu: «Mi sembra una stronzata».
Inutile dire che aveva pienamente ragione.

agosto 2010

 
 
 
 

Screen Shot 2016-08-31 at 20.33.14La copertina del fascicolo originale

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Tommaso Labranca

nubigenia

scoperta e repentina scomparsa di un continente supernubilare

9-10-11 marzo 1991

presso la biblioteca
via primo maggio
mombretto di mediglia

 

Entriamo nella storia quando già è cominciata

Sono vittima della mia invenzione e ora, dopo aver immaginato un unico filo che collega labilmente alcune fotografie, dovrei sentirmi obbligato a scendere nei dettagli. Ma ci sono cose di Nubigenia che non mi va di raccontare.

Non trovo utile né divertente dover inventare strani percorsi, avventure risapute o qualsiasi altro evento ignoto che giustifichi il mio arrivo a Nubigenia. Credo sia sufficiente dirvi che un giorno ho scoperto i nubigeni e i nubigeni hanno scoperto, attraverso me, tutti gli altri abitanti terrestri.

Vi faccio entrare nella storia quando questa è già cominciata, proprio come succede quando veniamo al mondo o quando in-contriamo una persona per la prima volta.

A Nubigenia gli opposti convivono

Nubigenia fa parte del nostro pianeta, ma la distanza dal suolo e lo spettacolo sidereo che da li si può osservare la pongono in un universo intermedio. Io reputo questo universo perfetto poiché le sue leggi non impongono la scelta necessaria tra una cosa e l’altra all’interno delle tante contrapposizioni in cui ci dibattiamo. Né i nubigeni cercano di superare i dualismi in uno sforzo innaturale verso il nulla. Vivono unendo gli opposti, senza neanche accorgersi di farlo. Cambiano posizione e idea ogni volta che ne hanno voglia.

A Nubigenia, per esempio, esistono i concetti di spirito e materia e anche l’associazione della positività, al primo, e della negatività alla seconda. Essi però vivono le due dimensioni contemporaneamente, senza vergognarsi di unirle.

Sono vittima della mia invenzione e mi ritrovo a invidiare la libertà di non scegliere propria dei nubigeni; la loro possibilità di vivere una situazione riassuntiva è una delle cose che più mi sono piaciute di Nubigenia.

Nubigenia è dall’altra parte della clessidra

Vi hanno fatto credere di aver esplorato tutto, mostrandovi fotografie magari scattate in studio. Invece, nella zona delle montagne più alte, che credo debba trovarsi in Asia, esiste una vetta non ancora esplorata. Ha le pareti perfettamente lisce che si restringono creando un cono fino all’altezza di circa settemila metri. Ma la sommità è invisibile poiché è immersa in una coltre di nubi perenni. Questo non deve stupire: se esistono le nevi perenni possono anche esistere le nubi perenni. E poi anche l’Olimpo era coronato similmente. A differenza dell’Olimpo, però, questo monte non termina all’interno dell’ammasso nuvoloso, ma da qui comincia nuovamente ad allargarsi, assumendo la forma di una clessidra [1].

Sale specularmente identico alla parte inferiore e dopo altri settemila metri d’altezza lo sviluppo conico si interrompe. Sulla superficie piana di questa anti-base sorge Nubigenia, i cui confini tracciano un quadrato perfetto [2]. Certo: è impossibile che un cono abbia per base un quadrato. Ma non potete pretendere che a quattordicimila metri di altezza la geometria segua le stesse regole che la governano al livello del mare.

[1, 2] Foto smarrite

 

Distrazione e presunzione nascondono molto

Possibile che aerei, satelliti e astronavi non si siano mai accorti di questo monte alla rovescia? È assolutamente possibile. Dallo spazio Nubigenia non si vede, poiché le sue tinte si mimetizzano con quelle delle nuvole sottostanti. E in quanto ai pochi aerei che fanno rotta di qui, essi passano piuttosto lontano; i piloti badano agli strumenti e guardano ciò che hanno di fronte, non sopra di loro; tra i passeggeri nessuno guarda fuori dal finestrino: sono tutti impegnati a fingere abitudine e quasi noia per il volo, nascosti dietro i giornali o immersi in un sonno agitato.

 

Ai nubigeni non serve un nome per indicarsi

Un’altra mia pigrizia narrativa riguarda l’invenzione di un linguaggio che imiti quello ipoteticamente parlato dagli abitanti di questa terra inesistente. Mi sentirei ridicolo se dovessi creare suoni che sembrino impossibili e veritieri allo stesso tempo. Non vi citerò dunque un solo nome nella mia immaginata lingua nubigena, proprio perché non ho voglia di immaginarla. L’unico sforzo che ho dovuto compiere è stato quello di trovare un nome per questa terra sopraelevata e per i suoi abitanti. I nubigeni non ne usano alcuno per indicare il luogo in cui vivono. Il perché è semplice. Noi dobbiamo necessariamente distinguerci in europei, asiatici, africani o anche italiani, portoghesi, finlandesi. I nubigeni invece non provano questa necessità, poiché ignorano l’esistenza di altre nazioni o popoli: essi si ritengono gli unici esseri viventi su un territorio indiviso.

 

Un mondo lontano, ma parallelo

Pur così distanti e isolati dal resto del mondo, i nubigeni hanno avuto una evoluzione simile alla nostra. Quando un’invenzione fa la sua comparsa sul resto della terra, essa appare anche a Nubigenia. Così vi ho trovato tutto ciò che abbiamo noi, e allo stesso livello di sviluppo. L’unica cosa che varia è tavolta l’utilizzo degli oggetti. I cartelli stradali, per esempio, esistono anche a Nubigenia, ma non essendovi luoghi da indicare, poiché il territorio è unico, sono completamente neri [3].

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Si soffre per mancanza, non per ignoranza

Nubigenia non ha dunque nulla in più di noi. Spesso ha qualcosa in meno di noi. Una differenza tecnologica che può colpire è l’inesistenza degli aereoplani. Lassù nessuno ha mai pensato di inventarne uno, perché nessuno ha mai pensato di volare. A quattordicimila metri nessun uccello è mai riuscito ad arrivare né ad adattarsi. Così, senza rondini o poiane da osservare, a Nubigenia non è mai nato il desiderio del volo. Al museo che raccoglie oggetti dalle origini inspiegate sono conservati due passerotti congelati [4], giunti a Nubigenia nelle stesse modalità non narrate che vi hanno condotto me. Nessuno può immaginare che da vivi quei piccoli ammassi di piume possono volare.

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Ma questi per i nuibigeni sono solo “oggetti inspiegabili”, proprio come quei pesci congelati [5] (loro naturalmente non sanno che si chiamano così) che, conservati nella teca accanto ai passeri, attirano l’attenzione di un popolo che non conosce mari e fiumi.

Ho già detto che gli aeroplani volano distanti da Nubigenia e solo raramente. Una mattina di qualche anno fa, però, un aereo finito fuori rotta è passato molto vicino a questa terra sconosciuta. Naturalmente, nessuno si è accorto di nulla, poiché i piloti non guardano mai in alto e i nubigeni non guardano mai verso il basso. Nessuno è infatti così stupido da andare ad affacciarsi oltre i limiti netti dei confini. Inoltre, il giorno nubigeno viene trascorso in uno stato di semitorpore: pochi hanno dunque visto l’aereo e solo un nubigeno è riuscito anche a fotografarlo. La foto [6], famosissima a Nubigenia, è esposta nel museo degli oggetti inspiegabili e ha sempre diviso i nubigeni tra chi crede e chi non crede in altre forme di vita extraterrestri. La stessa foto è stata di grande aiuto nella diffusione dell’idea di volo.

Oggi i nubigeni sanno che è teoricamente possibile volare, ma non si impegnano più di tanto nella ricerca, poiché ritengono questa esperienza inutile. In particolare perché questa regione è così piccola che non è assolutamente sentito il bisogno di accorciare le distanze. Qualche scienziato ha fatto notare: poiché Nubigenia gira intorno al Sole, chi si solleva dal suolo resta sospeso nell’aria, mentre sotto di lui il continente piatto continua a spostarsi. Per riatterrare bisogna attendere che, al compimento di un anno nubigeno (pari al nostro), la terra sia tornata nella posizione in cui era al mo- mento del decollo. E quale utilità può avere starsene sospesi per un anno, in attesa di tornare giù?

 
 

Screen Shot 2016-08-31 at 20.57.13Scienza e incoerenza

Proprio in virtù della non necessità di scegliere, ogni azione a Nubigenia è regolata dall’incoerenza. Così, molti di quelli che hanno dapprima criticato l’utilità del volo, sono oggi impegnati nella costruzione della torre di lancio. Con questa torre (che a noi può ricordare molto da vicino una gru edilizia [7]) i Nubigeni cercheranno di raggiungere la Luna della Luna. Il funzionamento pare facile: nella cabina sita all’estremità del braccio rotante prenderà posto l’apparecchiatura elettronica di trasmissione da spedire sul sottosatellite (è impossibile per il momento inviarvi un essere umano: come potrebbe ritornare a casa?).

Cercando di ricordare quel poco che avevo capito dalle spiegazioni fornitemi, sembra che facendo girare il braccio a velocità crescente e sganciando la cabina in un determinato momento, sia possibile immettersi nella traiettoria giusta per raggiungere la Subluna [8].

La torre, quando l’ho visitata, era già alta duecento metri. Nella mia piccola macchina fotografica non ci stava tutta e allora ho dovuto riprenderla in una specie di collage di immagini [9]. Il metodo di costruzione è abbastanza inusuale: dapprima hanno preparato il braccio rotante, quindi sollevando le parti già pronte aggiungono sempre nuovi moduli che accrescono l’altezza della torre. I tecnici dicono che la rampa sarà pronta quando per il troppo peso non sarà più possibile sollevarla.

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[8, 9] Foto smarrite

 

Straordinaria scoperta di un sottosatellite

Ho parlato di una Luna della Luna e ora devo trovare una giustificazione a questa mia invenzione. Data l’altezza cui sorge Nubigenia è ovvio che

le cose del cielo siano visibili meglio di là che dal nostro sconsolante livello del mare. E naturalmente il più vicino dei corpi astrali, la Luna, sarà anche quello che appare meglio dettagliato. È così: da Nubigenia si intravedono a occhio nudo crateri e mari selenici, ma soprattutto si resta colpiti dalla veridicità di quello che da quaggiù sembra un volto di donna, spacciato dai nostri astronomi per un gioco di ombre e che invece è proprio un volto di donna [10]. A Luna crescente, il volto appare di lato, mentre guarda in su. Proprio durante questa fase ho scattato una fotografia. A Luna calante, il profilo del volto guarda ovviamente in giù.

 

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Solo nel periodo di Luna piena il volto è completamente rivolto verso Nubigenia. Ma questa non è una fase molto apprezzata, poiché l’eccessivo chiarore disturba la visione dello spettacolo sidereo. Intorno a questa prima Luna (che è quella che vediamo anche noi) ne gira un’altra, un sottosatellite uguale al primo ma molto più piccolo. I nubigeni hanno scelto di esplorare questa miniluna sia perché è più vicina, sia perché non essendo altrettanto visibile quanto la Luna maggiore, la si conosce molto meno. E se persino da Nubigenia il sottosatellite è osservabile a fatica, da noi è del tutto invisibile. Chi ne ha mai sentito parlare? Chi ha mai potuto vederlo? Nessuno. E non solo per le dimensioni: pur nei momenti in cui non transita dietro al satellite maggiore ma gli passa davanti, essendo perfettamente uguale a questo per materia e colore, risulta completamente mimetizzato. Certo: astronauti, scienziati e tecnici della NASA sanno perfettamente dell’esistenza di questa Luna della Luna, ma non ne hanno mai parlato per questioni di economia. Infatti, ritirare tutti i testi di astronomia esistenti per modificarli con i nuovi dati verrebbe a costare troppo. E poi, ammettiamolo, cosa può cambiare nella nostra vita il sapere che esiste una seconda Luna? Nulla, perché da noi l’osservazione del cielo è poco diffusa, anzi è considerata quasi una perdita di tempo. Invece a Nubigenia è un appuntamento quotidiano irrinunciabile.

 

Un’attesa ripetuta ogni ventiquattro ore

Tutto ciò che può colpire il visitatore del quadrato di Nubigenia di giorno perde ogni interesse se raffrontato a ciò che vi avviene ogni notte. Saranno forse i quattordicimila metri di altezza, sarà magari una più favorevole posizione geografica o una consistenza particolare dell’aria che funge da lente , ma da Nubigenia si assiste a occhio nudo a fenomeni celesti inimmaginabili sul resto della Terra, a meno di non ricorrere a potenti telescopi. La descrizione è difficile: pianeti visti non come semplici punti luminosi, ma come piccole sfere che si ingrandiscono, passano vicinissime, stazionano, retrogradano. Emissioni radio che qui diventano visibili come filamenti colorati. Meteore cubiche. Per evitare una narrazione che potrebbe sconfinare nella più vuota immaginistica ho preferito girare un video di una delle notti cui ho assistito [video].

Spero che vedendolo riusciate a comprendere l’atmosfera diffusa in quei momenti, anche se penso che per un terrestre sia difficile immaginare un simile evento senza legarlo a sensazioni misteriche, cosmiche, prometeiche. A Nubigenia, per fortuna, non è così. Guardate il video e ascoltate quale colonna sonora un nubigeno mi ha consigliato di usare.

[video] Non ho più alcuna idea di cosa rappresentasse quel video e quale fosse la musica che lo accompagnava. Non ricordavo nemmeno di aver utilizzato un video.

 

Un terrestre (e forse anch’io, lo confesso) avrebbe scelto una musica spaziale, fatta di sibili, scoppi e cori mistici. perché per i terrestri tutto deve essere coordinato, falsamente coordinato. A Nubigenia non è obbligatorio essere sempre e solo da una parte. È meglio mescolare. È difficile adeguarsi al pensiero di Nubigenia, a meno di non essere dei mescolatori inconsci. Di fronte a questi fenomeni celesti si è portati a pensare all’Assoluto. E nel supermarket dell’animistica terrestre l’Assoluto si lega necessariamente a trombe o timpani o vocalizzi incorporei. La scelta del nubigeno può sembrare inopportuna ed empia alle orecchie preconfezionate nella banalità, ma è la migliore scelta possibile: è una scelta di distacco e rifiuto della partecipazione viscerale. Ma allo stesso tempo è una scelta di altissima spiritualità che ci insegna come l’Assoluto sia ovunque, nelle costellazioni come nel cha cha cha.

 

Padroni del proprio tempo

Per non perdere neanche una notte di spettacoli siderei i nubigeni hanno messo a punto dei sistemi avanzatissimi di riassettamento meteorologico. Mi accorgo di inventare ritrovati tecnologici inesistenti sul resto della terra e che invece poco più in su avevo parlato di uno sviluppo identico tra le due parti di mondo. Potrei giustificarmi dicendo che questa è in fondo una guida imperfetta e che se creassi un meccanismo impeccabile non si tratterebbe più di un’opera di fantasia, ma di matematica. In realtà, celebrando l’incoerenza positiva di Nubigenia cerco di nobilitare la mia stessa incongruenza di pensiero. Perdonatemi e continuate a seguirmi nella visita a una Centrale di Denubizzazione. Anche qui esistono giorni sereni, caratterizzati dal diffondersi di una luce fortemente azzurrata [11], e giorni coperti in cui la luminosità si attenua e assume toni verdastri [12].

Ciò si vede molto bene nelle dominanti delle immagini che ho ripreso. Se al tramonto di un giorno verde le condizioni meteorologiche non accennano a migliorare [13], entrano in funzione questi potentissimi aspiratori di nubi che puliscono il cielo e permettono di assistere a quanto le effemeridi prevedono e anche a tutto ciò che di inatteso ogni notte accade nello spazio più vicino al nostro pianeta.

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[13] Foto smarrita

Ho scattato una foto a un denubizzatore in attività, ritraendolo mentre aspira gli ultimi residui di una formazione nuvolosa [14]. Purtroppo non mi sono potuto avvicinare molto, ma solo perché la potenza degli aspiratori è tale che se ne deve stare lontani. Non si tratta dunque di divieti dovuti, per esempio, a segretezza militare (a Nubigenia non esistono eserciti, non per convinzione pacifista, ma perché manca un altro popolo conosciuto con cui scendere in una eventuale guerra). Poiché il denubizzatore consuma molta energia, in caso la nuvolosità sia ridotta si usano i soffiatori [15]. Si tratta di ampie trombe che emettono getti d’aria capaci di dissolvere formazioni nuvolose di limitato spessore. Questi non sono pericolosi e sono riuscito a fotografarli molto da vicino.

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Case e finestre come palchi e loggioni

Una volta ripulito il cielo, se ve n’è bisogno, tutti i nubigeni sono pronti ad assistere allo spettacolo sidereo. Non esistono luoghi particolari in cui raccogliersi per questo evento: lo si osserva dalle strade o più spesso dalle proprie case. E questo conferma ulteriormente la quotidianità dell’accadimento e quindi la semplicità del rapporto con lo spirituale. I modelli architettonici rispondono alla necessità di una osservazione ampia della volta celeste. Quindi tra un edificio e l’altro vi sono grandi spazi, le costruzioni hanno sempre pianta rettangolare, molto lunga e disposta parallelamente all’asse nord-sud.

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Le pareti più lunghe sono letteralmente affollate di finestre sul fronte orientale [16] (quello da cui sorgono gli astri e nel quale più vivido è lo spettacolo notturno), mentre il lato occidentale è del tutto cieco [17]. Questo per quanto riguarda gli edifici comuni, simili ai nostri condomini. Vi sono costruzioni più recenti che riprendono il tema terrestre delle casette a schiera, ma che non rinunciano ai moduli nubigeni: la schiera è sempre parallela all’asse nord-sud, con tutte le finestre a est. Inoltre, ognuna di queste casette possiede il proprio tubo di partenza [18]. Questi sono strutture cui non so ancora che senso dare. Però ve ne è uno in ogni casa privata. E in quelli che sono i corrispettivi dei nostri condomini ve ne è uno di uso comune [19].

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[18] Foto smarrita

 
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Superare i contrasti non significa annullarli

A Nubigenia si superano i dualismi, facendo toccare gli opposti. Eppure, per ribadire

ulteriormente le contraddizioni, è molto radicato il contrasto tra cerchio e quadrato che, banalmente, rappresentano la positività e la negatività. La materia è negativa (e quadrata) e lo spirito è positivo (e rotondo). Questa poco originale teoria trova una giustificazione nella forma dei due maggiori simboli della materia e dello spirito: la terra e il cielo. Sappiamo che la pianta di Nubigenia è quadrata e che la volta celeste ha forma sferica. Facile far derivare da questa casualità un’intera filosofia geometrica e morale. La principale applicazione di questa mentalità si riscontra nell’architettura. La suddivisione che noi tracciamo tra architetture moderne e antiche a Nubigenia assume gli attributi di pie ed empie. Sono pie le architetture della zona più antica, creata vicino al confine orientale. Si tratta di costruzioni in pietra, in cui una parte importantissima è giocata dagli archi [20], dalle finestre a rosone, dalle cupole. Dovendo servire essenzialmente alla visione della volta celeste è naturale che questi edifici cerchino di imitarne le forme. Il cerchio rappresenta la spiritualità a tal punto che i conventi nubigeni erano costruiti solo da grandi anelli di ferro sorretti da altissimi tubi di partenza. L’utilità di questi tubi mi appare sempre più chiara. I monaci nubigeni vivevano ognuno sotto uno di questi tubi, rinunciando del tutto alla pur minima attività diurna e materiale. Al momento della mia visita di questi conventi non era rimasto nulla, se non una sola piccola fotografia che sono riuscito a portare via con me [21].

 
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Sono strutture in ferro e vetro basate spesso sul rettangolo [22], sullo spigolo [23] o su una forma che ricorda il quadrato, ma che quadrato perfetto non è mai. Ci sono dei motivi per queste scelte: il territorio di Nubigenia è limitato e non è più possibile scavare nell’unica cava esistente per ricavare la pietra da costruzioni, ecco perché si è passati al ferro e al vetro. Poi, questi edifici sorgono verso la zona centrale e tra loro e il confine orientale sorge la zona antica e pia. È naturale che per permettere una migliore visione dello spettacolo sidereo debbano essere più alti.

Il motivo di questa sparizione è l’affermarsi delle architetture empie, che a noi verrebbe da chiamare moderne.

[22] Foto smarrita
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Infine, le forme spigolose sono molto più pratiche quando si vogliono costruire velocemente edifici razionali.

Comunque il quadrato perfetto non viene mai utilizzato perché creerebbe troppa negatività negli abitanti di quei palazzi. Il quadrato perfetto in edilizia è usato solo per la prigione di Nubigenia, una specie di grande incastro di cubi [24] in cui si provano sensazioni sgradevoli, è molto difficile dormire e non si riesce a sentire il fascino misterioso dei movimenti celesti.

Nella prigione nubigena è compreso un tubo di partenza, ma anch’esso ha forma quadrata e credo che nessuno lo abbia mai utilizzato [25].

[25] Foto smarrita

Screen Shot 2016-08-31 at 21.24.05Scettici e tardo-positivisti possono facilmente considerare tutto questo come superstizione. Ma vi sono esempi offerti dalla natura di che scuotono la saldezza di convinzioni razionali. Nella zona desertica settentrionale, per esempio, le uniche tracce di vegetazione sono quelle nate all’ombra di un tubo di cemento abbandonato e che, probabilmente, ha concentrato al suo interno circolare delle energie positive [26]. Al contrario, uno dei ragni più velenosi tra le poche specie presenti a Nubigenia tesse una tela con trama quadrata [27]. Si tratta quindi di un dualismo difficile da rifiutare in blocco e anche i nubigeni più scettici rispettano il monumento in cui si celebra la vittoria della positività sulla negatività: una distesa di quadrati maligni bianchi e neri, schiacciata da un cilindro benefico [28]. I nubigeni non sono mai definiti e anche questo simbolo ha un significato sfumato: il cilindro non è che una estensione in altezza di un cerchio, un tubo che collega il cielo alla terra e non schiaccia quest’ultima, ma la redime.

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Il Cielo Di Pietra

 

Ancora più antico delle architetture pie è il Cielo Di Pietra che sorge verso il confine nord-occidentale. Si tratta di una specie di grande effemeride materiale in cui alcune statue simboleggiano i pianeti noti sino dall’antichità (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, più il Sole e la Luna). Queste statue sono mobili e venivano spostate lungo circuiti che ne rappresentavano le orbite per prevedere gli eventi celesti più interessanti e spettacolari. Oltre a questi simboli mobili ve ne erano di fissi, come l’indicazione del Centro del Cielo. Ma a un certo punto, poiché i nubigeni preferiscono la sorpresa, l’apparizione inaspettata di stelle e pianeti che rende più affascinante l’osservazione astrale, il Cielo di Pietra fu abbandonato. Oggi è chiuso e l’ingresso è vietato perché le strutture sono pericolanti. Ho potuto quindi fotografare le statue dei pianeti riprendendole da un filmato conservato in un centro di documentazione. Qui, fra l’altro, si continuano a seguire e prevedere gli eventi celesti, utilizzando però grandi schermi e apparecchiature elettroniche, senza diffondere i dati rilevati [29]. Sono comunque andato al Cielo di Pietra. Non vi sono entrato, ma da fuori ho potuto riprendere almeno il Centro del Cielo, ormai quasi sommerso dalla vegetazione [30].

Sono rimasto molto colpito dalla incredibile somiglianza nelle attribuzioni caratteriali tra la simbologia astrologica nubigena e quella terrestre delle civiltà antiche. la bellezza di Venere [31], la giovinezza di Mercurio [32], il sonno plumbeo di Saturno [33], la prestanza di Marte [34], la potenza di Giove [35] sono le stesse riscontrabili, per esempio, tra i Greci. Uniche differenze simboliche sono quelle riservate al Sole [36] (che a Nubigenia non dà energia, ma semitorpore, come dimostrano i due personaggi che all’apparire del luminare abbassano il capo) e la Luna [37], anzi le due Lune, con la maggiore rappresentata mentre si cela il volto (evidentemente è ritratta in fase calante) e la minore che se ne tiene a distanza. Questa similitudine poteva essere soltanto un caso. Ma poco lontano dal Cielo di Pietra, verso la zona desertica settentrionale, ho visto qualcosa che mi ha fatto rifiutare completamente l’idea di casualità. Legati a una struttura non finita di pietre e cemento vi erano due cani [38]. La corda che li tratteneva permetteva loro di arrivare solo fino a due porte, appena accennate da dei pilastri. Mi hanno raccontato che si tratta di una costruzione tradizionale, in cui i cani vengono sostituiti regolarmente da moltissimi anni, ma di cui nessuno ricorda più l’origine [39],

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[29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 37, 38 Foto smarrite]

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Finitezza Delle Cose Nubigene

Il Cielo di Pietra, anche se pericolante, è stranamente ancora visibile. Sono poche le cose che restano a Nubigenia, dove a passare non è solo la gloria del mondo, ma tutto. Gli edifici, dopo essere rimasti disabitati per un certo periodo di tempo, cominciano a indebolirsi, assumono una consistenza gelatinosa. In una giornata ventosa, ho fotografato la prima fase ondulatoria di un edificio disabitato [40]. Questa fase è durata per qualche minuto, poi, ma così in fretta tanto da non permettermi nemmeno di cambiare la pellicola, l’edificio si è dissolto, scomponendosi come le immagini riflesse nell’acqua colpita da un sasso.

Più persistente è il fenomeno prodotto dai fiori. I fiori nubigeni non sono particolarmente profumati ma, appassendo, invece della fragranza essi lasciano proiettata sul muro la loro ombra [41].

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È una immagine che rimane per qualche giorno, poi anch’essa scompare. Per questo motivo i fiori secchi sono sconosciuti a Nubigenia, come sconosciuta è l’idea di museo d’arte. Sarà ormai chiaro che anche le immagini dei quadri svaniscono: restano solo le tele bianche [42] che, senza alcun rispetto per il genio pittorico di chi le ha usate, vengono riutilizzate per altri quadri temporanei. La storia dell’arte nubigena necessariamente non esiste, così come non può esistere una storia delle nuvole al tramonto, una storia delle bolle in un bicchiere d’acqua minerale e tutte le storie di altri eventi casuali, osservati una volta, scomparsi e irripetibili nella stessa forma. Persistereste voi in un mondo di cose che svaniscono? I nubigeni non lo fanno. Anch’essi spariscono. Ne ho fotografato uno di cui ormai non restava che una vaghissima ombra [43]. Usando una parola terrestre potrei dire che questo dissolversi sia la morte dei nubigeni.

[42, 43] Foto smarrite

Andare Alla Luce

Vi anticipo subito che a Nubigenia la morte è solo il compimento di un desiderio. È un evento atteso, mai temuto, né tantomeno accompagnato da sentimenti, simboli e immagini cupe. È una morte simile a una nascita, persino nell’espressione che la definisce. Anche i nubigeni dicono venire alla luce per indicare l’atto della nascita. Ma dicono anche andare alla luce per indicare la morte. Si diventa luce. Non solo metaforicamente: al termine del processo di scomparsa si diventa proprio una piccola sfera di luce. Allora, finalmente soddisfatto il desiderio più intimo, i nubigeni si innalzano e ridiventano parte dei movimenti siderei.

 

Chiocciole Con Un Segreto

Devo spiegare qual è questo desiderio. Le spettacolari albe dei pianeti e degli altri corpi celesti, i passaggi delle meteore e le eclissi, pur se possibili in infinite combinazioni, sono in fondo eventi ripetitivi. Nonostante ciò, notte dopo notte invece della noia nei nubigeni subentra il desiderio. Dapprima è solo una sensazione vaga che si fa sempre più intensa, più inquietante. Possono passare anni, in cui i nubigeni spendono tutte le loro notti a guardare lo spettacolo sidereo, presi da questa inquietudine di cui non conoscono il motivo. Notti intere passate cosi, con ovvi effetti sulla vita diurna: luoghi pubblici deserti [44], bambini addormentati sui gradini delle scuole [45], una attività quotidiana alquanto rallentata. Nel fare questo, i nubigeni sono catturati in un circolo che sembra non avere sbocchi. Essi reagiscono a una necessità interiore: quella di capire quale è questa necessità. Quando capiscono che ciò che provano è il desiderio di diventare come le luci che osservano, ecco che ha inizio il processo di trapasso.

Questo può avvenire a qualsiasi età, per cui si possono incontrare anche nubigeni di 130 e più anni, nei quali il desiderio tarda a maturare. Ma sono casi rari. Non appena raggiunta l’età della ragione, ogni Nubigeno dedica tutte le notti alla maturazione del proprio desiderio. All’inizio credevo che fosse solo una delle mie tante ipotesi su questo popolo. Nessuno poteva confermarmi la sua veridicità e io mi domandavo: se questo è proprio ciò che avviene, perché chi ha capito il motivo della propria inquietudine non lo spiega agli altri per aiutarli a superare il disagio? Ponendomi questa domanda non tenevo conto di due particolari:

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1. i nubigeni parlano pochissimo e ancor meno delle proprie sensazioni. La poesia non esiste (pur rifiutandomi di inventare una lingua nubigena, posso dire che in essa non esistono parole che terminino con le stesse sillabe e quindi le rime non sono possibili). Il resto della letteratura nubigena ignora totalmente i romanzi d’amore, preferendo generi più tecnici e, soprattutto, la registrazione impersonale degli effetti siderei più interessanti osservati nel corso dei secoli;

2. uno dei primi effetti del trapasso è la perdita non della facoltà di parola, ma della voglia di parlare. Dopo aver capito cosa sta maturando nel proprio cuore, un nubigeno non dedica neanche una frazione delle proprie energie ad altro che non sia il compimento del suo desiderio. Quindi non dedica neanche un attimo del suo tempo a una operazione come il parlare che (ricordiamo l’altitudine cui siamo!) richiede un grande consumo di ossigeno. Sono, insomma, simili a chiocciole, che tengono chiuso nella loro spirale il proprio segreto. Un segreto ultimo che non viene mai svelato a chi non è ancora pronto a riceverlo.

 

Fine Di Nubigenia

Sono più loquace non solo di un nubigeno, ma anche di qualsiasi altro terrestre. Una sera, mentre verso il crepuscolo già qualcuno era pronto ad assistere allo spettacolo notturno, ho parlato della mia teoria a un gruppo di nubigeni. Ascoltandomi trovarono d’un tratto la risposta alle loro insonnie volontarie e cominciarono a diffondere la notizia tra tutti gli altri abitanti. L’aver ottenuto la rivelazione senza una adeguata crescita spirituale alterò i normali meccanismi con cui i nubigeni svanivano al termine della loro esistenza. La fase di scomparsa risultò estremamente accelerata, tanto che dopo essere stati messi al corrente della mia teoria (ma ormai non era più solo una teoria, bensì una certezza) ai nubigeni bastarono pochi minuti per dissolversi, tramutarsi in piccole sfere di luce e innalzarsi verso l’oggetto delle loro osservazioni. Intorno a me, e per colpa mia, Nubigenia andava svuotandosi dei suoi abitanti, mentre il cielo si riempiva di sfere e delle loro scie. Decisi immediatamente di abbandonare la regione supernubilare, anche perché tra poco, non essendo più abitanti, sarebbero scomparsi anche gli edifici e non sarebbe rimasto che il suolo dalla pianta quadrata. Anzi, per evitare che qualcuno decida di andare alla ricerca dei resti di Nubigenia, approfittando del potere delle invenzioni terrestri, faccio in modo che la vanificazione sia totale e dissolva anche tutta la parte superiore del monte a clessidra. Non prima, però, che io ne sia ridisceso e che, ripresomi dallo smarrimento per ciò che ho combinato, abbia fotografato le scie delle ormai ultime sfere di ex-nubigeni, lanciate verso il cielo, senza neanche il bisogno dei tubi di partenza [46 ].

 

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Chiocciole Senza Segreto

Credo di aver capito a cosa servissero i tubi di partenza. Probabilmente erano una specie di rampa di lancio per i nubigeni trapassati. Da qui essi prendevano il via per andare verso... [i puntini sono necessari: non so dove siano andati]. Questo modo dei nubigeni di abbandonare la fisicità mi fa pensare ai molluschi privi del loro guscio. Sì, proprio a una lumaca. Le lumache sono loro, noi siamo le chiocciole. È così trasparente la loro fine materiale, così pulita. Non resta nulla. L’assenza di decomposizione può essere stata raggiunta evolutivamente per motivi di spazio: Nubigenia era piccola, il suo suolo era prevalentemente roccioso, difficile da scavare. Quasi non esistevano le cantine e i cimiteri erano del tutto assenti. L’idea di un graduale dissolvimento in un’altra materia (che è la nostra morte) non è altrettanto affascinante quanto il discreto intrasparentirsi dei nubigeni. Una volta svaniti e diventati una piccola sfera di luce, usavano evidentemente questi tubi di partenza per innalzarsi. Sì, deve essere così, anche perché questi tubi confermano la teoria secondo cui tutta la nostra spiritualità è giunta a Nubigenia.

I tubi di partenza ricordano molto il tunnel oscuro attraverso il quale i tanatologi dicono che l’anima passi dopo aver abbandonato il corpo. E la mancanza di decomposizione fa pensare alle assunzioni in cielo bibliche. Naturalmente, nello scendere dai quattordicimila metri di altezza al nostro livello, qualcosa è cambiato. Il tunnel-passaggio si è smaterializzato, mentre la decomposizione si è materializzata. Tutto sembra funzionare abbastanza bene in questa ultima invenzione, ma ormai non credo di aver neanche più il bisogno di risultare convincente. Chi ama trovare sempre delle spiegazioni e delle giustificazioni tecniche avrà ormai smesso di seguire la narrazione su Nubigenia, disgustato dall’approssimazione e dal difetto di fondatezza scientifica. Quanti saranno arrivati fin qui? Forse solo i più ingenui, i meno critici. Coloro che credono negli spiriti, nell’invisibile e nelle influenze impossibili. Coloro che creano e non distruggono.


Tommaso Labranca - Poeta senza speranza - Le poesie di Angelo Stofano inviate ad Adelphi

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Poeta senza speranza

Le poesie di Angelo Stofano inviate ad Adelphi

Per le poesie: © Angelo Stofano, 1992
Per la versione elettronica: © Tommaso Labranca, 2010
Chiunque pu usare e diffondere questo testo, ma, per favore, non fate il mio nome!

www.tommasolabranca.eu

 

Nell ottobre 1992 inviai queste cinque tristi poesie a Guanda, Scheiwiller e Adelphi. Mi rispose solo quest'ultima Casa editrice. Ho sempre immaginato che le altre due avessero capito che si trattava di una bufala. Magari anche alla Adelphi, dove forse avranno appeso la lettera e le poesie in redazione per riderne nei momenti pi uggiosi. Per ho sempre apprezzato il fatto che mi avessero risposto.

Non ricordo nemmeno più perché avessi scritto e spedito quelle poesie. Forse perché erano simili a quelle di un anziano signore, operaio in pensione, che le inviava a raffica al giornale del paese in cui abitavo allora. Ricordo solo che scelsi il nome del poeta senza speranza modellandolo su quello di mia nonna. E il nome dell amico pittore, Marino Semoa, deriva dal noto coro da gita "Lo vedi, semo a Marino... "  .

Un'altra delle poche cose che ricordo è che il numero eccessivo dei componimenti (739!) era ispirato alla mole di raccontini pseudokerouac di un essere che avevo la sventura di conoscere. E il titolo Non ti drogar!!!!! nasceva dal celebre brano quasi omonimo di Alberto Beltrami una specie di Mauro Corona della mu-sica leggera . E che La preghiera della trota era un amaro sfogo al cupo lavoro che svolgevo allora: redattore dell'eniclopedia a fascicoli settimanali L'Arte della Pesca per la De Agostini. Giorni interi passati a correggere testi su ami, lenze e pasture. Forse fu per quello che poi scrissi queste cinque poesie.

Le pubblico qui nella loro versione per macchina da scrivere, complete di lettera di presentazione e lettera di risposta. Oggi, dopo averli passati allo scanner, ho distrutto gli originali.

 

T-La, settembre 2010

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E IL CANTO DEL CUCUL? TU CHIEDI ANSANTE...

CANTAR NON SO E SONO BEN STONATO .

RISPONDOTI IL CANTO TUO

SIA LA PREGHIERA AL RE DEL BEL CREATO !

 

 

www.tommasolabranca.eu


Tommaso Labranca - Una zampa più corta

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una zampa più corta

Ho la sventura d’essere nato in inverno
quando l’addetta al controllo qualità degli scoiattoli distratta dal primo fiocco di neve che le cadde sul naso sbagliò la misura di una zampa posteriore.
E ora eccomi qui
ai piedi di un pino
enorme, svettante, che incombe
sulla mia incapacità di conquistarlo.
Con una zampa più corta
O forse è l’altra a essere più lunga?
Non l’ho capito mai
nemmeno quando
mi siedo e fisso le due zampe
disuguali e distese.
Quello che ottengo
quando sottraggo la misura della zampa destra
da quella della zampa sinistra
è l’incapacità di giungere ai rami in alto
da dove gli altri scoiattoli, i parizampa,
fanno dondolare le code con fierezza, seduti in tanti, in quattro,

ma ancor più spesso in due.
che insieme vivranno finché avranno ghiande.

Io arrivo a malapena,
e con fatica,
e con dolore a tutte le giunture,
al primo ramo, dove mai nessuno siede. E da lì osservo
la linea deturpata della speranza tarpata.

Vedo una scimmia-bambino che muore tra le zampe dello zio-scimmia.
Vedo un capo d’abbigliamento difettato
rimasto invenduto persino in un outlet.
Vedo la festa attesa e cancellata
per lutto cittadino.
Vedo tremila involucri
di gomme americane troppo zuccherine che recano la scritta
“Ritenta, sarai più fortunato”.

La statua di un cerbiatto in un asilo che rivela il bianco del gesso laddove si è rotto un orecchio.
Vedo tutto quanto gli altri scoiattoli si rifiutano di vedere
dai rami alti su cui si accoppiano nascosti tra le foglie.

Ma ancor più in su di loro so che c’è
la punta estrema di questo pino enorme.
E so altrettanto bene che io, un giorno, a malapena e con tanta fatica

là salirò e attenderò da solo
col muso verso il cielo
che il primo fiocco di neve dell’inverno venga a posarsi qui, sopra al mio naso.

 

hamore

Nei tour notturni senza meta né necessità mi spingo fino alla zona cittadina con le case Liberty in cui ho abitato al Tempo della Disco Music. Là mi sembra di incontrare per strada me stesso davanti all’ingresso della scuola media, mi vedo spiccare sul fondo nero della notte. Vorrei fermarmi a parlare a quel me stesso lontano. Mettermi in guardia rispetto alle delusioni dell’amore. Prospettarmi l’infinito shabbat di solitudine e inerzia forzata, che torna a ogni fine settimana, imposto dagli altri e non dalla divinità. Anticiparmi l’incolmabilità dello iato affettivo rispetto agli altri che parranno sempre vivere le relazioni con colori più intensi delle mie tinte opache.
Al punto che un giorno chiamerò il loro sentimento Hamore, con l’acca, perché diceva la maestra che c’è una differenza tra la preposizione e il verbo e per farcela capire accentava in maniera esagerata la vocale del verbo.

Così mi convincerò che per me arriverà al massimo l’amore, mentre tutti gli altri vivranno l’Hamore (e accento in maniera esagerata la prima sillaba).
Ed è una cosa irraggiungibile, più profonda, più intima, più complice, più esibitiva e più forte del normale affetto.

Ma è una forza che nasce solo dalla mia Visione Falsata De L’ Mondo e dall’ascolto di mielose canzoni italiane degli anni Settanta, con voci in falsetto da castrato barocco.
Canzoni che raccontano di giovani amori tra giovani corpi nell’Universo De La Perfettione senza brufoli, senza pancia, senza vestiti scelti dalla mamma, senza genitori tout court.
Sentirò maggiormente questa forza la domenica nel tardo pomeriggio, quando il cielo ha il colore dei minuti che precedono il crepuscolo nel tardo autunno. In quel momento si concentrano tutte le energie e le tristezze delle coppie che stanno per separarsi dopo il dì di festa trascorso insieme. L’atmosfera, sensibile alle radiazioni emesse dalle componenti eteree degli esseri umani, si ammorbidisce ed etimologicamente ammorba chi è escluso dal Grande Addio e lo osserva solo dalla finestra.
Troverò la luce di quel cielo che ha l’azzurro scialbo del ghiaccio in una foto amatoriale a pagina 24 di un vecchio numero di Fermoposta, sezione Coppia Cerca Coppia, Regione Nord.
Anche i meno meteosensibili capiranno che non è estate perché lei sarà in pelliccia. Lui la riprenderà con una polaroid poi cancellerà con una biro gli occhi.
Lei terrà la pelliccia aperta e oltre a un reggicalze nero sotto non avrà nulla, sfidando il freddo, mostrando le tette, un generale sfacelo della carne, con i capezzoli che guarderanno verso il basso. Sarà una foto fatta di sicuro di domenica nel tardo pomeriggio, quando il cielo ha il colore dei minuti che precedono il crepuscolo nel tardo autunno.
I due saranno stufi di pomeriggi domenicali affollati di bambini e suocere e visite di cortesia obbligata e cercheranno così trasgressioni a basso prezzo.
Lasciati i figli alla madre di lei, saranno fuggiti sul Ticino, avranno parcheggiato la Golf con l’autoradio accesa e si fotograferanno ascoltando una vecchia cassetta con gli stessi castrati barocchi che decenni prima avevano segnato i momenti più belli della loro focosità giovanile. Quando il loro Hamore non era ancora banalizzato dalla consuetudine.

la montagna dove muore l’amore

C’è sempre qualche malfunzionamento In certe grandi case popolari
Di solito è la luce delle scale
La serratura oppure un ascensore
O tutte queste cose in una volta
Entra chi vuole e allora vi entro anch’io
Confuso tra inquilini di ogni dove

Dai nomi che riecheggiano sapori
D’atlante o di romanzo d’avventura

Di trattorie gestite da cinesi
Di trafiletti da cronaca nera.
Usando un ascensore di servizio
Arrivo indisturbato sul terrazzo
Da dove guardo verso l’orizzonte
Come se stessi in vetta a una montagna Ma il suolo è solo a trenta metri appena Intorno non ho pini resinosi
Ma antenne paraboliche e camini
In basso non si estende alcuna valle
Ma un tratto urbano della tangenziale.
Compiendo un alpinismo alla rovescia
Discendo lentamente per le scale
E ascolto ad ogni piano, ad ogni porta
L’amore che agonizza in questo monte.

Decimo piano
Frammento di diatriba familiare
Lo schiaffo e dopo un grido di dolore
Un cellulare suona inascoltato

Nono piano
I pianti di bambini proletari
Voci stizzite in turco o in albanese
Il fischio di una pentola a pressione

Ottavo piano
Cozzare di stoviglie scompaiate
“Ma dove credi che li trovo, i soldi?”
Le sedie trascinate per dispetto

Settimo piano
Applausi in qualche quiz per milionari
La lite con la figlia adolescente

Sei nomi slavi accanto a un campanello

Sesto piano
Rimbombi esagerati di un home theatre
L’odore di pietanze misteriose

“Non tornerai alle quattro anche stanotte?”

Quinto piano
Offese orrende in calabrese stretto
Silenzio: ed è la cosa più inquietante
“Lavoro tutto il giorno ed ecco il grazie”

Quarto piano
Il disco hip hop di un figlio solo a casa
“Sia maledetto il giorno che son nata”
Il vento che fa sbattere una porta

Terzo piano
Abdoul che prende a schiaffi la sua Amina
Un rutto e lei che dice “Sei un maiale”

La sigla tronfia di un telegiornale

Secondo piano
“Sei stata in giro tutto il giorno, troia”
Un vecchio sordo grida contro il gatto
“Ma quando ti decidi a lavorare?”

Primo piano
“In questa casa non funziona niente”
“E questa merda tu la chiami cena?”
“Un giorno o l’altro compirò una strage”

Ecco il portone e l’atrio senza luce
Esco correndo e non mi volto indietro. Finché non giungo in un parcheggio oscuro. Mi trovo circondato dalle auto
In cui stanno nascendo nuovi amori.
Vorrei bussare a quei cristalli oscuri
Vorrei mettere fine a quegli amplessi
Vorrei gridare a quelle coppie ingenue

“Non date fede a Céline Dion, mendace
Che canta del respiro degli amanti

Che nel mattino dormono abbracciati.”

Indicherei la torre minacciosa...

“Ogni montagna chiede il suo tributo
E questa è più crudele d’ogni altra.
La sveglia, gli OGM, i palinsesti
Vi spegneranno un po’ alla volta il cuore.”

 

 

crain @ de discotek

I
Amore spento
Fuoco già estinto
Durò soltanto
Per quel momento
Che mi parve incanto
Un portento
Dal cielo giunto
Si mutò in vento
Che mi prosciuga dentro
E fa di me un torrente
Che non ha più fonte

Non ha più la sua corrente
E l’inverno attende.

II
Discoteca scadente
Sulle rive del Brenta
Finta estate caliente
Grasse in autoreggenti
Qualche triste studente

Io casuale cliente
Tu improvviso frammento
Di un prezioso diamante.
Sguardo che è rapimento
Di Cupido instrumento.
Mi colpisce violento

Il sorriso convinto
Come spada da kendo.
Come zefiro aulente

Che discende da un monte
Sulla pista tra gli unti

Si avvicina sospinto
Il tuo corpo discinto.
Ora giunti
Or disgiunti
Alla fine ti arrendi
Alla fine ti accendi
Non son baci, ma accenti
Di un amore impaziente
Di una attesa urticante.
Quando si placa l’onda
Mi sbilancio e domando:
“Il tuo numero?” e attendo...
Tu ci pensi un secondo
Poi mi dici “C’ho un Wind

Tre due otto sei venti...”
Gesto da adolescente
Uno squillo soltanto
Per sentirti dir “Pronto?”

Per mostrarmi presente
Ma la voce è gelante:
“Numero inesistente”.

III
Di neve
Un manto
Discende
D’argento
Pesante
Sul sogno si posò.
Sul cuore un guanto
Nero distendo
Fatto è d’amianto
Spegne all’istante
Ogni accenno al sentimento
Che mi fa spavento

Che mai più in me riaccendo
Ti passo accanto

Freddezza ostento
Or saldo il conto
Poi me ne andrò.

IV
Amore spento Fuoco già estinto.
Le quattro e trenta...
Mentre l’oriente
S’accende

Il buio resta in me.

 

cose fatte nell’attesa immaginaria

Ho atteso un tuo sms questa notte, ma non è mai giunto.
Mi è uscito del sangue dall’orecchio destro
mentre il velivolo su cui forse viaggiavi attraversava lo spazio aereo sopra casa mia.
Ho scaricato il Magnificat di Bach da un newsgroup di musica barocca.
Ho stampato un foglio A4 con scritto il tuo nome.
Ho controllato se c’era una tua mail.
Non ho trovato una tua mail.
Ti odio perché non mi hai scritto una mail.
Ho buttato il foglio A4 su cui avevo stampato il tuo nome.
Ho passato l’aspirapolvere.
Ho risposto alla mail che non mi hai spedito.
Non avrei dovuto, ma ho risposto.
Non volevo farlo, ma ho risposto lo stesso.
Mi sono pentito di aver buttato il foglio A4 con stampato il tuo nome.
Ho pulito la gabbia del criceto.
Ho mangiato una pesca bianca, ma non era buona.
Ho pensato che avrei fatto meglio a non scriverti più.
In fondo chi sei?

Ho sentito che si è alzato il vento e forse pioverà.
Mi auguro che pioverà così tutti resteranno a casa.
Ho creato una cartella in cui metterò le tue mail.
Ho avuto il sospetto che quella cartella resterà vuota.
Ho avuto la sensazione che il tempo non passi.
Ho avuto la sensazione che tu non esisti.
Ho avuto la conferma che tu non esisti.
Ho cancellato la cartella in cui pensavo di conservare le tue mail.
Sono uscito.
Pioveva, ma sono uscito lo stesso.

 

hjärta

Ed una sera, verso le diciotto,
ci fu l’appuntamento nel parcheggio.
Era un mercoledì d’inizio autunno,
trenta settembre del duemilanove.

«Ho parcheggiato dove non potrei,
in quegli spazi per le donne incinte.
Lo faccio apposta, sai, non trovo giusto
che a noi, donne senz’ombra, sia negata
dal papa e dal governo ogni premura.
Persino nei parcheggi si diffonde

la discriminazione di chi è sola...»
Ti presi per un braccio, sorridendo.
«Ma dai», ti dissi. «In caso di controllo
dirò che sono il tuo caro compagno.

E che proprio stanotte tu hai saputo
di quella goccia che è sfuggita al nulla.»
Hai riso piano a quella citazione

con cui comincia un libro che alle medie
io lessi senza alcuna convinzione
costretto da una prof che non capivo 
se fosse di sinistra o antiabortista.

Hai quello stesso libro a casa tua 
e attende infine una sistemazione
diversa dalle mensole sbilenche 
su cui traballa in pile un po’ precarie.
Per questo ci trovammo a Carugate:
per acquistare i Billy o forse i Flärke
su cui riporre tutti quei volumi
di cui leggerò i dorsi di sfuggita

le rare sere in cui verrò a trovarti.
Avranno i tuoi volumi quella requie
che noi non ritroviamo in nessun campo,
instabili nel cuore e nel lavoro 
senza un affetto vero o un posto fisso.
Per nostra scelta, non per costrinzione,
ci abbandoniamo a vite non seriali,
a collaborazioni temporanee,
affetti light e poco impegnativi,
amori per email tra luoghi estremi 
finiti se non scrivi per un giorno.
Entrando nel negozio tu mi hai detto:
«Facciamo tutto come tradizione,
coi fogli per segnare gli scaffali,

la borsa gialla che lasci alle casse,
col metro in carta e le matite in legno.
Ricordi quando eran colorate

di giallo e blu, non grezze come adesso?»
Sin dagli ambienti ove comincia il giro
sfiorammo i nostri simili in silenzio.
Ben poche le famiglie e si capiva
dal mare di palline, quasi vuoto.
Non c’era alcuna luce solidale
negli occhi di chi a noi era fratello.
Passavano le coppie con superbia
mostrando i vari gradi dell’amore.
Gli sguardi di chi è ai primi appuntamenti
e timido si studia perché solo
nei banner che ti invitano su Meetic
si ride e tromba fin dal primo incontro.
La noia delle storie prolungate
che forse troveranno nuova linfa
nei cambiamenti dell’arredamento.
Girammo senza fretta e senza accenni
ai nostri guai lasciati nel parcheggio.
Tacemmo di contratti e sentimenti parlarne,
in fondo, non sarebbe stato
che un interscambio di insoddisfazioni.
Scrivevi le tue scelte sulla lista.
Pensavo a casa tua e ti consigliavo
quell’altra forma o quell’altro colore.
«Deve piacere a me!» dicesti secca.

Ridendo poi accettasti la proposta.
«D’accordo, per stavolta ti accontento.
A patto che si resti nel mio budget.»
Ci dirigemmo verso il ristorante
sfiorando un tizio che col suo compagno
gridava per imporre al muto partner
la tinta delle tende del tinello.

«Le diciannove e trenta... ed è già buio...»
dissi a me stesso mentre mi sedevo a
ccanto a una finestra oltre la quale
scorreva lunga sulla tangenziale
la fila di chi andava verso case
dove vigeva l’ora della cena.
Intanto tu parlavi al cellulare
frasi accennate, mmh, mezze parole.
Ma io non t’avrei chiesto mai chi era,
così come tu non hai mai saputo
con chi avevo scambiato quei messaggi
mentre eravamo accanto alle cucine.
Un patto di reciproco pudore,
il fingersi di ghiaccio dentro il cuore.
Io non mangiavo mentre tu parlavi.
Contavo le polpette dentro il piatto,
fissavo il lago scuro dei mirtilli,
nel tuo, la chiazza rosa del salmone.

Poi quando hai chiuso hai detto solo: «Scusa...»
Alzando il bicchierone di cartone
brindammo insieme con il Lingonberry
al nuovo arredo del tuo appartamento.
Ne discutemmo ancora, disegnando
possibili scenari del salotto
sul tuo Moleskine nero già riempito
di cifre, conti, schemi e riflessioni
che io mi costringevo a non guardare.
Quanto restammo lì a schizzar piante,
a consumare una cena svedese,
con dietro le finestre la Brianza?
A un certo punto tu dicesti «È tardi»
e allora ci affrettammo al magazzino.
Dai fogli sparsi che tenevi in mano
leggevi gli scaffali e i corridoi.
Io prelevavo i pacchi e controllavo
che il serial number fosse quello esatto.
«Quanta fatica fatta per riporre
dei libri che ho comprato e mai sfogliato.
A volte, sai, mi sento così oca,
con tre nozioni senza alcun legame.»
Io ti citai Panofsky che diceva
quanto fosse europea la dispersione
della cultura senza un epicentro.

«Vuoi che ti presti il libro?» - «Ma sei matto?
Con tutti quelli che non ho ancor letto...»
La fila in cassa, il laser ed il timore
d’avere superato il massimale
della tua Visa, in fondo è fine mese...
Uscimmo col carrello troppo pieno
dal clima artificiale del negozio.
Provai quasi una gioia respirando
l’umidità d’autunno a Carugate.
Una foschia che appena percepivo
rendeva astratta l’aria nel parcheggio.
E senza una parola io compresi
che tu condividevi quel paesaggio
di luci gialle e costruzioni basse.
Lo amavi più di una terrazza al mare
di palme, spiagge e isole lontane.
Premesti il tasto sul telecomando
ti salutò la Panda in un festoso
accendersi di luci lampeggianti.
Poi caricammo insieme i pacchi piatti.
Ti dissi: «Ma davvero sei sicura
di scaricare tutto, tu da sola?»
«Ci penserà un vicino domattina.»
«Promettimi però che sarò io
ad aiutarti dopo nel montaggio.

La brugola per me non ha segreti...»
La tua breve risata fu sommersa
dal gracidare degli altoparlanti:
chiudevano il negozio, già le dieci!
Ci allontanammo in direzioni opposte
verso le nostre case modulari.
Diciotto gradi, apparve sul cruscotto.
Tra poco il freddo avrebbe messo fine
al denudarsi estivo dei burini.
Giungemmo quasi nello stesso tempo
ai piccoli paesi in cui viviamo
per scelta, per rivivere ogni giorno
lo stupore dello scendere in città.
Avrai anche tu bevuto del tè verde,

sfogliato un libro o scritto qualche mail.
La stessa delusione nel vedere
l’assenza di risposta a quel messaggio
inviato appena usciti dal parcheggio.
Spente le luci delle nostre Lykta
(bianca la mia, azzurra la tua, invece)
ci accolse il nostro materasso Sultan
inutilmente ad un piazza e mezzo.

 

quando volerò davvero

Un giorno vi stupirò
per quanto andrò lontano
lasciando questo posto da custode
dei vostri beni mentre voi eravate
dimentichi in piacere a me proibiti
e che forse non esistono nemmeno.
Sarà la volta in cui volerò davvero
un giorno dopo la mia cremazione.
Bruciate insieme a me tutte le cose
che troverete,

bruciatele così, senza sfogliarle,
senza mai aprire scatole o cassetti
né scompattare file.

Bruciate tutto
senza ricorso alle benedizioni.
Dall’alto di un colle

che vi indicherò
lasciate che quei resti della scorza
s’involino davvero verso i luoghi

in cui non sono mai stato,
in cui mi hanno rifiutato.

Frammenti della cenere grigiastra
arriveranno fino alle città
in cui avete goduto una parvenza
di allegria ripetitiva e falsa.
Altri frammenti, che forse erano ossa,
si infileranno dentro quelle stanze
disordinate, laddove vi ha mentito
l’abbraccio monocorde della carne.
Qualcosa andrà a fermarsi nelle orecchie
di chi non ha voluto mai ascoltarmi.
Ancora un grumo volerà negli occhi
di chi non mi ha mai letto per principio.
S’infilerà qualcosa sotto le unghie
di mani ormai anziane
che mi picchiavano in quinta elementare.
E tanta cenere come coriandoli invisibili
celebrerà cadendo quelle feste
a cui io non ricevetti mai un invito.
Un lembo di qualcosa del mio corpo
sarà più audace e sceglierà di andare
a sciogliersi sul labbro di chi un giorno
non volle ricambiare qualche bacio.
Ed altri, ed altri ancora pioveranno
su vecchi quotidiani di quei giorni
in cui m’accade qualcosa di importante,

ma cosa fu non lo ricorderò.
L’ultimo soffio di cenere, alla fine,
scenderà lento sulla cima di un pino enorme dove
a malapena e con tanta fatica
sarà arrivato uno scoiattolo segnato da disparità alle zampe.
Sarà l’ultima cosa che avrà fatto.
Stremato da uno sforzo troppo grande
che gli ha tolto il fiato, ma non la meraviglia
di vedersi scendere sul naso

un brandello di quello che di me sarà restato.
Lo crederà il primo fiocco di neve dell’inverno,
poi chiuderà i suoi occhi
e sarà felice.

 

Hamore è tratto da Il piccolo isolazionista (Castelvecchi, 2006)
Crain @ de discotek faceva parte della raccolta 
Poesie dell’agosto oscuro (pubblicazione privata, 2005)

I testi fanno parte del reading Una zampa più corta, con musiche di Fabio Zuffanti. Sono liberamente copiabili, citando la fonte.

gennaio 2010

 

www.tommasolabranca.eu www.zuffantiprojects.com


Tommaso Labranca - Una rubrica brutta e rozza - Le recensioni per Leggere 1995-1996

Tommaso Labranca

Una rubrica brutta e rozza

le recensioni per Leggere, 1995-1996

versione elettronica scaricabile da www.tommasolabranca.eu

Introduzione

Era il 1995, non ricordo esattamente il mese. Tommaso Pellizzari, ai tempi caporedattore della rivista Leggere della Archinto Editore, mi chiese di scrivere una recensione al mese dedicata a quei libri inutili, brutti o as- surdi di cui nessuno parla, liquidandoli con la solita stupida affermazione: “E’ come sparare sulla Croce Rossa”, o di cui, addirittura, qualcuno parla bene per strane colleganze o scambi di piaceri. La prima recensione riguar- dava il romanzo Cigno attribuito all’allora top model Naomi Campbell. Lo scritto apparve al centro del giornale, ma poco dopo quelle recensioni fu- rono spostate in ultima pagina, sotto il titolo di In guardia!. Fino ad allora quella pagina raccoglieva pensierini in libertà dello scrittore adelphiano G. Rugarli, trasferito in prima romana (sarebbe la prima pagina di un fasci- colo, quella dopo la copertina). Rugarli scrisse una lettera all’editore della rivista in cui diceva che si sentiva offeso per essere stato sfrattato da una rubrica “brutta e rozza” come la mia in cui trattavo male i libri di Pansa.

Ma quello non fu l’unico simpatico episodio che costellò quei pochi mesi di recensioni. Per esempio, il professor Stefano Zecchi si indispettì talmente per la recensione al suo libro che, tramite il suo avvocato, minac- ciò querela.

La recensione del libro della Llera Moravia fu l’unica a subire una piccola censura su alcune parole, chiesta dall’editrice, Rosellina Archinto in persona. Qui trovate la versione originale.

Dopo la recensione del libro di Sandro Curzi, Nico Orengo su La Stampa disse che ero un asino perché invitavo a bruciare un libro e i libri, anche se brutti, non si bruciano mai. Naturalmente Orenco aveva e ha ra- gione. Sia sui libri sia su la mia asinità.

Dopo la recensione del suo libro su Ulisse, Luciano de Crescenzo mi inviò un suo libro con una dedica molto divertente.

Il titolo di cui vado più fiero è quello dedicato al libro di Rutelli, al- lora sindaco di Roma di provata fede ratzingheriana. Tramutai la sigla SPQRnell’acrosticodi“ScrivePirlateQuestoRutelli”.Danotarepoichea scrivere effettivamente quel libro fu il futuro ex-ministro Gentiloni.

Ma il momento di maggiore gloria di quella breve stagione fu quando dovevo recensire il libro di Francesco Alberoni Ti Amo, libro di una bruttezza e di una vuotezza sconsolanti. Non sapevo davvero che cosa scrivere. Pellizzari chiamava a scadenze di dieci minuti per avere il testo. Ed ecco l’illuminazione: scrissi di getto una recensione in versi, sul modello delle vecchie, volgarissime Osterie e la intitolai Osteria degli Alberoni. La versione originale, che trovate qui, era più lunga di quella effettivamente pubblicata.

Tommaso Pellizzari mi disse che mentre vedeva comparire il fax e leggeva i versi non sapeva se ridere o piangere. La recensione venne letta da Silvia Ronchey e Giuseppe Scaraffia, conduttori dell’indimenticato pro- gramma culturale L’altra edicola su RaiDue, che chiesero di ospitarla nella propria trasmissione. Così organizzammo un coro di intellettuali dell’edi- toria milanese che chiamai La Crema de la Intellectualidad, ispirandomi a un vecchio cha cha cha messicano dal titolo Madrid che avevo trovato chissà dove.

La Archinto Editore stava traslocando e i locali della vecchia sede, una bella struttura con colonne e soffitto a volte, erano vuoti. Dopo alcune prove (e una superfesta) vi radunammo quindi un pomeriggio il meglio degli intellettuali milanesi, da Alberto Rivaroli a Ranieri Polese, da Stefania Ulivi alla stessa Rosellina Archinto e davanti alle camere di una troupe RAI il coro si esibì. Il successo fu strepitoso e passammo anche a Blob. Fummo chiamati all’Altra Edicola altre due volte, con successo e intensità crescenti. La seconda volta, in vesti da montanari con gerle, fiori e pantaloni alla zuava, eseguimmo negli stessi locali della Archinto Quel mazzolin di libri che viene da Segrate, un testo contro la Mondadori scritto da Tommaso Pel- lizzari (che più tardi avrebbe pubblicato per quella casa, ma il suo caso è meno grave di quello di Casarin...).

Il terzo coro raggiunse vette di un misticismo inaudito. Ancora una volta testo e direzione di Pellizzari: si trattava di Questo piccolo grande au- tore, la versione del pezzo baglionesco riscritto proprio da Tommaso Pel- lizzari pensando a Proust per Labranca Remix. Pellizzari diresse un coro di uomini in black tie e donne in lungo nello studio del TG Lombardia in corso Sempione. Alle dieci del mattino. Assolutamente da brivido il finale, nella penombra, quando il maestro Colombo sullo spegnersi delle voci, toccando un tasto produsse un lungo, straziante nitrito.

Dopo quel coro, la trasmissione di Ronchey e Scaraffia fu misteriosamente soppressa...

Rileggendo queste recensioni mi sono reso conto di alcune cose. Per esempio che sono stato troppo cattivo con persone che in fondo non lo meritavano (come Cipriani) e di non essere stato abbastanza cattivo con gli altri. Mi sono soprattutto reso conto di come nessuno oggi ricordi più uno solo di quei titoli. Libri pubblicati per fare catalogo, per sfruttare una effimera fama momentanea di qualche personaggio. Pubblicizzati sulle prime pagine dei quotodiani, presentati in eventi mondani con Bruno Vespa a fare da cerimoniere e poi, dopo nemmeno quindici giorni, spediti a pacchi dai Reminder’s.

Sic transit...

Cigno
di Naomi Campbell

Se non sono diventato una top model è a causa dell’inquinamento tremendo e dello smog di Milano che ha fatto soffrire la mia carnagione. Questa è la conclusione cui sono arrivato leggendo il romanzo Cigno di Naomi Campbell, 400 pagine d’amore, di lusso e di thriller ambientate nell’affascinante mondo della moda mondiale.

Del libro originale qui si dirà poco o niente. Non serve affrontare il volume con l’intenzione di distruggerlo; la Campbell, infatti, ha scritto un romanzo decente e ha soprattutto un grande merito: non è partita con l’in- tenzione di fare l’intellettuale, ma conscia di scrivere un Harmony prolun- gato. Libro a tratti apprezzabile. Sono bellissimi i punti in cui l’A. si autocita, dicendo, per esempio, “C’erano molte modelle famose, persino Naomi Campbell!”. Questo mi ha ricordato un mio vecchio sogno: diven- tare talmente celebre da laurearmi con una tesi su me stesso.

Meno riusciti sono alcuni punti della parte milanese dove Naomi è un po’ massimalista (gli italiani sempre allupati e perennemente in ritardo) e persino imprecisa (come può dire che la musica dei club milanesi è pessima, noi che vantiamo glorie come i Cappella, i Corona e gli Usura?). Ma nel complesso sono minuzie trascurabili se raffrontate a ciò che la Mondadori ha saputo fare con la versione italiana di questo libro.

Partiamo dal presupposto che il romanzo non sia stato scritto da Naomi, ma da tale Caroline Upcher, citata anche nel copyright. Tra una sfilata e un volo sul Concorde, Naomi si sarà limitata a dettare ciò che le pas- sava per la mente e Caroline, diligentemente, metteva il tutto in buon inglese.

Fatica sprecata, poiché tutta la cura lessicale e grammaticale della Upcher è stata sistematicamente smantellata dalla traduzione italiana, in- feriore persino a quella dei manuali d’uso di lavastoviglie prodotte a Dan- zica. Colpevole di questa ciofeca è la signorina Roberta Rambelli.

Evidentemente la signorina Rambelli ha passato tre settimane con la EF a Londra. Perché è stata scelta per tradurre questo libro? Due possibilità: o per l’assonanza tra i cognomi (Campbell/Rambelli) oppure perché possedeva una raccomandazione potentissima.

Apprezziamone alcune chicche: a pagina 84 colpisce l’incapacità assoluta della signorina Rambelli di rendere in italiano il doppio senso della parola book, inteso in inglese sia come libro sia come documentazione fo- tografica della carriera di una modella. Qui e là conserva le virgole, tipica- mente anglosassoni, dopo la congiunzione e. Là e qui usa nelle stesse frasi il pronome tu e il pronome voi. Ma raggiunge un vertice quando traduce uptown, ossia periferia, con la parte alta della città. Brava, anche da parte di William Weaver.

Il cognome Rambelli fa pensare alla forza distruttrice di Rambo, ma forse è più esatto il parallelo con Rambaldi: in fondo, entrambi creano mostri. Interessante è anche l’osservazione del risvolto di copertina, vera e propria miniera di minimalia su cui riflettere. Già alla prima riga della nota biografica, dopo appena due parole, i redattori Mondadori sono riusciti a infilare un refuso: uno spazio di troppo prima di una virgola. Un sassolino all’interno di un articolo di quotidiano. Un macigno sulla copertina di un libro che si propone come una produzione ricca, visto il gioco tra parti lu- cide e parti opache che ne caratterizza le immagini.

Qualche riga più in là si dice che Naomi è amica di famosi musicisti [sic!] come Aretha Franklin, Michael Jackson, Madonna, Boy George e Ge- orge Michael e che nel 1994 ha inciso il suo primo disco per la Sony. Si vuole sottolineare una relazione tra i due fatti? E’ una velata accusa di clien- telismo? Signorilmente, la Campbell non ha reagito. Non ha fatto come le Carlucci che vanno in bestia tutte le volte che si chiede loro se è vero che sono in tivù perché amiche di Cirino Pomicino.

 

Un cuore perso
di Catherine Spaak

Non ho mai visto nulla di più orripilante della foto che appare sulla quarta di copertina del romanzo Un cuore perso scritto senza pudore dall’ex attrice Catherine Spaak e pubblicato con ancor meno vergogna dall’ex casa editrice Mondadori.

La Spaak vi è colta nel momento della creazione letteraria: immersa in profonda meditazione, lo sguardo lontano... Catherine indossa una camiciola in jeans e sfoggia occhialoni in tartaruga modello Palomar. Regge nella mano destra una lussuosa stilografica (bic? macchine da scrivere? computer? Tutto troppo plebeo), mentre la sinistra è portata alla bocca, forse a nascondere la protesi dentaria oppure, più verosimilmente, a met- tere meglio in mostra una sorta di cucù da polso Bvlgari in oro massiccio; un orologio che, portato regolarmente, procura lo stesso effetto di tre ore di bilancieri tutti i giorni.

Una foto falsa fino all’irritazione, in cui la Spaak, già finita in quel cimitero degli elefanti per attrici in disarmo che è il giornalismo, vuole ora a tutti i costi apparire scrittrice, senza riuscire a capire, povera donna, che non basta una penna e lo sguardo ispirato per poter scrivere. E i risultati si vedono: il libro fa letteralmente schifo.

Soporifero come una puntata di Harem. Inutile come la marchetta (ossia finto articolo con scopo pubblicitario) che la Mondadori ha acqui- stato su Sette qualche settimana fa per lanciare il libro.

Al termine di una difficile interpretazione dell’orrida pastiche spaakiana ho capito a grandi linee la trama del romanzo: lei è una giornalista smorfiosa e viziata che incontra un burinesco autore teatrale rifugiatosi nell’ellenica isoletta di Mikonos per eludere un certo schifo culturale ita- liano: “...terza pagina del Corriere, supplemento del Venerdì di Repubblica, Costanzo Show, Babele, Abele, Caino, cazzo, Campiello, Strega...” (pag. 72). Insomma, tutto quello schifo di cui sono parte inscindibile anche i salotti televisivi della Spaak, a questo punto chiaramente ipocrita.

Sia lui sia lei non sono proprio di primo pelo e me li vedo mentre camminano lungo la spiaggia come gli attempati protagonisti di un vecchio spot Rockford. A un certo punto l’incanto è interrotto da un dramma: la madre di lei sta morendo di cancro ai polmoni in un ospedale di Parigi. Non fatevi impietosire: la madre è più perfida della señorita Enriqueta nella telenovela Andrea Celeste. La Spaak va dunque a Parigi, lui resta a Mikonos e sapete come avvengono certe cose... insomma, in un sol colpo Catherine perde madre e amante.

L’unico personaggio degno di nota di tutto il romanzo è la capra Medea, cui la Spaak, vittima dei primi sintomi di demenza senile, fa il bagno e fa ascoltare Mozart con il walkman.

Per raccontare questa stitica storiellina l’indimenticata interprete di Io non mi innamoro più in coppia con Johnny Dorelli (hit del 1973) fa un largo uso di flash-back, particolarmente insostenibili quando entra in scena l’immancabile tata che le preparava i biscotti da piccola. I flash-back e gli eventi del presente oltre che essere conditi da una continua pubblicità a marche di sigarette, sono spesso indistinguibili tra loro.

La terza volta in cui si è perso il filo del racconto si pensa di essere di fronte al solito dilettante che ha pubblicato solo grazie al proprio nome conosciuto. Ma giunti a pagina 61 ecco l’illuminazione! La seconda riga del capitolo 9 recita: “Un corvo sguaiato commenta la scena da lassù, poi tace”.Eccodadovenascel’incomprensibilitàdellinguaggiospaakiano:dalle massime frantumate del Corvo Parlante della Settimana Enigmistica. Que- stavol igliovel acaga odoio:no atequest tailcons ncompr tadilibro!

 

“I giorni contati” di Paolo Guzzanti

Ogni volta che sotto il tergicristallo della mia auto trovo il volantino “Clamorosa svendita per fallimento”, penso istintivamente a Paolo Guzzanti. Non per la svendita, quanto per il fallimento. Dagli inseguimenti a Craxi tra un suk e l’altro allo sfumato impegno politico nel Patto, dalle trasmissioni tv con effetto sbraitante à la Sgarbi (audience rilevata: i parenti più stretti) all’imbarazzante flop di Bar Condicio, Guzzanti pare non azzeccarne mai una. Non contento, approda ora al libro. Si chiama I giorni contati ed è edito da Baldini & Castoldi.

La quarta di copertina ci avvisa: questo è il primo romanzo di Paolo Guzzanti. Se si trattasse di un edizione con copertina rigida in tela penserei si fosse verificato uno scambio di sovracoperte. Dentro, infatti, il romanzo non c’è. Ci sono invece ricordi sparsi della vita di Guzzanti.

Mettiamo, allora, che questo libro è un’autobiografia. Genere ancora più pericoloso del romanzo, poiché narrando se stessi scappa sempre quel paio di episodi che magari hanno un grande valore personale, ma di cui al lettore non interessa nulla. Anche leggendo l’autobiografia di Casa- nova (che ne ha fatte più del nostro scarmigliato giornalista-scrittore) scappa qualche sbadiglio; figuriamoci quanto si sloga la mascella leggendo questi ricordi guzzantiani.

Clamoroso esempio di autosciacallaggio, Guzzanti ci infligge i suoi souvenir giovanilistici prendendo spunto dalla morte del padre. Mentre per tutti noi la morte del padre è un dramma privato, per chi ha redatto il risvolto di copertina del libro essa è “un campo semantico di attese e di prove”.

Guzzanti, che nel libro si dipinge come un eroe intelettuale e solitario, nato senza conoscere né la Nutella né la televisione, cade miseramente già a pagina 5, dove perde la sua aura quando pone la dedica a parenti e amici. Ma la cosa peggiore del libro è il linguaggio. La pochezza di certi episodi è sepolta sotto una valanga di orride invenzioni immaginifiche, di metafore sfasate e di tentativi di porsi come grande scrittore solo perché si è complicata la struttura della frase. Esempi: “la valigia aperta masticava camicie e calzini”, “una notte che non aveva il coraggio di puzzare di pesce, ma di abbronzante”, “l’Adriatico stava cadavere sulla riva”, “lo sfintere del gallo batteva a spasimo le sistole e le diastole della morte”, “faceva un freddo bianco di latte di nebbia che non macchiava le mani”. Ci siete ancora? E pensate che sono solo arrivato a pagina 20. Concedetemi un’altra perla dell’idioletto guzzantiano, a pagina 119, a proposito della nonna, si legge: “Era l’estate del 1952 in cui non potevo sopportare che lei morisse”. Al di là dell’instabilità sintattica, viene da pensare che, invece, nell’estate del 1951 il Guzza non vedesse l’ora che la vecchia crepasse e nell’estate del 1950 ar- rivò persino a metterle il perborato nel semolino.

Poiché buona parte del libro si svolge a Riccione, il risvolto di copertina non può mancare di citare Fellini (il quale, per altro, era di Rimini). Ma il vero Maestro che si cela dietro queste pagine non è il celebre regista, bensÏ un altrettanto celebre giornalista. Ho sempre sospettato che Guzzanti mirasse a emulare Enzo Biagi. Anzi, più i suoi strilli e le sue convulsioni lo allontanavano dalla compostezza biagiana, più sentivo forte il legame. Ora quel sospetto è confermato: I giorni contati altro non è se non l’emulazione (molto) fallita di Disonora il padre. Comparare per credere.

 

Io, Monna Lisa
di Donatella Pecci-Blunt

La parte più utile e interessante del libro Io, Monna Lisa, firmato da Donatella Pecci-Blunt (pron. Patcheeh-Blahnt) ed edito da Spirali/Vel, resta la foto in quarta di copertina. E’ utile perché se anche voi abitate nella Bassa Padana potrete ritagliarla e usarla come catarinfrangente nelle giornate di nebbia più fitta. E’ interessante poiché incarna un’evoluzione fon- damentale: se le nobildonne dell’Ottocento tenevano un salon, quelle attuali si travestono da salon. Prima di farsi fotografare, infatti, la DPB si è mimetizzata da salotto buono, dandosi la calce viva sul volto, mettendosi due lampadari di Murano alle orecchie e due abat-jour ai polsi, indossando la tappezzeria di un divano e ponendosi sbarazzinamente sulle spalle un tendaggio in broccato. Insomma, la stessa tenuta con cui appare ogni settimana (chissà perché) su tutti i periodici Rusconi, ritratta a balli, feste, cene, vernissage, premiazioni, compleanni e interramenti.

La DPB, qualificatasi nelle note come imprenditrice di bellezza e di arte, dopo aver deciso di lasciare perdere ombretti e fondotinta, ha scritto in 134 pagine la storia di Lisa Gherardini del Giocondo, ossia di colei che fece da modella per il quadro più inflazionato e sopravvalutato dell’intera storia dell’arte: la Gioconda di Leonardo. Il libro è diviso in due parti tra le quali, purtroppo, non c’è nessuno spot pubblicitario.

Nell’avvertenza, la DPB ci dice di aver “volto nell’italiano di oggi” un manoscritto di Monna Lisa del Giocondo. Stratagemma originale, cui poi si sono ispirati, plagiandolo, anche sir Walter Scott, Alessandro Manzoni e Umberto Eco.

Donatella ci avverta anche di avere “eliminato la prolissità e la ridondanza del fiorentino cinquecentesco”. Nell’operazione è stata comunque attenta a compiere danni sufficienti.

Alcuni esempi: “dal nostro talamo non rampollavano figli” (pag. 19) oppure “fuori scoccava in diagonale il lampo nero di qualche residua rondine” (pag. 26). Non ha mancato, poi, di mettere in bocca a una donna fiorentina del cinquecento espressioni improbabili come “il vostro status” (pag. 32), postprandiale e glaucopidi (pag. 38). La sciura Gioconda, moglie del commerciante Francesco Gherardini, convince il marito a farle fare un ritratto da Leonardo, lamentandosi di avere in casa solo opere del Granacci, Jacopo di Sandro e Antonio Michi, ossia di “piccoli maestri, dei minori e per di più un po’ sorpassati”. Non contenta, poco più avanti la DTP fa dire alla sciura Gioconda: “Le quotazioni di Leonardo sono alte, certo, ma sono destinate a salire ancora”.

Cara Donatella, in questo modo si saranno espresse le ricche signore che visitavano le gallerie d’arte, di cui lei conduceva le PR, di fronte alle croste figurative di alcuni pittorucoli salottieri e mondani, non certo una giovane donna fiorentina del Cinquecento.

Ma le sembra possibile che nel XVI secolo si parlasse di quotazioni di un pittore? Le sembra possibile che la Gioconda potesse parlare di alcuni artisti suoi contemporanei già definendoli minori? Ma lo sa che per certi giudizi di valore sono necessari a volte secoli?

Queste delizie storico-artistiche sono intervallate dai continui zompamenti che la Gioconda compiva nei letti di mezza Firenze e che spiegano il nome dato dagli Inglesi al quadro che la ritrae, ossia Mona Lisa.

Se questa annotazione vi sembra pecoreccia, ascoltate ciò che la DPB dice a pagina 48 a proposito delle prestazioni di uno dei suoi numerosi amanti: “non so se il merito fosse dei passeri o, come scherzava lui, della mia passera”. Se qualcuno tra i lettori ricorda di aver fatto il CAR insieme alla nobildona Donatella Pecci-Blunt me lo faccia sapere.

 

Il compagno scomodo di Sandro Curzi

Per un fortuito caso del destino ho alternato la lettura de Il compagno scomodo di Sandro Curzi (edizioni, serve dirlo?, Mondadori, lire 25.000) a quella di Take it like a man, l’autobiografia di Boy George (Pan Books, £ 5.99). Curzi e Boy George non hanno nulla in comune, a cominciare dalla pettinatura, ma proprio le differenze tra queste letture parallele mi hanno fornito materiale di riflessione. Per esempio, Boy George scrive la sua autobiografia a soli 33 anni e riesce a riempire 572 fitte pagine. Sandro Curzi traccia questa summa della sua carriera a 66 anni e non riesce a mettere insieme più di 115 pagine. Numero di pagine puramente nominale, poiché la quantità reale è di molto inferiore. Oltrepassata l’orrida copertina con ritratto curziano, ci imbattiamo nell’ordine in: una pagina bianca, un’altra pagina bianca, pagina con il nome della collana (Ingrandimenti: si riferirà al corpo usato per gonfiare il testo?), frontespizio, indice, pagina con solo il titolo del libro, pagina con dedica a Candida, che ha scelto il mio mestiere, probabilmente trattasi della figlia che, quindi, vedremo presto magari come corrispondente del TG3, può darsi da Londra. Conclude questa sequenza di fogli vuoti un’ultima pagina su cui campeggia solitaria la parola Introduzione. Finalmente, a pagina 13, Curzi comincia a narrarci le sue avventure.

Nello stesso numero di pagine, intanto, Boy George ci ha raccontato le sue disavventure a scuola, quelle dei suoi genitori irlandesi e molto altro ancora. Ed è qui la differenza maggiore: Boy George ha avuto una vita sfolgorante. Incontrava David Bowie e Andy Warhol, Madonna e Diana Ross. Curzi ha trascorso un’oscura esistenza da giornalista prima per i quotidiani, poi in tivù al TG3 dove, al massimo, prendeva il caffé con Maurizio Man- noni o Mariolina Sattanino. Un po’ come quegli impiegati soffocati dalla routine che, operati alla prostata a 50 anni, fanno del racconto dell’inter- vento il loro cavallo di battaglia.

La prostata di Curzi si chiama Vittorio Cecchi Gori. Dal gennaio 1996 l’intera esistenza di Sandro Curzi si divide in a.C. e d.C. dove C. sintetizza il doppio casato dell’azionista di maggioranza di TMC. Questo libro è forse il culmine di quella serie di frenetiche attività presenzialiste in cui Curzi si è lanciato nell’era d.C. Opinionista da Costanzo, ospite di tavole ro- tonde, oggetto di interviste... Lui stesso ricorda all’inizio del pregiato vo- lume il fitto carnet di impegni in cui andava a ripetere che Cecchi Gori è un cafone, che ama licenziare, che lo riceveva mentre si faceva fare il pedicure. Il pubblico riconosceva gli aneddoti sin dalle prime parole e applaudiva, come si fa nei recital quando si riconosce già dalle prime note una canzone famosa.

L’incipit di Boy George suona all’incirca “sin da piccolo volevo assomigliareaShirleyBassey”.Curziesordisceparlandocidituttiqueglianonimi che lo fermano solidali per strada e che lui ha ribattezzato la gente. Ce n’è già abbastanza per chiedere indietro alla Mondadori le 25.000 lire.

Esaurita l’introduzione Curzi passa subito a parlarci di quello che più gli brucia: il suo rapporto con Cecchi Gori. Lo fa per 11 pagine e leg- gendo sembra di vederlo, con quella sua orripilante giacca giallo limone, che finge vergognosamente di essere sorpreso dalla telecamera mentre stava scrivendo a macchina. Sembra di sentirlo, con la sua gnagnera romanesca irta di pause. Una cadenza di cui lui stesso ci dice, esagerando, a pagina 62:

“...il mio accento romanesco, insopprimibile, ai limiti dell’intollerabile. Più tardi diventerà una griffe”.

Esaurite le astiosità contro VCG, Curzi si perde nei meandri della memoria, senza un filo logico, ma saltando da quando Boy Sandro scrisse a 14 anni il suo primo articolo all’esperienza a Radio Praga, da dove, pur- troppo, l’hanno subito rispedito in Italia, agli anni a RaiTre. Il tutto finisce con una lettera a un imprecisato nipote in cui la senescenza curziana tocca il sublime e snocciola una carrellata di commenti su alcuni personaggi po- litici. Insomma, forse il libro più inutile dell’anno, un’occasione in più per Curzi, soubrette mancata, di non scomparire dalla ribalta. Un libro fatto di tanti pezzi diversi, come quelle coperte patchwork, e altrettanto in grado di riscaldare. Cospargetelo appena di alcol e avvicinate un cerino.

Il miele delle foglie di Giuliano Zincone

Dice il risvolto di copertina de Il miele delle foglie (Marsilio, 20.000 lire) che l’autore, Giuliano Zincone, è nato a Roma il 20 dicembre 1939. Manca l’ora di nascita e senza questo dato non è possibile stilare un oro- scopo affidabile. Proviamo comunque.

Zincone è del Sagittario, simboleggiato da un centauro e quindi segno doppio: l’uomo (Zincone realizzatore di inchieste sul mondo del lavoro) e l’animale (Zincone che si intestardisce a comporre romanzi che paiono scritti sbattendo gli zoccoli a caso su una tastiera).

Il nativo del Sagittario è animato da una curiosità che lo spinge a compiere continui viaggi sia spirituali sia materiali. La curiosità di Zincone si limita a questa sconvolgente domanda posta a conclusione di un para- grafo del suo romanzo: “Dove vanno, dove finiscono le servette negre?”

La Luna in Ariete fa sì che Zincone abbia al suo fianco donne forti di cui diventa succubo. Ecco perché nel romanzo si sfoga, creando il per- sonaggio della madre del protagonista, Caterina, un’imbecille vacua fino ai limiti del surrealismo involontario, come quando di fronte al figlio lacero- contuso si limita a dire: “Cherchez la femme!”.

Venere in Capricorno e Saturno in Ariete indicano entrambi difficoltà nella comunicazione. Per 204 pagine Zincone cerca di dirci qualcosa,

ma noi riusciamo solo a intuire la storia di un ragazzo rimasto orfano, Paolo, che se ne va in Brasile, ma la comunicazione è talmente difficile che pare un servizio gestito da Telecom Italia.

Marte nei Pesci rende Zincone incapace di portare a termine le azioni intraprese. In effetti, benché Marsilio lo abbia compreso nella sua collana Farfalle, questo romanzo fa pensare a una metamorfosi incompiuta. Meritava dunque di apparire nella collana Bachi o, meglio, Bacarozzi.

Giove in Ariete è in quadrato al Sole. Questa posizione è indice di loquacità a volte (?) inopportuna legata a una certa faciloneria e a giudizi affrettati. Praticamente lo specchio della prosa di Zincone il quale prima crea la macchietta del pittore Francesco, padre di Paolo, quasi un Ciccio Formaggio dell’arte concettuale, poi ci regala l’immancabile sogno agitato del protagonista ricco di simboli psicanalitici da bancarella e infine condi- sce il tutto con zampate da maestro: “Le Volvo guaivano”, “Sei bellissimo, hai la faccia di Kafka”.

Concludo con una tripletta in grado di ridurre al silenzio qualsiasi avversario dell’astrologia. Nel tema natale di Zincone, Urano in Toro parla di creatività ridotta, e il romanzo è infatti povero di idee. Nettuno in Ver- gine simboleggia l’avversione ai cambiamenti, e il romanzo è quanto di più risaputo si possa immaginare. Plutone in Leone è causa di un eccesso di fi- ducia nei propri mezzi, e Zincone crede d’aver scritto un buon romanzo. Tanto che quando a pagina 16 dice “...così brutto che mi venne da piangere” si riferisce a un cappotto e non, come si potrebbe pensare, al suo libro.

 

Diario dell’assenza
di Carmen Llera Moravia

Diario dell’assenza di Carmen Llera Moravia (sic!) è pubblicato da Bompiani e costa 22.000 lire. E’ una scandalosa fetecchia spacciata neces- sariamente per libro. Infatti, non esistono ancora le fetecchierie così questa schifezza in forma di volume deve essere venduta nelle librerie. E siccome l’Archinto non pubblica ancora una rivista mensile che si chiami Fetec- chiare, la recensione di questa boiata deve apparire su Leggere.

Carmen Llera Moravia (sic!) condensa nelle 110 pagine della sua fe- tecchia il diario di una donna che mangia yogurt greco e noci e beve cham- pagne o tè, legge Márquez e ascolta musica sufi. Sembrerebbe il diario di una troia che riceve in casa a 500.000 lire a botta, perché nella narrazione non c’è traccia di frasi come “Oggi ho litigato con il capoufficio” oppure “La crisi sta facendo chiudere il mio opificio”. Invece la protagonista ci spiazza ammettendo: “Al sesso non penso mai. Lo faccio” (pag. 9). E intanto, per tutte le 110 pagine della fetecchia, ella continua a rimuginare i metri di cazzo che si è presa da un assente amante israelita, alternando questo lungo mugolio ninfomaniaco a descrizioni di una Roma da turismo povero del- l’Est europeo e a domande che come risposta meriterebbero solo una buona dose di schiaffi: “Perché vivo in maniera cosÏ assurda?” (pag. 10), “Ma le donne sono capaci di scrivere libri erotici?” (pag. 8), “Non mi farà male tanto sperma?” (pag. 109).

Quasi eccessive quanto i punti di domanda, sono anche le stucchevoli citazioni in francese. Necessario il ricorso a un’altra lingua, poiché la spagnola Carmen Llera Moravia (sic!) ha davvero poca dimestichezza con l’italiano. Lo dimostra a pagina 45, dove dice: “Mi alzo e mangio un philadelphia”. Se Carmen Llera Moravia (sic!) conoscesse davvero la nostra lin- gua, avrebbe saputo che si dice la philadelphia. Infatti, nei testi classici, che la fetecchiatrice ispanica ignora, Kaori dice “Philadelphia unica”.

In realtà credo che gli unici testi italiani che Carmen Llera Moravia (sic!) abbia letto sono le annate di Pop e Le Ore. La sua fetecchia sembra in- fatti la copia diretta dei servizi di quei pregevoli giornali pornografici. Solo che Carmen Llera Moravia (sic!), come si legge anche nel risvolto di co- pertina, ha in odio la “volgarità che invade le strade”. E allora ripulisce la sua scrittura. Intendiamoci, con l’israelita lontano non fa altro che trom- bare, ma lo fa con scelte lessicali che (lei crede) ben si armonizzano con i Parioli e lo champagne.

Carmen Llera Moravia (sic!): lei davvero ritiene di non essere vol- gare solo perché dice prendermi da dietro invece di pecorina? Perché dice sperma invece di sborra? Perché dice sesso invece di cazzo? No, Carmen Llera Moravia (sic!). La vera volgarità non sta nelle parole, ma nei fatti. Sta nel suo stesso diritto a pubblicare simili stronzate restando impunita, mentre meriterebbe, mi consenta la citazione che le riporta un po’ di colore del suo Paese natio, di essere garrotata.

Si alzi ogni mattina e ringrazi il Cuore di Gesù per il destino che le è stato concesso!

Un destino fin troppo benevolo che ha fatto sì che lei diventasse scrittrice e non quello che avrebbe meritato: ossia parrucchiera strabica, sarta con l’alitosi, commessa all’UPIM con i calli, rivenditrice Avon con portafogli clienti pari a zero, peripatetica nigeriana, profuga di Bosnia, suora missionaria colpita dall’ebola, ragazza dello zoo di Berlino...

Quello stesso destino le ha spalancato le porte della Bompiani, casa editrice che invito i lettori a subissare di pernacchi e insulti e che, non contenta del buco miliardario di cui soffre il suo gruppo RCS, pubblica questo angosciante delirio di una vagina in fiamme.

Quello stesso destino le ha riservato il dì 20 giugno 1996 una recensione favorevole sulle pagine culturali di la Repubblica a firma di quella gallina padovana della critica letteraria italiana che va sotto il nome di Barbara Palombelli.

 

Piazza della libertà di Francesco Rutelli

SPQR (Scrive Pirlate Questo Rutelli).

William Wordsworth visitò Francia, Italia e Germania. Tutto a piedi. Diversi anni dopo, ritiratosi nel Lake District, si dedicò alla recollection in tranquility, ossia al ricordo, nella tranquillità, dei suoi anni di azione.

Gertrude Stein arrivò a Parigi nel 1902, conobbe i più grandi artisti dell’epoca. Solo nel 1932 pubblicò l’Autobiografia di Alice Toklas.

Francesco Rutelli, eletto sindaco di Roma il 5 dicembre 1993, non ha fatto passare nemmeno tre anni e già ha ceduto alle lusinghe delle mémoires, pubblicando un resoconto della sua avventura di sindaco intitolato Piazza della Libertà (lire 27.000, editore, chiedo scusa io per loro, Mondadori). Un po’ presto, forse. Certo, Hitler scrisse il Mein Kampf nel 1925 e andò al potere nel 1933. Ma quello era un libro programmatico, mentre questo è solo un libro disgustoso.

Vero autore del libro è tal Paolo Gentiloni, al quale Rutelli deve aver dettato l’opera; come non pensare alla scena epocale di Totò e Peppino intenti nella stesura di una lettera?

Il volume appare nella collana Frecce e, al di là della facile battuta che vede nel nome una r di troppo, si pone come iniziatore di una nuova corrente letteraria: l’autoagiografia.

Bontà. Bontà infinita trasuda dalle 200 pagine di questo libro. Un sindaco amato, idolatrato, glorificato. Aggettivi trionfalistici come favoloso, clamoroso, grandioso, eccezionale costellano quasi ogni pagina. Gli esor- tativi Facciamo! Cambiamo!, su modello degli insostenibili davaite! russi, si sprecano. Che sindaco! Le vecchiette lo invocano, la ggente de borgata lo accoglie a braccia aperte, i bambini Rom gli scrivono lettere indirizzate a “Babbo Natale - per il sindaco Rutelli – Campidoglio” (pag. 103). Insomma, Francesco Rutelli, con i suoi grasitas de Trastevere, è la vera reincarnazione di Evita Perón. Ma allo stesso tempo, Ciccio Rutelli si dichiara uomo co- mune. Un uomo che non si vergogna di apparire nella foto in quarta di copertina con una camicia stazzonata che invoca, urlando, uno spruzzo di Stira e Ammira.

Rutelli si narra con la stessa enfasi riservata ai santi. Ma anche ai poeti e ai navigatori. Già nel prologo il quasi architetto Rutelli tradisce le troppe visite all’EUR: “Sono italiano e sono orgoglioso di esserlo. Di appar- tenere al paese che ha dato vita a grandi rivoluzioni di civiltà, intelligenza e cultura” (pag. 7).

La cultura rutelliana nasce dunque dalla strada. Ma anche dalle canzoni, dalla tv, dal cinema. Infatti, ogni elemento del soffocante ingorgo di banalità concentrato in questo libro rivela chiara la sua derivazione.

Musica: quando, a pagina 8, Rutelli scrive: “Eppure vanno avanti, animati da uno spirito nuovo, per costruire un’Italia migliore”, il pensiero va subito a Eros Ramazzotti che canta “Una terra promessa / un mondo diverso”.Epoi,leparoledipagina57:“Lalibertà(...)èstataperme(...)il passeggiare da solo in una città qualsiasi con una guida in mano e un pa- nino” non sono un plagio del manifesto programmatico dei coniugi Car- risi: “Felicità / è un bicchiere di vino / con un panino”? Rutelli è una pop star, come Michael Jackson. E come Jacko anche Ciccio si mimetizza: “...con occhiali scuri e cappellaccio percorro in incognito la città” (pag. 54).

Cinema: Rutelli a pagina 79, in visita alla borgata del Quarticciolo,

è seguito “da un gruppo di donne, che si è andato ingrossando via via: mi circondano, reclamano...”, quasi fosse una nuova Anna Magnani nei panni dell’Onorevole Angelina.

Pubblicità: la vera fonte di ispirazione di questo libro, e probabil- mente di tutta la filosofia rutelliana, sono gli spot. Pagina 13: “...fare il sin- daco: passione per la trasformazione del territorio, per l’ambiente, per rapporti sociali più equi e quartieri più vivibili”. Non sembra la réclame delle Fattorie Scaldasole? Pagina 8: “Certi guizzi non nascono per caso; e co- munque non bastano: ci vogliono idee chiare, serietà, rigore. E poi lavoro, lavoro, lavoro”. Diceva Walter Zenga in uno spot per un orologio nel 1989: “Per arrivare in Nazionale c’è voluto impegno, serietà, un lavoro duro”. Pa- gina 39: “Nicola Pierpoli (...) riunisce i suoi focus groups o convoca riu- nioni di brain storming...”. Derivato da: “Nel mio lavoro l’inglese è importante” (spot per i corsi di lingue a fascicoli della De Agostini).

 

Sensualità
di Stefano Zecchi

Per illustrare la copertina del nuovo romanzo di Stefano Zecchi, Sensualità (Arnoldo Mondadori Editore), ambientato a Calcutta e dintorni, è stato scelto Le amiche, un quadro datato 1924 del bolognese e novecentista Ubaldo Oppi. Follia pura? Ibrido postmoderno? No, calcolo furbetto.

1) Il quadro di Oppi ricorda quei quadri coevi (anche se spesso di Scuola romana, opposta a Novecento) che fanno da siparietto durante il Maurizio Costanzo Show.

2) Zecchi è ospite fisso dell’insostenibile talk-show.

3) Una simile copertina attira i fedelissimi di Costanzo i quali poi, riconoscendo in quarta di copertina il noto Esteta del Parioli, acquistano il libro. Una trappola diabolica.

Trama del romanzo: due donne, Giulia e Miriam, si trovano a Cal- cutta per motivi di lavoro. Per 160 pagine le due si girano in lungo e in largo l’India, Giulia a spese della sua ditta, Miriam a spese del suo giornale, contribuendo cosÏ all’aggravarsi delle crisi industriale ed editoriale italiane. Nei ritagli di tempo, oltre a intrecciare storie d’amore più o meno carnali, le due parassite si dedicano alla grande conversazione, parlando di temi elevati con frasi complesse e con parole non comprese nei 500 vocaboli di quel Basic Italian che tutti usiamo. Alla fine, Miriam muore in maniera

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piuttosto meschina, per una malattia epatica, invece di farsi aggredire da un bel morbo tropicale.

Cercare di leggere Sensualità è un’esperienza infelice, un percorso accidentato attraverso una prosa appesantita da troppi aggettivi messi prima dei sostantivi e disseminata di magniloquenze alla Lelouch che nascondono banalità sconcertanti (“il profondo mistero dell’esistenza” a pagina 3), improbabili fenomeni fisici (“la luce ancora abbagliante era spezzata dal vento”, pag. 8), allucinanti massimalismi da salone di barbiere (“Uno strano americano [...] con una sua fede che non fosse il denaro” pag. 29).

A ricordarci che Zecchi riceve anche uno stipendio come professore di Estetica presso l’Università Statale di Milano, ecco che nel romanzo le pa- role bello e bellezza appaiono a ritmo continuo. Ancora più spesso che nel celebre Disco della bellezza vera di Elena Melik, il 45 giri che l’esperta di bellezza del settimanale Grazia incise nel 1970. Non perdete tempo a sco- prire debiti verso, che so, John Ruskin: è la Melik la vera ispiratrice estetica di Zecchi, che comunque con l’esteta inglese condivide l’odio per la civiltà industriale e per i suoi prodotti.

Design compreso: è nota l’avversione che l’autore de Il brutto e il bello prova verso il disegno industriale, da lui considerato non-arte, espressione bassa dell’ingegno umano, forse perché troppo legata all’uso quoti- diano. Il raffinato Zecchi di fronte alle teorie di Gropius fugge spaventato come se avesse visto il Babauhaus. Di tutto ciò c’è traccia anche in Sensualità: “Non c’era nessuna cura, tutto era pervaso dal cattivo gusto (...) la plastica che sembrava impadronirsi di ogni oggetto” (pag. 33). Con queste parole Zecchi descrive un aeroporto. Ma come dovrebbero essere gli scali aerei per il professore? Delle repliche del Vittoriale?

D’altronde cosa ci si può aspettare da una persona che fa dire a un suo personaggio: “Leggo molto sul’India e mi immagino un mondo mera- viglioso, emozionante, ma se confronto le cose scritte sui libri con quelle

che vedo... queste mi sembrano così squallide, miserabili...” (pag. 16). Proprio per non contagiarsi con quelle cose miserabili Zecchi forse non è mai andato in India. Deve aver assistito a una processione di conta- dine lucane. Poi ha elevato il tutto a un grado esotico più alto, sostituendo Shiva al santo patrono e il mori alle cipolle, sparando all’impazzata termini hindi con la sua Mont Blanc d’oro e crivellando l’extrastrong di descrizioni

ignobilmente turistiche della nobile patria di Kabir Bedi.

 

Anch’io ti amo
di Arrigo Cipriani

Presso alcune tribù di cannibali si crede che divorando il cervello del nemico se ne acquisiscano le doti di coraggio e intelligenza. Naturalmente non è vero. Così come non è vero che basta lavorare in un rinomato bar veneziano, frequentato in passato da scrittori etilici, per diventare a propria volta scrittori.

Quale antropologo è disposto a spiegarlo ad Arrigo Cipriani prima che il sessantaduenne direttore dell’Harry’s Bar decida di dare un seguito a questo Anch’io ti amo (Baldini & Castoldi, 20.000 lire)?

Vacuo fino all’imbarazzo, questo libretto di Cipriani fa tornare più chemaid’attualitàilquesitodiTotò:“Siamouominiocaporali?”E’proprio vero, al mondo non siamo tutti uguali, non tanto per le nostre qualità o per ciò che facciamo, ma per il modo in cui veniamo trattati.

Nel 1992, Gianni Borgna, un oscuro barman ormai in pensione, decideva di dar fondo alla propria liquidazione facendosi pubblicare (a pagamento, come d’uso) dalla Nuovi Autori un volume difficilmente qualificabile: conteneva poesie, ricordi professionali, aneddoti familiari, barzellette, fotografie e ricette per cocktail. Il tutto era legato dalla prima persona narrante e da un triplo orgoglio di essere, come recitava la copertina, poeta, barman e alpino.

Immaginiamoci l’uomo Borgna che invia il dattiloscritto a Baldini & Castoldi e se lo vede ritornare accompagnato da una letterina disgustata di qualche raffinata editor. E immaginiamoci, il giorno dopo, il postino che consegna un altro plico contenente questo lavoro del caporale Cipriani, con le stesse poesiole insulse, con gli stessi raccontini colitici e con lo stesso background di barman. E probabilmente con lo stesso passato di alpino, visto che il Cipriani è veneto e, come vuole il massimalismo, tutti i veneti di leva fanno gli alpini. Pubblicato!

Impossibile descrivere con precisione l’opera del Cipriani. La prima parte inizia con un’alternanza tra quattro capitoletti di una pagina sulla fine di un amore e tre lettere indirizzate a un tal Carissimo. All’improvviso ecco apparire il racconto di una passeggiata serotina e una poesia dedicata all’unica pelliccia che non ci si vergogna di indossare: “Nera sei soltanto / dove devi essere nera. / La selva dove si nascondono le labbra divine...”. La stessa musa (ma a Genova userebbero due esse) aveva già ispirato le pagine 27 e 28, in cui il Cipriani invitava la sua compagna a non lavarsi, al grido di “avrei preferito che l’acqua dell’acquedotto non passasse sotto quel ponte peloso dove io avrei voluto dormire per sempre”. A degna conclusione di questa rutilante prima parte ecco quattrordici pagine massacranti che nar- rano della morte della madre di un Cipriani-Camus che non sa commuo- versi davanti al cadavere.

La seconda parte ha un nome: Le storie. Tre storielle di imbecillità sublime, con la partecipazione strarodinaria di Dio, e nelle quali Cipriani narra della creazione dei ristoranti, dell’ecologia e dei pesci, condendole con un surrealismo da offerta speciale.

Infine, ecco la terza parte, Le bestie. Tra i sette raccontini che la compongono ne spiccano tre. La pantegana, un Kafka con data di scadenza superata da un bel po’. Il gabbiano, con due piloti, di cui uno muto, che conversano con il gabbiano Hans: una sorta di bidone della spazzatura in cui sono stati gettati appunti di Richard Bach, di Beckett e persino della

Traviata. Conclude la triade Il colombo, in cui un assessore di Venezia vuole cacciar via da piazza San Marco un colombo che lo interroga sull’amore. Viene in mente una vecchia canzoncina da avanspettacolo, cantata da due finti turisti tedeschi e dedicata proprio a piazza San Marco: “Fanno all’amore persino i piccioni e c’è un libraio che vende Goldoni”. Forse non dovevo usare la maiuscola.

 

Nessuno
di Luciano De Crescenzo Itaca per Sempre
di Luigi Malerba

Nell’era della comunicazione globale si verificano vuoti di informazione che fanno riflettere. Per esempio, alla Mondadori di Segrate due redattori, con le scrivanie che quasi si fronteggiano, hanno lavorato allo stesso libro l’uno all’insaputa dell’altro. Il primo era impegnato con una riscrittura dell’Odissea elaborata da Luigi Malerba e intitolata Itaca per sempre. L’altro editava una riscrittura dell’Odissea elaborata da Luciano De Crescenzo e intitolata Nessuno. Cosa abbia spinto la Mondadori a far uscire in contemporanea due libri uguali non potrà spiegarcelo nemmeno l’indovino Tiresia. Mi fa comunque piacere vedere che anche altri seguono la strada del remix letterario.

Iniziamo dal volume di Malerba, in libreria già da marzo. Per prima cosa una precisazione: non si tratta di un’omonimia, questo Malerba è lo stesso de La scoperta dell’alfabeto. Evidentemente un mutuo per la seconda casa, la voglia di una vacanza esotica, l’acquisto di un’auto nuova ha spinto Luigi Malerba a scrivere quest’opera per poter soddisfare l’improvvisa voglia con anticipi e royalties. Eppure esistono tante serie finanziarie.

Malerba compie una scelta precisa: decide di raccontare con parole sue solo il ritorno di Ulisse a Itaca, tralasciando la parte avventurosa del viaggio. Alquanto statica e riflessiva, la narrazione si scinde in una specie di doppio diario. Al punto di vista di Ulisse si alterna la visione dei fatti di Penelope. Se ad alcuno questa tecnica può ricordare un po’ Rashomon con un personaggio in meno, ai più ricorderà moltissimo Signore e signora il favoloso show di vita matrimoniale con Lando Buzzanca e Delia Scala. C’è comunque una novità sostanziale: questa Penelope sa che quel mendicante è Ulisse, ma fino al termine finge di non saperlo. Malerba confessa in chiusura di libro che questa idea è frutto delle meningi della moglie. Più che un’ammissione sembra una discolpa. Poco signorile, bisogna ammetterlo.

La tesi conclusiva del libro è comunque questa: Ulisse è il vero autore dell’Odissea e anche dell’Iliade. Tesi non sconvolgente: chiunque abbia vissuto l’esperienza di un rapimento, di un matrimonio infelice o di un lifting si sente in dovere di narrarla insieme a un compiacente giornalista. Figuriamoci se questo diritto non puà averlo avuto Ulisse con tutto quello che aveva visto, vissuto e combinato.

La cosa più oscena del libro resta però il titolo che al visitatore di- stratto di una libreria può far pensare alla storia di una giovane trans pa- lermitana, appassionata di letteratura classica e decisa a restare Itaca, Itaca per sempre. In realtà a conclusione del suo racconto Malerba fa promettere a Ulisse che resterà “a Itaca per sempre”. Sarebbe bastato mantenere il com- plemento di luogo per evitare il ridicolo. Ma la mente dei titolisti editoriali è tutta da analizzare.

De Crescenzo invece non fa nulla per evitare il ridicolo, anzi ci sguazza dentro, pensando di nuotare nel mare del comico. La sua revisione dell’Odissea, in uscita il 20 maggio, ha la stessa carica becera, raffazonata e volgare delle reinterpretazioni di classici della canzone napoletana eseguiti dal suo amico Renzo Arbore.

Un povero padre di famiglia, concorrendo a un posto da bidello,

doveva affrontare un esame di cultura generale. La prima domanda era: “Qual è la capitale della Grecia?” Il pover’uomo si agitava e boccheggiava, fino a che l’esaminatore, mosso a compassione, gli chiese: “Ma ‘nzomma, sta capitale ‘a Grecia, ‘a tene u nun ‘a tene?” “‘A tene!” rispose l’uomo, e venne subito promosso.

In questa veneranda boutade d’avanspettacolo c’è tutto il profondo rapporto tra Luciano De Crescenzo e la cultura greca cui egli ha dedicato volumi, fumetti, video, film, partecipazioni televisive.

Il paragone tra il nostro massimo divulgatore di filosofia classica e l’avanspettacolo non vuole essere irriverente. Già a pagina 12 del suo nuovo parto il De Crescenzo non riesce a trattenere la battuta che gli frulla in testa sin da Oi Dialogoi e che qui finalmente lascia esplodere in tutta la sua originalità: “quel tale Heinrich Schliemann che, a forza di scavare, di Troie (intese come città) ne trovò addirittura nove...”. E’ in questo ritorno alla prima media che più brillano le affinità elettive tra il fine umorista De Crescenzo e il maestro Arbore. Questa precisazione è un gioiello, quelle parentesi racchiudono tutto il buon gusto e tutta l’intelligenza dello “scrittore italiano più amato nel mondo”, come recitano le note per la stampa. E voglio vedere come i traduttori polacchi, giapponesi e hindi risolveranno l’arguto gioco di parole.

A inizio dell’opera, De Crescenzo ricorda che a quindici anni, affascinato dalla trovata di Ulisse che dice a Polifemo di chiamarsi Nessuno, voleva assumere anche lui questo nome. Ma il padre lo deluse dicendogli: “Ma pensa piuttosto a diventare Qualcuno...”. E’ da ammirare la testardaggine adolescenziale con cui il giovane De Crescenzo ha invece perseverato nel suo intento.

De Crescenzo/Nessuno ci racconta oggi tutta l’Odissea e in lui il poema diventa come una mozzarella light, come la Coca Cola allungata con l’acqua, come una maglietta D&G taroccata, come un candeggio sba- gliato, come una casa disegnata da un geometra. Un prodotto di seconda scelta, insipido e insoddisfacente.

Divulgare un testo o un’idea significa rendere chiaro, lineare e alla portata di tutti qualcosa che invece è complesso e pensato per un pubblico di esperti. Divulgare non significa tracciare paragoni improbabili e sempli- cistici tra il testo originale e ammiccanti riferimenti all’attualità. Il modo in cui De Crescenzo si ostina a voler far comprendere i grandi meccanismi filosofici e letterari all’ipotetico portinaio Raffaele è offensivo per tutti, non solo per i portinai.

Qualità è spesso un termine insidioso. Finché si tratta di minuteria metallica o sedute ergonomiche ci sono le certificazioni ISO che garantiscono la qualità totale. Ma quando si tratta di scrittura le certificazioni vengono a mancare e dobbiamo arrangiarci da soli.

Basta una lettura a campione dei due testi per accorgersi di cosa possa essere la qualità letteraria: misura, uso corretto dei termini, rifles- sione, rifiuto dell’effetto facile.

Tutte caratteristiche che la prosa di Malerba comunque conserva, mentre quella di De Crescenzo non ha mai conosciuto.

Viaggi nel tempo immemore di Roberto Vecchioni

Roberto Vecchioni è noto (in rigoroso ordine di capacità) come cantautore, come professore liceale di italiano, come fumatore di sigari e ora anche come scrittore poiché ha pubblicato Viaggi nel tempo immobile (Einaudi, 123 pagine, 16.000 lire).

Per un certo periodo, verso la fine degli anni Settanta, l’autore di Tornerai Tornerò (hit degli Homo Sapiens) tenne, forse sul Corriere dei Ra- gazzi, una rubrica di piccola posta. A un ragazzo che scriveva “I programmi scolastici non mi soddisfanno. Potrebbe consigliarmi qualche libro da leg- gere al di fuori delle lezioni?” il giovanilista Vecchioni rispondeva: ́Ma per- ché vuoi leggere con tutto quello che potresti fare? Perché non suoni? Perché non pratichi qualche sport? E le ragazze? Non dirmi che non ti in- teressano”.

Dunque, qui si predica bene, ma si razzola malissimo: Vecchioni che fai? Consigli ai ragazzi di non leggere e poi ti metti a scrivere un libro? Ma perché, invece di leggere, non impari a suonare (finalmente) qualche strumento? E perché non pratichi qualche sport debilitante? E le donne? Perché, invece di scrivere, non sei andato a farti un giro tra le lucciole a San Siro?

Editore naturale del volume sarebbe dovuto essere Bignami, visto che si tratta solo di un bigino nozionistico in cui, con la tenue scusa della narrazione, ci sfilano davanti alcuni tra i personaggi, i nomi e le situazioni più banali della cultura mondiale.

“A te, tempo immobile nel mio cuore” recita la dedica posta da Vecchioni all’inizio dell’opera. Già l’uso di parole “importanti” (tempo, im- mobile, cuore) è una traccia: la scrittura di Vecchioni non compie direttamente il percorso dal cervello alla mano vergante o digitante, ma tra i due estremi si fa un lungo giro nei regni del già detto, del già letto, del già visto, nelle regioni della cultura liceale, nelle lande della Contaminazione Preterintenzionale, meta ormai di moda per i viaggiatori organizzati del fighettismo letterario. Infatti, accanto a Cervantes e a Ulisse troviamo anche Zio Paperone, scelta che non è frutto di una libertà creativa che trascura piani e livelli, ma semplicemente uno stratagemma di Vecchioni che tenta disperatamente di lottare contro l’immagine del professore trombone, immagine che nessuno comunque gli ha mai cucito addosso.

L’esordio è fulminante: l’immortale Teliqalipukt, voce narrante dei racconti, decide di allevarsi la propria scolaresca di immortalini esordienti. Vedere in questa rappresentazione il professor Vecchioni che trasmette la sua sapienza agli studenti è tanto facile, quanto disgustoso. Una decina di righe bastano per presentare la classe e qui ai nomi più improbabili come Misha, Minbar, Canaar, Vesca si accompagnano descrizioni di una banalità paralizzante (“delicato e fragile... il più entusiasta... sempre fuori tema”). Bravo comunque Vecchioni a mescolare fumetto fantascientifico da Lan- ciostory ai cascami deamicisiani. Peccato non sia questa la sua intenzione.

Favoloso il racconto su Alessandro Magno, il cui nome è scritto alla rovescia nel titolo del racconto (zampata d’autore!). La Storia così come la riscriverebbe in un suo tema un qualunque primo della classe, con in più invenzioni linguistiche sorprendenti. Lo sapevate che la Luna sta in cielo per sfarfallare, adombrarsi, schiarirsi, intagliarsi, sfriccicare, perire?

Ma il racconto che più si segnala per lo sfacciato cialtronismo massimalista è Significante e significato. Protagonista è la semantica, disiciplina che Vecchioni pare aver acquisito sui fascicoli settimanali della Hobby & Work (avendo perso però i numeri dal 2 al 56). E visto che siamo su una nave che parte da Odessa, Robertoski Vecchionoff non perde occasione di disseminare la trama di nomi orecchiati come Vasilij o Fiodor Rachmaninov Izvania, originalissimo conte nichilista in fuga. Delizioso il finale di questo racconto: al termine di una becera storia di omicidi, zar e truffatori, il noto linguista Ferdinand De Sassure, anch’egli su quella nave, si sente “il cuore e la mente trafitti da un bellissimo giambo”. Ah, il fascino dei ritmi afrocubani...

 

Ti amo
di Francesco Alberoni

OsteriadelVecchioAdamo -paraponziponzipo’ Alberoni ha scritto “Ti Amo” - paraponzi ponzi po’ pubblicato da Rizzoli,
presentato poi al Parioli...

Refrain

Daghèla ben Giannetta, daghèla ben Giannà...

Osteria dei Due Caprioli - paraponzi, ponzi po’ Quant’è furba la Rizzoli - paraponzi ponzi po’ ti fa uscire il calepino
proprio per San Valentino

Osteria del Dolce Incanto - paraponzi ponzi po’ Questo libro vende tanto - paraponzi ponzi po’ se lo compran come il pane
sono proprie cose strane!

Osteria del Bell’ovetto - paraponzi, ponzi po’ Questo libro non l’ho letto - paraponzi ponzi po’ l’ho sfogliato ma non tutto,
è davvero troppo brutto

Osteria del Ferro e Fuoco - paraponzi ponzi po’ Dire brutto è ancora poco - paraponzi ponzi po’ Che banale, che scemenza
E la fan passar per scienza.

Osteria del Gran Cipresso - paraponzi ponzi po’ fo’ la critica lo stesso - paraponzi ponzi po’ tanto i libri del Francesco
li diffida anche l’UNESCO

Osteria della Peppina - paraponzi ponzi po’ dai, leggiam la copertina - paraponzi ponzi po’ se si leggono i risvolti,
si rimane un po’ stravolti

Osteria delle Beote - paraponzi ponzi po’
quanto incensan queste note - paraponzi ponzi po’ sì, reclamizzar bisogna,
ma qui siamo alla vergogna...

Osteria delle Tre Mogli - paraponzi ponzi po’ questi son 300 fogli - paraponzi ponzi po’ spreca inchiostro a non finire
ma cos’è che avrà da dire...

Osteria del Buon Approdo - paraponzi ponzi po’ ecco come allunga il brodo - paraponzi ponzi po’ lui per tutti i sostantivi
usa sempre due aggettivi

Osteria di Cecco e Berta - paraponzi ponzi po’ ora ho fatto una scoperta - paraponzi ponzi po’ nelle note in copertina
si rilegge la doppina

Osteria dei Frati Oscuri - paraponzi ponzi po’ siamo certi, siam sicuri - paraponzi ponzi po’ che le note di ‘sto pacco
son farina del suo sacco

Osteria dell’Uomo Stanco - paraponzi ponzi po’ Quanto cita il nostro Franco! - paraponzi ponzi po’ Cita Goethe e Sandra Milo
che alla fin si perde il filo...

Osteria del Detto Astruso - paraponzi ponzi po’ L’Alberoni è un po’ deluso - paraponzi ponzi po’ lui collabora ai tabloid
ma vorrebbe essere Freud...

Osteria del Grosso Bove - paraponzi ponzi po’ L’Alberoni fa le prove - paraponzi ponzi po’ Lui ci prova ma, por’omm,
non riesce ad esser Fromm...

Osteria del Voltafaccia - paraponzi ponzi po’ han trovato un’altra traccia - paraponzi ponzi po’ dice bene e non si sbaglia
chi ci vede anche Buscaglia

Osteria del Karkadè - paraponzi ponzi po’ quante son le note al piè! - paraponzi ponzi po’ le ho contate e le ho rilette
son ben cento ottantasette!

Osteria del Can che Esulta - paraponzi ponzi po’ Franco fa reclame occulta - paraponzi ponzi po’ nelle note, (cosa vuoi...)
cita sempre i libri suoi

Osteria del Trono Regio - paraponzi ponzi po’ Alberoni ha un solo pregio - paraponzi ponzi po’ I suoi libri da caffè
Piaccion tanto alla Bertè

Osteria del Buon Nonnetto - paraponzi ponzi po’ Loredana c’ha un difetto - paraponzi ponzi po’ che fra tanti libri buoni
ama quelli di Alberoni!

 

I testi sono di Tommaso Labranca,
ma non sono coperti da nessun copyright. Sono stati originariamente pubblicati sulla rivista Leggere
tra il 1995 e il 1996.
Questa versione elettronica (V_1.0), creata il 4 giugno 2008,
è stata scaricata liberamente dal sito www.tommasolabranca.eu
e può essere diffusa senza alcuna limitazione. Ammesso che valga la pena farlo.

Viva l’editoria! Viva la Mondadori!


RIO - Rare Interviste Originali di Tommaso Labranca

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Questo testo è pubblicato da
Anguilla – Eel
Editoria Elettronica Labranca
I testi in esso contenuti non sono protetti da alcun copyright e possono essere diffusi liberamente, ma solo in formato elettronico. Questa è la prima edizione di “RIO” del maggio 2002.
Sono possibili successive edizioni, integrate con nuove interviste, che sostituiranno la presente.
info:
[email protected]
www.labranca.co.uk

 

Introduzione

Il mio idolo è Alen Elcan. Io Lo amo e vorrei essere come Lui. Per questo ho compilato questa raccolta di mie interviste. Perché ho voluto comportarmi come Lui che passa il tempo a fare le interviste e poi le pubblica in meravigliosi libri con la Sua faccia in copertina. Per fare come Lui, che pubblica per Bompiani che è l’editore della sua famiglia, ho persino fondato una mia casa editrice, Anguilla-Eel. Ma non sarò mai come Lui. Lui è alto e bello, multicrinito. Io sono 170 scarsi, perdo i capelli e, soprattutto, non so fare le interviste. Però una volta ho visto da vicino vicino Alen e gli ho parlato, cioè Lui, il Più Grande Intervistatore di Italia mi ha intervistato!!! Nel dicembre del 2000 fui invitato a una trasmissione di TMC, una cosa davvero squallida. Era condotta da Lui! Era splendido. Era vestito come un manager di un oleificio pugliese con pretese di export, ma che se la tirava come se fosse stato un vero scrittore. Nel programma Elcan presentava cinque libri, dedicando a ognuno due minuti scarsi. TMC a Roma ha la sede in uno scantinato scrostato e triste. Anche i tecnici sono i più sconsolati che abbia mai visto in vita mia. Elcan era in gessato e in ritardo. Seduto nello studio, ci faceva entrare uno dopo l’altro, senza chiederci nemmeno come ci chiamavamo. Ma la cosa più grave era che non aveva letto nemmeno uno dei libri che doveva presentare al pubblico. Li apriva a caso e faceva delle domande altrettanto a caso. Alla fine abbassava la testa e non salutava l’ospite, anzi qualcuno è stato anche cacciato via in malo modo solo perché non si era alzato per tempo. Io capivo però che Lui poteva trattarmi anche peggio, perché Lui è Elcan e invita la gente a leggere. La gente guarda il suo programma e invece di vedere i film, le partite di calcio, Paperissima o di fare i puttan tour si mette a leggere. Magari proprio un libro di Elcan. Per questo mentre tornavo a Milano quella sera mi sono detto: “Anche io voglio pubblicare un libro con le mie interviste.”

E ora quel libro è pronto!

 

Carlo Freccero

Carlo Freccero è stato a lungo il direttore di RaiDue. Lo avevo incontrato nell’estate del 1999 in occasione di un pranzo in un ristorante milanese e tra una portata e l'altra ho cercato di intervistarlo. Siccome è passato molto tempo dall'intervista e, soprattutto, siccome Carlo Freccero ha una modalità espressiva sibillina, non sono in grado di ricostruire esattamente le battute del dialogo. Me ne scuso anticipatamente con i lettori. Inoltre, leggendo questa intervista si capisce perché l’abbiamo cacciato.

Tommaso Labranca: Dottor Freccero, Lei è un protagonista del situazionismo. E' uomo di profonda cultura e dalla personalità che non esiteremmo a definire parigina. Come mai nel suo palinsesto trovano posto le piazzaitaliate del team di Michele Guardì, come I fatti vostri o Il lotto alle otto?

Carlo Freccero: Le parole-chiave del giorno d'oggi, ma anche di domani, sono tre: Africa, epo e fondi-pensione.

Tommaso Labranca: Dottor Freccero, Lei è un protagonista del situazionismo. E' uomo di profonda cultura e dalla personalità che non esiteremmo a definire parigina. Come mai la sua rete non dedica spazi a una trasmissione culturale che sia innovativa? Dopo L'Altra Edicola non si è visto altro.

Carlo Freccero: Le parole-chiave del giorno d'oggi, ma anche di domani, sono tre: epo, Africa e fondi-pensione.

Tommaso Labranca: Dottor Freccero, Lei è un protagonista del situazionismo. E' uomo di profonda cultura e dalla personalità che non esiteremmo a definire parigina. Eppure a volte troviamo che la sua forza di sperimentatore scenda troppo a compromessi con i desideri di un presunto pubblico. Perché non si fa valere di più?

Carlo Freccero: Le parole-chiave del giorno d'oggi, ma anche di domani, sono tre: fondi-pensione, epo e Africa.

Tommaso Labranca: Dottor Freccero, Lei è un protagonista del situazionismo. E' uomo di profonda cultura e dalla personalità che non esiteremmo a definire parigina. Non capiamo pertanto...

Carlo Freccero: Guarda... ti piace il mio orologio? Tommaso Labranca: Molto bello. Dove l'hai preso?

 

Paola & Chiara

Il 12 febbraio 2000 sono andato in una libreria di Milano ad ascoltare Paola e Chiara che presentavano un libro di sonetti di Shakespeare per il quale avevano scritto la prefazione. Paola era molto preoccupata prima dell’inizio della lettura e si chiedeva se il suo accento milanese non sarebbe apparso fuori luogo per una lettura del Bardo. Ma io l’ho subito tranquillizzata, dicendo che l’universalità di William Shakespeare non è solo temporale, ma anche geografica e che se le vicende delle sue opere teatrali sono state adattate a scenari giapponesi o africani poteva anche essere possibile rileggere i suoi sonetti come farebbe un innamorato di Porta Ticinese. La lettura è stata molto toccante. Alla fine ho lungamente discusso con le due sorelle canterine a proposito del Bardo.

Tommaso Labranca: Molti dicono che Shakespeare non sia mai esistito. Secondo voi è esistito o no?

Paola e Chiara: Sì, siamo sicure che sia esistito.

Tommaso Labranca: Ma era inglese o, come dicono alcuni, italiano?

Paola: Secondo me era irlandese. Però nessuno lo sa. Anzi era giapponese.

Tommaso Labranca: Se Shakespeare fosse vivo, dopo avervi sentito recitare oggi cosa vi avrebbe fatto?

Paola: Secondo me ci avrebbe fatto una proposta. Tommaso Labranca: Di che tipo?
Paola: Sessuale. Magari avrebbe voluto provarci. Tommaso Labranca: Con due?

Chiara: Sì, con due, una cosa nuova.

 

Tommaso Labranca: Voi avete letto tutto di Shakespeare? Paola e Chiara: No.
Tommaso Labranca: Proprio niente?
Paola: Più che letto abbiamo visto...

Tommaso Labranca: Le copertine in vetrina? Chiara: Ecco. Di grande impatto.

Tommaso Labranca: Chi vi piacerebbe essere tra le eroine shakespeariane?

Paola: Io Ofelia. Chiara: Io Desdemona.

Tommaso Labranca: Muoiono tutte e due, vi avviso.

Chiara (indica un collarino borchiato al collo): Lo so. Ho anche messo un collarino antistrangolamento.

Tommaso Labranca: Ma Desdemona non era stata soffocata? Mah... Avete mai cantato sonetti di Shakespeare come Ron?

Chiara: No, ma secondo me sono belli accompagnati da un sottofondo, non da cantare.

Tommaso Labranca: A proposito di sottofondo quale musica mettiamo durante la lettura dei sonetti?

Paola e Chiara: Sakamoto. Poi abbiamo detto che era giapponese.

Tommaso Labranca: Shakespiru allora lo ribattezzeremo. Grazie.

 

Aldo Nove

Erano i primi giorni del 2000. Sul sito allora in funzione, labranca.com, era nato un verboso dibattito in seguito alla partecipazione di Aldo Nove, Raul Montanari e altri a una iniziativa sponsorizzata dalla Provincia di Milano e dalla sua presidente, Ombretta Colli. Dopo svariate mail, si arrivò a un incontro rappacificatore con Aldo Nove, durante il quale fu registrata questa intervista.

Aldo Nove: Signore e signori telespettatori di questo sito buongiorno. Siamo Aldo Nove e Tommaso Labranca a discutere un forum che c’è stato quindici giorni fa e che è stato tolto su argomento Giorgio Colli e suo marito Ombretta Gaber. Allora il sito diceva: E’ giusto essere d’accordo con Ombretta Colli?. La risposta è stata no, perché la Colli ci disgusta come donna, come è fatta vecchia e anche per la sua politica completamente sbagliata, molto di forzaitalia che quando era giovane faceva una politica alla sinistra di Mao e adesso fa una politica alla destra di Pannella. Quindi siamo tutti che la odiamo con la sincerità del nostro cuore. Adesso faccio una cosa di mangiare.

Tommaso Labranca: Quello che ha colpito è stata la tua reazione, Aldo Nove. Poiché in fondo non c’era un vero attacco nei tuoi confronti.

Aldo Nove: Perché mi dava fastidio che c’erano delle cose un po’ private, dette al telefono che messe su un sito mi macchiavano. Io non sono uno che ama moltissimo la dimensione privata, però c’è una certa dimensione privata ogni tanto.

Tommaso Labranca: Io ti chiedo scusa se questa cosa ti ha dato fastidio, ma la portavo a testimonianza. Perché aspettare che siano gli altri quando noi saremo morti a tirar fuori tutto quello che noi abbiamo fatto? Meglio farlo sapere subito?

 

Aldo Nove: Va be’, questo è anche vero. Può essere sinceramente giusto.

Tommaso Labranca: Cioè vendere oggi stesso il nostro diario. Hai tutti gli occhiali storti, come fai a vedere bene?

Aldo Nove: Perché non riesco ad andare a farli mettere a posto. E’ per darmi un carisma e un sintomatico mistero.

Tommaso Labranca: Dovrebbero essere da sole.

Aldo Nove: Lo so, ma poi non ci vedo. Perché siamo in inverno. Cos’è adesso primavera? Allora io mi sono risentito perché a me fa schifo Ombretta Colli. Cioè a parte che mi viene sempre Ornella Muti, non so perché... non ha fatto niente.

Tommaso Labranca: A parte poi che essere confusa con la Colli...

Aldo Nove: Mi viene in mente come pronuncia, no? Ornella Muti... E poi l’ho trattata malissimo di fronte a tutti e non ci volevano pagare perché l’avevo ingiuriata.

Tommaso Labranca: Ma la serata come è andata poi? C’era gente?

Aldo Nove: Era pieno di gente e io non capivo perché. E Pinketts si è ubriacato, tanto per cambiare. Hanno fatto questo film brutto, brutto, noioso, proprio un film... allora lo scopo era che ci davano 500.000 lire se facevamo la presentazione. Io 500.000 lire compro dei cd però poi alla fine hanno deciso che non ce li davano perché io avevo insultato Ornella Muti. E allora si è incazzato Raul e ha detto vi spacco tutto perché siete dei disgraziati, dovete pagarci mezzo milione per uno e alla fine avevano paura di Raul perché ha i muscoli e cià sotto un tarello magnetico, anche la sua fidanzata lo ammette. Lei non sa come fare, non c’è spazio, dice: basta Raul non c’è più spazio smettila, ma lui va dentro e scassa tutto. E’ fatto così lui. Allora io credo che quella serata lì la roba

 

più indecente era la locandina di questo tipo con una roba da circo: Ornella Muti presenta...

Tommaso Labranca: E’ quello che mi ha fatto saltare su quando sono arrivato a casa e ho visto l’invito.

Aldo Nove: Infatti quando mi è arrivato l’invito, ho chiamato Raul e ho detto guarda che devo fare una cosa con so cosa gli ho detto... una serata con Lukàcs... una roba così, non posso venire. Lukàcs, quel comunista che fa Guerre Stellari. Allora Raul mi ha spiegato, no senti, noi abbiamo fatto questa cagata qua per darci mezzo milione dobbiamo fare questa roba. E Tommaso Labranca: ma fa niente se parlo malissimo di Ombretta Colli? E lui mi fa: E’ giusto che tu dici tutto quello che vuoi. Così ogni volta che parlavo dicevo: Innanzitutto ringrazio a Ornella Muti per averci fatto venire a questa sera, finalmente vedo i miei amici Voltolini, siamo amici un poco, a Pinketts, Pinketts mi piace è fuori come un diluvio, e anche a Tiziano che non c’è, perché doveva fare una conferenza con uno che non si capisce se è morto o no. Sai uno di quelli vecchi che non si sa se sono morti o no. Come Mario Soldati che quando è morto hai detto: cazzo, ma era ancora vivo? Ah sì, Baudrillard. Ha fatto questa conferenza con Tiziano Scarpa, allora è vivo.

Tommaso Labranca: A me non mi chiamano a fare le conferenze con Baudrillard...

Aldo Nove: Neanche a me, forse perché ho cambiato il numero di telefono. A me mi piaceva Baudrillard, c’era un libro che si chiamava L’ombra delle maggioranze silenziose. La copertina era in tre parti, per metà niente, per metà delle cosce e per metà delle parole. Una delle tre parti mi piaceva, ero contento delle cosce... allora Tiziano non c’era, eravamo noi a questa serata e io dico: ringrazio Ornella Muti per averci fatto venire a questa serata e io mi ricordo che quando ero piccolo (e ho alzato il braccio sinistro così) ascoltavo le sue canzoni di lei e di suo marito, però peccato che adesso ha cambiato idea, non ho capito cos’è, però fa niente perché c’è Pinketts e Voltolini e tutto il tempo parlavo con il

braccio così. Quando poi ogni volta che parlavo sempre dicevo: no, comunque ne approfitto per ringraziare Ombretta Colli, ogni volta e tutti ridevano. E quelli di Ombretta Colli non erano contenti. Non volevano pagarci, era un atto politico... (mangia) Allora la questione se è giusto o no fare le robe con le istituzioni, è una questione abbastanza seria perché se fai delle robe in un modo o nell’altro ti trovi a che fare con le istituzioni. O quelle di destra o quelle di sinistra. Ma quelle di sinistra tra virgolette cosa sono di sinistra, sono molto di destra, democrazia cristiana tremenda. Quindi come diceva un ex dadaista sovietico: Che fare?

Tommaso Labranca: Ecco, il forum nasceva da questo: è giusto che i paladini della provocazione, le persone che hanno dato dignità letteraria al termine pompino accettino questi inviti? Ma io comprendevo anche le giunte di sinistra. Tu mi hai detto nella tua prima risposta: Salutami Fazio e Veltroni. Se io ti ho fatto male dicendoti quelle cose, tu mi hai fatto male dicendomi questo. Perché all’interno del gruppo di Fazio, del quale credo di non fare più parte, io comunque ero la pecora nera, identificato con il cattivo e il fascista. Vogliamo parlare di Haider?

Aldo Nove: E quello lì... meno male che c’è qualcuno che combatte contro questi negri in Italia! Non ne possiamo più. E’ giusto che qualcuno facci qualcosa.

Tommaso Labranca: Tommaso Pellizzari mi ha proposto di raddoppiare il debito, invece di cancellarlo.

Aldo Nove: Io voglio dire che voglio bene a Jovanotti perché lui è una persona che è ingenuo e dice delle cose sinceramente e quindi è molto dolce, a me mi fa una cosa che sento un affetto. Ci sono vari livelli di comunicazione, quello di Jovanotti è molto basso.Il fatto che in Italia non ci sia più nessuna forma di comunicazione politica, lui l’ha stimolata. Comunque è giusto. Io ho scritto sul Liberazione, giornale per il quale scrivo gratis perché tanto si scrive gratis per tutti, ho scritto Jovanotti ormai unico affidabile politico italiano. Mi sembra che sia un politico dignitoso.

C’è questo spettro che aleggia nella politica, la mancanza di corrispondenza tra i termini e le cose.

Tommaso Labranca: Spiegami una cosa. La destra ha attaccato Fazio, Jovanotti e Sanremo per il buonismo totale. Ma non è lo stesso Berlusconi che dice l’Italia dell’odio sta a sinistra e l’Italia dell’amore e della bontà sta da lui, a destra? Non è una contraddizione?

Aldo Nove: E’ una contraddizione in quanto ci sono due tipi di immagini di Hitler e sono sempre quelli. Cioè o lui in assetto proprio da guerra durante le manifestazioni di massa con il braccio destro levato o foto molto romantiche e bucoliche di lui in baita che sorride e accarezza i bambini con aria molto melliflua.

Tommaso Labranca: Sei contento di vivere in questo momento storico?

Aldo Nove: Curiosissimo. Contento non lo so, molto curioso sì. Credo di avere costantemente quest’ansia di rendermi conto di non essere in grado di capire cosa sta succedendo per la velocità in cui cambia, però anche stimolante cercare di aprire delle brecce in questo, rischiando di sbagliare qualcosa.

Tommaso Labranca: Ma ti senti protagonista di tutto quello che succede, che è successo e soprattutto che succederà?

Aldo Nove: Siamo tutti protagonisti. Siamo tutti famosi.

Tommaso Labranca: E’ vero che ti dai al cinema?

Aldo Nove: Sì ho fatto un film che si chiama Hablame Luna e affronta la tematica delle crisi religiose di Clemente Mastella, lui voleva farsi parroco a 21 anni, un po’ grande, e poi era anche fidanzato e doveva sposarsi, allora, essendo morto Bresson, per fare un omaggio a lui e al suo cinema, ho fatto un lungometraggio

con le musiche di sciostocovic, come si dice?, un film senza scene sporche, possono guardarlo anche i giovani...

Tommaso Labranca: Allora non è molto bello!

Aldo Nove: Fa schifo! Cioè il fatto che non c’è pompini o leccate di figa. A me piace più che altro, dovendo scegliere cosa leccare, leccare il Duomo o leccare la figa di Naomi Campbell, subito lecco la figa di Naomi, non so perché. Deve essere di carattere.

Tommaso Labranca: E di Yuma che ne dici?

Aldo Nove: Ah sì, il vecchio Hume, lui è troppo razionale come carattere...

Tommaso Labranca: Chiedo scusa, non Hume, Yuma... questa sosia di Naomi Campbell che è sempre da Costanzo.

Aldo Nove: Ah sì, be’ è una bella gnocca mi piace il gusto...

Tommaso Labranca: Avevi capito Hume! Ah ah! Mi ricordo al liceo quando studiammo i filosofi tedeschi, c’era questo genio superiore a tutti noi, Angelo Bertoletti, che aveva composto una meravigliosa canzoncina che diceva: E Schelling quel che vuoi.... E Kant che ti passa... E Fichte un dito in culo... Senti come mai siamo tutti portati verso questa multimedialità? Tutti suonano, scrivono, dipingono, Jovanotti, Battiato, Andy e Morgan dei Bluvertigo...

Aldo Nove: Andy Luotto anche. Fa la pubblicità agli 166 dei tarocchi. Io lo stimo troppo...

Tommaso Labranca: Sì, ma anche Pasquale, la guardia giurata di Forum, fa pubblicità a questi dei tarocchi.

Aldo Nove: Anche lui? Allora cerchiamo anche noi di farci assumere!

Tommaso Labranca: Quindi tu dopo il cinema, dopo questa cosa che stai preparando, che cosa farai?

Aldo Nove: Dopo farò una serata, un convegno con delle ragazze a porte chiuse, io e loro spero. Delle ragazze di facili costumi, di nascosto dalla mia fidanzata, spero che nessuno glielo dichi. Io ultimamente mi eccito pensando alle copertine delle videocassette. Cioè non più alle persone umane che scopano, ma proprio l’idea della videocassetta nera e quadrata mi eccita, a pensare che dentro ci sono quelli che scopano. Il fatto in sé, semantico luminarista di De Saussure, quando chiedo: Scusi, lei sa le ore? io mi masturbo immediatamente perché penso a Le Ore. Funziona così. E adesso cambia il mio asse erotico, io sono maniaco ho comperato tre DVD sporchi, ma non ho il lettore. Guardo il disco e mi eccito a pensare che dentro scopano.

Tommaso Labranca: Che fa Nanni Balestrini?

Aldo Nove: Sta scrivendo un romanzo sulla mafia, ma non riesce perché Leonetti e Lello Voce lo chiamano continuamente. Lui vuole finirlo, ma deve rispondere al telefono.

Tommaso Labranca: E Leonetti cosa fa?

Aldo Nove: Leonetti è grande, è vecchio. E’ stato male ma si sta riprendendo. Adesso cerca un editore per rieditare una rivista che aveva fatto negli anni Sessanta, pagata da Einaudi ma non Ludovico, una rivista fatta con tre redazioni. Una in Francia, diretta da Roland Barthes, una in Germania diretta da Enzelsberger, una in Italia diretta da Vittorini. Poi hanno raccolto un casino di materiale ma si sono litigati per cazzi loro. Allora lui raccoglie questo materiale e farlo in libro.

Tommaso Labranca: E non trova nessuno che gli pubblichi una cosa simile?

Aldo Nove: No, perché per esempio Morgan è più importante e giustamente anche un libro sulla cucina di Andrea Pezzi... Però Elisabetta Sgarbi è una ragazza che mi sta simpatica.

Tommaso Labranca: Taci perché tu nel libro sei apparso. Ti ho odiato molto quando ho visto la tua ricetta pubblicata sul libro.

Aldo Nove: La posizione di me e Nicolò è che ci siamo rifiutati di dare qualsiasi collaborazione e per affetto nei confronti di Elisabetta che ci teneva abbiamo deciso di pubblicarlo. Adesso però mandiamo la pubblicità perché devo andare in bagno.

Rossella Jardini

Anticipo che odio gli stilisti e che dovendone incontrare uno mi ero già affilato i denti. Pensavo di dovermi confrontare con biondazze presenzialiste, eterei minimalisti o plagiatori di mercatini rionali. Invece ho incontrato la responsabile del marchio Moschino, la signora Rossella Jardini, nota per aver disertato la contrita cena VIP di gala offerta dal sindaco di Abbiate Guazzone quando Geri lasciò le Spice. Questo incontro era stato commissionato da Panorama.

Tommaso Labranca: Signora Jardini, non mi dica anche lei che la moda è un importante settore trainante dell'economia nazionale. Io mi sentirei più tranquillo se questo ruolo primario lo possedesse la siderurgia.

Rossella Iardini: Non glielo dico. Anch'io mi sentirei più tranquilla se quel primato spettasse alla Fiat. Comunque effettivamente si tratta di un settore economicamente importante e certi stilisti, che si sentono gli artefici di questo successo, non mancano di farlo notare con frequenza.

Tommaso Labranca: Ogni mattino molti vanno al lavoro esibendo con orgoglio tutto made in Italy logori sacchetti griffati in cui portano lo spuntino. Quanta cura mettete nella stampa dei vostri sacchetti per venire incontro a questa esigenza di buon gusto nella vita di ogni giorno?

Rossella Iardini: Il sacchetto è uno strumento importante di comunicazione del marchio. Franco Moschino desiderava crearne di nuovi a ogni stagione: così come cambiava la moda, sarebbe cambiato anche il sacchetto. Purtroppo non sempre questo è tecnicamente possibile. Ritengo comunque che sia più importante vedere in giro il marchio, anche se stampato su un sacchetto, piuttosto che una persona in rappresentanza di quel marchio.

Tommaso Labranca: Un classico dell'attuale filosofia stilistica è la contaminazione. Cioè alle sfilate offrono pane toscano con soppressata calabrese e dicono: Il nostro trend è contaminativo delle culture popolari.

Rossella Iardini: Non abbiamo nulla a che fare con simili contaminazioni di maniera. Anzi, direi che nelle nostre produzioni cerchiamo di restare puri, fedeli a un atteggiamento caustico e ironico nei confronti del fashion system, talvolta fino all'autolesionismo, vista la risposta assente di certi media. Allo stesso modo non ci riconosciamo in un altro vizio diffuso: il minimalismo. Per coerenza. Sarebbe assurdo dopo anni di fantasia sfrenata cancellare tutto e votarsi a un'aura di rigore e di essenzialità.

Tommaso Labranca: Per cercare di recuperare punti ora le faccio due domande classiche. Chi è per lei l'uomo più elegante del mondo?

Rossella Iardini: Sicuramente Terence Stamp. Non ha rivali. (Nota: qui, da intervistatore inesperto quale sono, mi sono dimenticato di chiedere se i costumi di Priscilla avessero mai intaccato questo giudizio).

Tommaso Labranca: E l'uomo meno elegante del mondo? Escludendo me, si intende...

Rossella Iardini: E' un uomo politico che, nonostante le intenzioni, non riesce a essere elegante con quelle giacche a quadretti da ragioniere distinto. E poi è rimasto l'unico, oltre ai Giapponesi, a indossare cravatte di Hermès. Non faccio il nome perché se legge di essere poco elegante c'è il rischio che cada in depressione.

Tommaso Labranca: Il nome lo faccio Tommaso Labranca: Gianfranco Fini. Secondo la traccia fornitami da Panorama dovrei porle la domanda 15. Cosa farebbe indossare oggi a Marcel Proust...

Rossella Iardini: Ma io non lo vestirei diversamente da come si vestiva lui....

Tommaso Labranca: ...sì, ma io non farei mai una simile domanda! Piuttosto le chiedo, cosa farebbe indossare oggi a Mario Tessuto?

Rossella Iardini: Mario Tessuto? Quello di Lisa dagli occhi blu? E' ancora vivo... Lo rilancerei vestendolo da vera rockstar. Pieno di glitter, giacche pitonate...

Tommaso Labranca: Grande! Lei non ha finto di ignorare Mario Tessuto! Vuole sposarmi?

Rossella Iardini: Vorrei pensarci.

Tomoko Tagaki

C’è questo meraviglioso libretto della Koenemann (lire 9900!) dedicato a questo fenomeno giapponese. Alcune ragazze simili alle nostre maranze si abbronzano fino a diventare nere, poi si mettono del trucco bianco e scarpe a zeppa impossibile. Quindi stazionano a Shibuya, il quartiere giovanile e trendy di Tokyo. Il libretto oltre a presentare foto di Ganguro dà ricche informazioni! Per esempio richiama l'attenzione sulla differenza tra Ganguro (ragazza lampadata) e la sua versione inferiore Gonguro (ragazza che si applica dei cosmetici per sembrare abbronzata). Le Ganguro (dette anche Cogaru) passano il tempo andando su e giù per Shibuya, camminando lentamente vista l'altezza delle loro zeppe (anche 50 cm)!

Una evoluzione della Ganguro è la Pandagaru (sotto), nome ben chiaro vista l'assomiglianza con l'orsetto in via di estinzione. L'hobby preferito dalle Cogaru è il ballo è precisamente un tipo di ballo che si chiama Para Para! Si fa muovendo le mani soltanto (ripeto: con quelle zeppe ogni movimento è impossibile). Esistono centinaia di mosse diverse in cui atteggiare mani e braccia. Come al solito i Giapponesi catalogano tutto, dai Pokémon alle mosse del Para Para. Per saperne di più avevo intervistato Tomoko Tagaki, che già una volta mi accompagnò in una puntata di Kitchen, dove si presentò in kimono.

Tommaso Labranca: Come si balla il Para Para?

Tomoko Takagi: Para Para si balla con mani. Solo con le mani perché si balla velocissimo, devi muovere mano velocissimo.

Tommaso Labranca: Bisogna essere distanziati quando si balla?

Tomoko Takagi: No, movimenti sono molto piccoli. Però Para Para devi muovere velocissimamente. Esistono taaanti mosse

Tommaso Labranca: Sono mosse codificate o se ne possono inventare?

Tomoko Takagi: Mmmhhh... si può inventare, ma c'è modo di ballare.

Tommaso Labranca: Che musica accompagna il ballo del Para Para?

Tomoko Takagi: Musica che accompagna Para Para è un po' techno e musica veloce, qualcuno inventa queste musiche.

Tommaso Labranca: Musica prodotta in Occidente o in Giappone?

Tomoko Takagi: Anche Europa. O Giappone. Se è musica giapponese devi essere molto giappo. Molto idoru! Un po' anni Sessanta.

Tommaso Labranca: Cosa significa Cogaru?

Tomoko Takagi: Co significa bambino, garu significa ragazza. Ci sono tante scale: Magogaru (da 13 a 15 anni), Cogaru (da 15 a 18), poi da 18 a 24 non mi ricordo e da 24 a 30 sono One-sanke.

Tommaso Labranca: Come si diventa una ragazza Para Para?

Tomoko Takagi: Se vuoi entrare in questa società devi vestire come loro, se non entri tu fai normale. Se sei Cogaru devi truccare come Cogaru e comprare vestiti in centro.

Tommaso Labranca: E gli uomini? Possono entrare nel mondo del Para Para?

Tomoko Takagi: Devi essere fidanzato Cogaru. Fidanzato Cogaru è come Cogaru. Si chiama Cima. Cima è tipo non vanno scuola, oppure qualcuno vanno dopo scuola a Shibuya, città per giovani, fumano tanto anche fumano marijuana, poi loro vogliono fare qualcosa nuovo, sempre inventano. Poi fanno Nampa... come si dice? Uno dice: Ah come sei bella...andiamo a prendere caffè...

Tommaso Labranca: Tacchino? Tomoko Takagi: Eh?

Tommaso Labranca: Esistono concorsi di Para Para?

Tomoko Takagi: I concorsi di Para Para sono difficili molto. Bisogna avere pazienza! Adesso ci sono tante videocassette che insegnano fare Para Para. I ragazzi comprano e dopo scuola ballano due tre ore. C'è corso di Para Para, paghi 30mila lire all'ora e tu balli.In televisione ci sono trasmissioni sul Para Para. Ballano, poi c'è un programma di Para Para, loro cercano chi è più bravo a ballare Para Para e chi vince va a New York a studiare danza perché adesso in Giappone c'è moda di imparare danza.

Viola Simoncioni

Molti di voi avranno riservato un angolo del proprio cervello, un tabernacolo mentale, a una icona degli anni Ottanta, una graziosa bambina dai lunghi capelli che per un certo periodo ha allietato la nostra televisione: Viola Simoncioni. Come non ricordarla sul palco di Sanremo nel 1983, al fianco di Pippo Baudo. Poi quella bambina si è ritirata momentaneamente dalle scene, come la Garbo, come Grace Kelly, come Marisa Allasio. Molti si saranno chiesti dove sarà mai finita... ebbene, io ho incontrato Viola Simoncioni e lei in occasione del nostro incontro mi ha omaggiato di un dono preziosissimo: una copia del suo 45 giri Uffa uffa Richicò, del 1983.

Tommaso Labranca: Grazie del regalo, sono davvero commosso... il disco però salta.

Viola Simoncioni: Come salta?

Tommaso Labranca: Salta, verso la fine inizia a saltare e non si ferma più, ma è un documento eccezionale lo stesso. Quante copie te ne restano?

Viola Simoncioni: Ne avevo tre, adesso ne ho due, ma non ho potuto davvero fare a meno di regalartelo.

Tommaso Labranca: Ti confesso che non conoscevo questa canzone.

Viola Simoncioni: Non sei l’unico. Eppure l’ho presentata a Sanremo nel 1983. Perché, tengo a precisare, io ho presentato il Festival nel 1983 insieme a Pippo Baudo.

Tommaso Labranca: Quello me lo ricordo. Sono stato l’unico a riconoscerti quando mi sei riapparsa davanti in un casting. E forse ti ho scelto proprio per quel motivo: perché avevi respirato l’aria che avvolgeva Pippo e che per osmosi ti ha comunicato doti di conduttrice. Ma ricordo che non eri sola. C’era anche un’altra bambina.

Viola Simoncioni: Sì, Isabella Rocchietta.

Tommaso Labranca: Quella dell’acqua...

Viola Simoncioni: No, l’acqua è Rocchetta, senza i...

Tommaso Labranca: Intendevo dire, quella della pubblicità dell’acqua Panna.

Viola Simoncioni: Ma quella ero io!

Tommaso Labranca: Oh scusa. Ma è vero che avevate girato le immagini di quello spot in Sud Africa perché là c’era una luce particolare?

Viola Simoncioni: Assolutamente no. Abbiamo girato nella villa del regista. Un pazzo che lavorava solo al tramonto per motivi di luce e così siamo dovuti restare in quel posto una settimana, visto che non si girava per più di mezz’ora al giorno. Un incubo.

Tommaso Labranca: E la Rocchietta dov’è?

Viola Simoncioni: Abita qui vicino. Ma non l’ho più vista. Sai com’è... certe rivalità nascono da piccole.

Tommaso Labranca: Torniamo al disco. Com’è nato?

Viola Simoncioni: E’ successo tutto durante Fantastico 4... Tommaso Labranca: Alt! Vuoi dirmi che hai fatto anche Fantastico 4? Questo mi sfugge...

Viola Simoncioni: Certo! L’ultimo Fantastico trasmesso da Milano, dal leggendario TV3 di corso Sempione. C’erano Gigi Proietti, Heather Parisi e Teresa De Sio...

Tommaso Labranca: Un trio esplosivo, ma cosa ci faceva la De Sio?

Viola Simoncioni: Cantava...

Tommaso Labranca: E tu?

Viola Simoncioni: In origine io avrei dovuto solo fare un momento della trasmissione, la Ginnastica Fantastica, delle lezioni di ginnastica, appunto, con Heather Parisi.

Tommaso Labranca: Be’, già questo da solo sarebbe stato un momento formidabile! Una cosa che ti può cambiare la vita!

Viola Simoncioni: Sì, ma poi il regista Enzo Trapani ha pensato che avrei potuto fare di più; così facevo un po’ di tutto, leggevo le lettere.

Tommaso Labranca: Sarai diventata ricca!

Viola Simoncioni: Mi davano la paga sindacale di 70.000 lire a puntata! Comunque, tra gli autori di quella trasmissione televisiva c’era anche Silvio Testi, anzi Silviotesti perché quando scrive usa questo pseudonimo tutto attaccato.

Tommaso Labranca: Quello della Cuccarini! Ma hai lavorato con dei mostri sacri! Che invidia...

Viola Simoncioni: Eh be’... Silvio Testi ha l’idea di farmi incidere un pezzo che aveva scritto con Marcello Casco (che lavorava sempre con Costanzo) e Fio Zanotti (che oggi produce Anna Oxa).

Tommaso Labranca: Un trust di cervelli! Ma cosa vuol dire il titolo Uffa uffa Richicò?

Viola Simoncioni: Richicò è un mio amico immaginario, un papero con il quale io mi sfogo quando la mamma diventa troppo invadente. Se segui il testo lo capisci e si sente anche la voce del papero. Sai chi è?

Tommaso Labranca: Non oso fare supposizioni.

Viola Simoncioni: Pino Quartullo. Anche Quartullo era in Fantastico 4 come giovane della scuola di recitazione di Proietti e quando ha saputo che dovevo incidere quella canzone ci ha detto: Io so fare benissimo la voce del papero. In effetti quando si infilava un dito in bocca imitava perfettamente la voce del papero.

Tommaso Labranca: Con il dito in bocca? Viola Simoncioni: Sì, riusciva solo così.

Tommaso Labranca: Vuoi dire che se si fosse slogato il dito avrebbe avuto la carriera stroncata?

Viola Simoncioni: Quasi.
Tommaso Labranca: Cosa ricordi della registrazione?

Viola Simoncioni: Nulla. Non ricordo assolutamente nulla. Mi sembra sia durata pochissimo.

Tommaso Labranca: Cosa hai fatto con i soldi guadagnati con il disco?

Viola Simoncioni: Sono stata a Londra con mia mamma.

Tommaso Labranca: Ma non posso credere che tu abbia dimenticato tutto.

Viola Simoncioni: Ricordo solo la signorina della PolyGram che mi seguiva. Era venuta anche a Sanremo e la mattina mi faceva alzare alle 9 per andare in spiaggia. E mia mamma che diceva: Ma la lasci dormire. Stasera dovrà tirare mezzanotte.

Tommaso Labranca: Non ricordi nemmeno la session fotografica per la copertina?

Viola Simoncioni: Quella foto faceva parte di un servizio fotografico che avevo fatto per un giornale. Alla PolyGram l’avevano vista e l’avevano scelta. Anche perché così non avrebbero pagato per una foto nuova.

Tommaso Labranca: Questo 45 giri è stato un episodio isolato della tua carriera musicale?

Viola Simoncioni: Oh no! Dopo ho inciso un altro brano, mai apparso in 45 giri, ma solo su una compilation della serie Bimbo Mix. Non ricordo il numero... Il pezzo si chiamava ABCD... ET, con chiaro riferimento extraterrestre. E dopo ancora ho inciso una sigla per una trasmissione di Rete A, So follow a key, ma questa non ha mai avuto l’onore del vinile.

Tina Porcelli

Un dialogo disneyano di rara efficacia, qui nella sua versione inedita.

Tina: Caro Tommaso, il tuo diario sul sito mi piace perché mi ricorda le storie della serie Il diario di Paperina.

Tommaso Labranca: Cara Tina, anche a me piaceva tanto Dal diario di Paperina!!! Mi piacevano anche Malachia, Brigitta, Dinamite Bla. Ma soprattutto Paperinik, quando ancora era Paperinik e non PK. Ho un vecchio classico di Walt Disney dal titolo: Paperinik contro Paperinika. Una delizia.

Tina: Ahhh quella Paperinika con cipria e rossetto armi letali e gli occhiali a farfalla che pensavo di essere l'unica a ricordare! Mi è venuta voglia di cercare, chissà dove, nella soffitta illecita tra sporco e scatoloni quei vecchi topolini che devono esserci da qualche parte! Ma tu ti ricordi anche le mitiche Emy Evy Ely? e Paperetta Ye Ye? E quell'antesignano rivale di Pippo con Clarabella (prima di Orazio) che stava sempre al bar a bere una specie di frullati alla banana?(mannaggia il nome non mi viene proprio)

Tommaso Labranca: Da grande mi sono poi sempre chiesto di che vivesse la papera col fiocco visto che divideva la sua vita tra comitati di beneficenza e shopping. Comperava a credito tipo a babbo morto, anzi a zio (Paperone) morto? Si prostituiva nottetempo nella vicina Anatropoli dove nessuno la conosceva (ma una sera Gastone, che faceva spesso il puttan tour a Ocopoli, decise di cambiare città e la vide)? Giocava in borsa via Internet anche quando Internet ancora non c'era? Mah...

Tina: Io so che Paperina un po' ha provato a fare la casalinga ma con Paperino e i nipotini insieme era un disastro e gli ha detto ciaociao e si è trovata casa da sola. Un po' ha gestito un lupanare

con emievieli con Paperone magnaccia, ma era troppo avido e si prendeva tutto. E’ anche rimasta incinta di Gambadilegno e il commissario Basettoni l'ha aiutata ad abortire senza che lo sapesse Topolino antiabortista ciellino che voleva arrestarla. Il feto abortito Paperina lo conserva in vaso tra le ciliegie sottospirito a ricordo imperituro. Poi ha fatto per un po' la papera delle pulizie in topless perché era pagata di più, infine ha scoperto il lavoro interinale come segretaria in un istituto di dame di beneficenza ricche che gli lasciavano una superba mancia se portava anche fuori i cani bassotti e puliva con paletta. Una volta l'hanno anche presa a fare la giornalista ma era disastrosa con l'ortografia allora Archimede ha inventato il primo palm correttore automatico. Ha fatto l'attrice (era la controfigura che prendeva gli schiaffi), l'insegnante di ginnastica, la venditrice di biancheria intima specializzata in perizoma, l'impiegata a Mediaset, la cassiera all'Esselunga. nessuno le ha mai versato i contributi e non ha una pensione integrativa, così ha stretto un patto col diavolo per restare giovane.

Tommaso Labranca: Sei informatissima. E degli altri cosa sai?

Tina: Una notizia riservatissima! Paperino ha recentemente confessato a Nonna Papera (che si è strappata tutti i capelli) di essere gay e che l'amore della sua vita è Gastone (attualmente iscritto alla lega perché pensa che il verde gli doni). Qui, Quo e Qua, traumatizzati, hanno tentato il suicidio. Paperoga si è sposato con Clarabella e Orazio l'hanno preso alle selezioni del Grande Fratello 2. Paperoga è dirigente di banca. Rockerduck, dopo una serie di investimenti sbagliati, l'hanno assunto a contratto a tempo da Claudio, la pescheria dei milanesi. Lì ha subito il mobbing e ha denunciato la proprietaria ma non gli hanno creduto. Brigitta fa il dj a radio popolare e si è fidanzata con Ringo dopo che l'ha mollato la Casalegno. Minnie, dopo che Topolino è diventato amico di Formigoni, per ripicca è diventata l'amante di Rutelli. Vive a Roma nello stesso palazzo di Nicoletti e quando lo incontra, in ascensore, fanno delle interminabili conversazioni sul più famoso critico italiano dei salmoni trash.

Andrea Beaumont

Una intervista tratta da un numero di TrashWare (forse il 4), la trashzine che ho pubblicato per 10 numeri dal 1992 al 1994. Ne è protagonista una simpatica receptionist di un motel del lodigiano.

Tommaso Labranca: Buonasera.

Andrea Beaumont: Buonasera

Tommaso Labranca: Lei è la signorina?

Andrea Beaumont: Giovann...

Tommaso Labranca: No, devi inventarti un nome.

Andrea Beaumont: Ah... Andrea Beaumont. Che domande fa anche tu... Lo sai che il mio nome d’arte è quello!

Tommaso Labranca: E come si scrive Bomon? Andrea Beaumont: Andrea B-e-a-u-m-o-n-t. (bip)
Tommaso Labranca: Lei dove lavora?

Andrea Beaumont: In Lombardia.
Tommaso Labranca: Sì, ma il suo compito qual è? Andrea Beaumont: Sono receptionist in un albergo. Tommaso Labranca: Soltanto albergo?

Andrea Beaumont: No, c’è anche un motel.

Tommaso Labranca: C’è anche un motel. Ben frequentato, immagino.

Andrea Beaumont: Sì, abbastanza.
(bip)
Tommaso Labranca: Questi bip mi uccidono... Andrea Beaumont: Cosa sono i bip?

Tommaso Labranca: E’ il segnale che la segreteria telefonica sta registrando. Mi diceva che è abbastanza ben frequentato. Lei ne vede quindi di cotte e di crude.

Andrea Beaumont: Sì, abbastanza. Più cotte che crude. Nel senso che le vedo entrare crude e poi le vedo uscire cotte.

Tommaso Labranca: Ah, capisco. Dunque il suo intervento termina sulla porta della camera da letto.

Andrea Beaumont: Non esattamente. Io mi limito a consegnare le chiavi alle coppie. Poi si arrangiano loro.

Tommaso Labranca: Non nasce in lei il desiderio di seguirle? (bip)

Andrea Beaumont: No, più che altro avrei il desiderio di ascoltarle stando dietro la porta.

Tommaso Labranca: Le è mai capitato di farlo?
Andrea Beaumont: No, non posso lasciare il posto di lavoro.

Tommaso Labranca: C’è qualche sotterfugio per poterlo fare? Corridoi nascosti, porte segrete...

Andrea Beaumont: Sì, è possibile. (bip)

Tommaso Labranca: Lei dunque legge anche i nomi sulle carte di identità.

Andrea Beaumont: Certo.

Tommaso Labranca: Sono molti gli sposati?

Andrea Beaumont: Sono una buona media.

Tommaso Labranca: Grandi corna, dunque.

Andrea Beaumont: Alla grande. E in fatto di corna... diciamo che il mio stipendio si basa sulle corna altrui.

Tommaso Labranca: E’ vero che in ogni camera del vostro motel come atto trasgressivo avete messo una foto del cardinale Ratzinger?

Andrea Beaumont: No.

Tommaso Labranca: Che servizi offrite ai vostri clienti?

Andrea Beaumont: A parte il videoregistratore e il frigobar in camera, è disponibile un bar in reception che è quasi sempre chiuso.

(bip)

Tommaso Labranca: E’ normale che nei motel vi sia un videoregistratore?

Andrea Beaumont: No, noi siamo tra i pochissimi in Lombardia a fornirlo.

Tommaso Labranca: E gli altri?

Andrea Beaumont: Gli altri nelle stanze hanno direttamente la tv a circuito chiuso. O i finti specchi.

Tommaso Labranca: Oltre al videoregistratore penso offriate anche delle cassette.

Andrea Beaumont: No, quelle no. Cioè abbiamo delle cassette, ma non sono quelle che regolarmente mi chiedono i clienti. Quelle devono portarsele da casa.

Tommaso Labranca: Ma secondo lei, il mercato delle corna sta conoscendo una flessione ultimamente?

Andrea Beaumont: Assolutamente no. Prosegue sulla sua autostrada bella liscia.

Tommaso Labranca: Quindi nonostante tutto ciò che dice la Chiesa, le corna prosperano.

Andrea Beaumont: Prosperano e fanno prosperare.
(bip)
Tommaso Labranca: Lei si è mai servita di queste strutture? Andrea Beaumont: Sì

Tommaso Labranca: Concorrenti naturalmente. Andrea Beaumont: No, anche dove lavoro.

Tommaso Labranca: Lei, parlando delle sue esperienze personali, che cosa apprezza e che cosa critica di queste strutture?

Andrea Beaumont: Criticare quasi niente. Anzi, niente direi. Apprezzare... la discrezione, che in alcuni casi esiste. E poi la comodità, quando non si hanno appartamenti propri o in prestito.

Tommaso Labranca: A proposito dei prezzi, non trova che queste strutture siano un po’ troppo care?

Andrea Beaumont: Be’, alcune sì. (bip)

Tommaso Labranca: Non sarebbe il caso di avviare dei mutui, dei leasing...

Andrea Beaumont: No, ma c’è in giro la proposta di fare delle tessere, come quelle del telefono o dell’autostrada, a scalare... Dopo un tot di presenze scatta la camera-omaggio.

Tommaso Labranca: Interessante. Ma naturalmente non è obbligatorio consumare tutta la tessera con lo stesso partner.

Andrea Beaumont: No, no! Viene rilasciata a una persona e basta. Poi se viene con altri 27 partner diversi sono affari suoi.

Tommaso Labranca: Tra i suoi clienti ha più uomini o più donne?

Andrea Beaumont: Più uomini. Ho sette coppie gay maschili clienti fissi.

Tommaso Labranca: La tariffa è la stessa? Andrea Beaumont: Certo.
(bip)

Tommaso Labranca: Rapporti orgiastici?

Andrea Beaumont: Sì. Ci sono quelli che si portano il terzo nascosto dentro il portabagagli. Sa, quando si è in tre o in più di tre si devono prendere due camere. A volte nel portabagagli ci sono nascoste due persone.

Tommaso Labranca: Addirittura. E lei come se ne accorge? Andrea Beaumont: Basta vedere come è inclinata la macchina.

Tommaso Labranca: Lei da quanto tempo non si serve di queste strutture?

Andrea Beaumont: Lo devo propri dire che è dal primo di gennaio? E per di più ero dalla concorrenza.

Tommaso Labranca: Cosa fa lo Stato per aiutare il mercato delle corna?

Andrea Beaumont: Mah... l’unico gesto apprezzabile è stato l’aumento delle dimensioni dei profilattici. Anche perché con l’influenza del Vaticano... Lasciamo perdere.

(bip)

Tommaso Labranca: E’ mai venuto qualcuno che le sembrava un prete o una suora?

Andrea Beaumont: Per la verità alcuni hanno di queste facce. Poi sembra che proprio questi siano i più scatenati nelle camere. Almeno stando a quanto dicono le governanti.

Tommaso Labranca: Cosa trovano le governanti delle camere?

Andrea Beaumont: Di tutto. Ci sono quelli che mangiano in camera e altri che non usano nemmeno la doccia. Altri non stropicciano nemmeno il letto.

Tommaso Labranca: Lo fanno sulla moquette?

Andrea Beaumont: No, non c’è la moquette. Lo faranno sull’alphatone delle pareti.

Tommaso Labranca: Che percentuale avete di professioniste? Andrea Beaumont: Non bassa. Diciamo un 30%.

Tommaso Labranca: Voi non siete di quelli che forniscono il copriletto?

Andrea Beaumont: Purtroppo no. Anche se c’è una forte richiesta. E io ogni volta dico: Signore, noi forniamo il letto. Il copriletto deve portarselo lei.

(bip)

 

Santina La Gioia

Ancora un’intervista tratta da TrashWare. Le interviste erano fatte a persone che avevano avuto esperienze assurde con vip o presunti tali. Questa simpatica ragazza calabrese aveva preso parte a un film, mai uscito, con Riccardo Fogli.

Tommaso Labranca: Buongiorno signorina La Gioia. Santina La Gioia: Buongiorno.
Tommaso Labranca: Ci possiamo dare del tu? Santina La Gioia: Sì, certamente.

Tommaso Labranca: Entriamo subito nel caldo clima dell’intervista con la prima domanda. Quando hai conosciuto Riccardo Fogli?

Santina La Gioia: Nel maggio del 1992. Tommaso Labranca: In quale occasione

Santina La Gioia: Durante le riprese del film Dov’era lei a quell’ora. Tommaso Labranca: Quali sono state le sue impressioni su

Riccardo come cantante e come attore?

Santina La Gioia: Come cantante è discreto. Come attore è pessimo, manca di spontaneità.

Tommaso Labranca: Tu hai girato con il Fogli una delle scene più importanti del film. Ce la potresti descrivere?

Santina La Gioia: La scena si svolge interamente sui binari della linea ferroviaria calabrese Praia-Aieta-Tortora. Riccardo deve partire, sale sul treno in cerca di persone caratteristiche che gli

ricordino la sua infanzia e la sua adolescenza, vissute anni prima in Calabria. Trova però una ragazza moderna, cioè io, si rassegna e si addormenta, sognando i personaggi che avrebbe voluto trovare. Questo sogno è così reale che a un certo punto, scosso dalla visione di una ferita infetta e purulenta sulla gamba di un ragazzo, Riccardo si sveglia, ritrova la ragazza moderna e se ne va.

Tommaso Labranca: Quanto è durata la scena in termini di ripresa?

Santina La Gioia: Una giornata intera.

Tommaso Labranca: Lavoro stressante?

Santina La Gioia: Abbastanza.

Tommaso Labranca: Questo film è stata la tua prima esperienza cinematografica? O avevi già lavorato con altri attori?

Santina La Gioia: E’ stata la prima.

Tommaso Labranca: Com’è Riccardo Fogli da vicino?

Santina La Gioia: Vecchio e brutto.

Tommaso Labranca: Le tue amiche sono state gelose del fatto che avessero scelto proprio te per quella parte nel film?

Santina La Gioia: Un po’ sì.
Tommaso Labranca: Riccardo Fogli come mito?

Santina La Gioia: No. C’era soltanto l’emozione di far parte di un cast cinematografico.

Tommaso Labranca: Una sera so che sei stata a cena con Riccardo e il regista. Cos’ha mangiato il Fogli?

Santina La Gioia: Zitoni al sugo, dentice al forno e insalata. Tommaso Labranca: Chi ha pagato la cena?
Santina La Gioia: Il regista.
Tommaso Labranca: Cos’hai guadagnato da questa esperienza? Santina La Gioia: Niente.

Tommaso Labranca: Ti hanno almeno pagata?

Santina La Gioia: No.

Tommaso Labranca: Cosa faceva il Fogli tra una ripresa e l’altra?

Santina La Gioia: Stava sempre con il cellulare all’orecchio. Telefonava in continuazione.

Tommaso Labranca: Quando vedremo questo film al cinema? Santina La Gioia: Mai.
Tommaso Labranca: Perché?

Santina La Gioia: Il regista ha litigato con Riccardo per questioni di cuore. Forse corna. Pareva che la moglie del regista avesse avuto una relazione con il Fogli con conseguente ritardo nel ciclo.

Tommaso Labranca: Come si chiama il regista? Santina La Gioia: Non ricordo. E’ uno alle prime armi. Tommaso Labranca: Lavoreresti ancora nel cinema?

Santina La Gioia: Sì, ma non con Riccardo Fogli. Tommaso Labranca: Grazie.
Santina La Gioia: Prego.

Raul Montanari

Covers è una raccolta di testi che a lungo è stata recitata da Nove, Scarpa, Montanari in giro per l’Italia.

Tommaso Labranca: Cos’è Covers?

Raul Montanari: Come quasi tutti sanno, nel rock una cover è un pezzo di un cantante o di un gruppo riproposto da un altro cantante o gruppo. "Satisfaction" dei Rolling Stones rifatta a un ritmo isterico dai Devo, per esempio, è una cover [e come dimenticare la cover di "Satisfaction" fatta da Raffaella Carrà nell'album "Scatola a sopresa" che sfociava poi in un mix con "Romagna mia"? n.d.L.]; oppure l'incredibile versione live di un vero inno degli anni '60, "Light My Fire" dei Doors, tradito e massacrato felicemente dai Massive Attack in Protection. Normalmente in una cover il testo e la melodia rimangono invariati, mentre a cambiare sono l'arrangiamento, il ritmo, i colori timbrici. Dato che Tiziano Scarpa, Aldo Nove e io non siamo musicisti ma scrittori, abbiamo preso una quarantina di canzoni inglesi, francesi e tedesche dell'ultimo trentennio (e oltre) e abbiamo lavorato solo sulle parole, generando dei testi poetici che non hanno più niente dell'originale. Sono testi autonomi, nati a volte semplicemente dalla suggestione del titolo della canzone, altre volte dalla sua atmosfera, o da quei pezzetti di cantato che ci ronzano nella testa, quelle parole che sfuggono dalle maglie della melodia e si capiscono, spesso confusamente, in una canzone non italiana. Direi anzi che è proprio per questo che non abbiamo usato canzoni italiane. Nella performance ci alterniamo: uno va al microfono e interpreta il suo testo, gli altri due smanettano sul mixer e sul lettore cd mettendo sotto, come base, proprio la canzone originale nella sua interezza, e regolando i volumi. Il risultato è davvero sorprendente.

Tommaso Labranca: Chi ha avuto l'idea?

Raul Montanari: E' stato un caso rarissimo di suggestione telepatica. A tre, per di più. Uno ha detto una parola, uno un'altra, il terzo ha aperto un nuovo file di Word, e nel giro di poche ore il progetto era pronto... e anche i primi testi.

Tommaso Labranca: Quali pezzi avete scelto?

Raul Montanari: Mi viene più facile dire quali gruppi: abbiamo spaziato dal rock progressivo al punk, al dark, al pop da hit parade. Quindi Pink Floyd, Genesis, Bauhaus, Aqua, Police, Massive Attack, Lou Reed, David Bowie, Talking Heads, Einstuerzende Neubauten, Air, gruppi techno di cui non ricordo il nome, Nirvana, Suicide, Morcheeba, Bjork, Tuxedomoon, Cure, ecc. Menzione speciale per un trio di fuori quota come Armstrong & Fitzgerald, Billie Holiday e Charles Trenet, che fra l'altro credo sia il cantante preferito del futuro presidente del consiglio dei ministri [uno dei suoi preferiti. La canzone che ama di più e canta spesso è "Mon île" di Henri Salvador n.d.L.]; . Supermenzione per il nostro gruppo di culto: i Kraftwerk. Non solo ciascuno di noi tre ha fatto una cover dei Kraftwerk, ma il libro è dedicato a Ralf Hutter e Florian Schneider.

Tommaso Labranca: La scaletta è fissa o mobile?

Raul Montanari: Ci sono 2-3 pezzi a testa ormai di una tale affidabilità che difficilmente rinunciamo a farli. Siccome di solito ne performiamo 5 ciascuno, ne rimangono altrettanti per la cui scelta ci lasciamo ispirare dalle facce del pubblico, dal luogo, dal momento. Dalla voglia di fare esperimenti.

Tommaso Labranca: Dove vi esibite?

Raul Montanari: Covers è uno spettacolo molto semplice dal punto di vista tecnico: al limite basterebbe un radioregistratore con lettore cd incorporato, più la voce. Perciò è possibile farlo

dappertutto e l'abbiamo fatto dappertutto. Metterei ai due estremi il Teatro Sociale di Brescia, un teatro d'opera con 700 posti gremiti in cui le prime covers hanno visto la luce quasi un anno fa, fra incidenti di ogni genere, e la biblioteca civica di Lovere, dove effettivamente avevamo solo un radioregistratore. La performance è venuta bene in tutti e due i casi.

Tommaso Labranca: Quali sono le reazioni del pubblico?

Raul Montanari: Con rarissime eccezioni, è entusiastica e molto gratificante per noi. La combinazione fra poesia e musica, che qui viene proposta non usando la musica come semplice colonna sonora ma in un rapporto molto intimo e "necessario" con i testi, crea un impasto emozionale davvero unico. Non a caso siamo molto provati, alla fine della performance. Aggiungerei che Covers non è uno spettacolo "per giovani": abbiamo avuto spettatori di ogni età.

Tommaso Labranca: E quali sono state le reazioni dei santoni letterari?

Raul Montanari: Aspettiamo che esca il libro e ci sarà da ridere. I titolari delle rubriche letterarie che si occupano di recensire libri di poesia stanno già arrotando le mannaie.

Tommaso Labranca: Il libro come sarà?

Raul Montanari: Questo è il punto. All'Einaudi hanno preso la cosa estremamente sul serio; invece di puntare su un'operazione pop hanno giudicato i testi autonomamente validi, al di là di questo loro originario rapporto con la musica, e stanno per pubblicarli nella famosa collana "bianca" di poesia, che è un po' come dire nel salotto buono della poesia italiana e non. Quindi i testi saranno giudicati per quello che sono. D'altronde nelle Scritture si dice che per le nostre parole saremo giudicati... non per le nostre musiche. Il libro si chiamerà "Nelle galassie oggi come oggi", un distico di Aldo Nove tratto da una delle cover. Uno zoom micidiale che ci ha fatto impazzire.

 

Tracy

Tracy era una ballerina americana che girava nella casa di Different Opinion nel 1993. Questa breve, ma succosa intervista, è stata realizzata proprio in quel luogo e in quell’anno dopo che avevo saputo che Tracy aveva ballato in qualche programma televisivo con Sergio Japino. L’intervista, realizzata in collaborazione con B.lo Nardini, è apparsa in origine su Trashware 6.

Tommaso Labranca: Tracy, è vero che Japino esiste? Tracy: Sì, forse è vero.

Tommaso Labranca: Allora Tracy, quando ti si è presentata davanti Raffaella Carrà, l’hai trovata sexy?

Tracy: Sì. E’ un po’ dubbio. Seconda pregunta.

Tommaso Labranca: E’ vero Tracy che senza trucco Raffaella Carrà è irriconoscibile?

Tracy: E’ troppo.

Tommaso Labranca: Ma è vero che Japino esiste?

Tracy: Tes, I really have to say yes! He does. Ah ah.

Tommaso Labranca: E quindi ha un corpo fisico, tattile...

Tracy: Ah, I don’t know. Raffaella sa meglio che io.

Tommaso Labranca: Ma quindi non ti è successo di toccare o di essere toccata da Japino.

Tracy: El Pino a me.
Tommaso Labranca: Ti ha toccata durante il lavoro? Tracy: Sì, abbiamo un cambio de corpo.

Tommaso Labranca 44

Tommaso Labranca: Un cambio de corpo? In che senso? Tracy: En que me ha del giro.
Tommaso Labranca: Ti ha girato?
Tracy: Altro posto.

Tommaso Labranca: Ed è stato corretto con te professionalmente?

Tracy: Mmmmhh... può, sì perché en questo momento io non capito niente di italiano y era la unica manera de comunicare. Do you think I have a pedo* muy grande adesso?

* Pare sia un termine gergale latino-americano che indica uno stato di confusione mentale in seguito all’assunzione di sostanze blandamente stupefacenti.

 

PlayStation

Nell’estate del 2000 Severino Cesari decide di realizzare un marchettone con la Sony e avvia la pubblicazione per ADN Kronos Libri di un monumentale “Grande libro della PlasyStation” che contiene la presentazione di tutti i giochi usciti fino a quel momento per la PSX1, alcuni interventi di noti scrittori e una serie di interviste a presunti vip sul loro rapporto con la PSX. Dopo aver cercato di far realizzare queste interviste a diverse persone, senza ricavarne particolare entusiasmo, il Cesari si rivolse a me. Io, per soldi, accettai e mi attaccai al telefono per tre giorni. So che è difficile a credersi, ma sono stato pagato un tot a vip.

Sbaglia chi crede che nel mondo dei giocatori di PlayStation si debba distinguere solo tra amanti del picchiaduro e appassionati della strategia. La vera distinzione sta nell’uso della preposizione. Ci sono, infatti, quelli che dicono: Io gioco con la PlayStation e quelli che affermano Io gioco a PlayStation. I primi sono individui adulti, razionali, dotati di senso della misura (oltre che di nozioni grammaticali più approfondite). Chi dice con lo fa sottolineando il distacco tra l’uomo e il giocatore. Penso con la testa, mangio con le posate, gioco con la PlayStation. L’essere umano è al centro di questo universo di strumenti e questa posizione di padronanza degli oggetti è ben espressa dall’uso del complemento strumentale.

Dire io gioco a PlayStation non sarà magari corretto, ma si rifà direttamente a certi modi di dire infantili. I bambini, infatti, propongono giochiamo a mamma oppure giochiamo a guerra e con quella a intendono una uscita dal proprio corpo e l’assunzione di una nuova personalità, quella della genitrice o quella del soldato, per esempio. Chi gioca a PlayStation lo fa abbandonando se stesso e diventando parte integrante della macchina. Chi dice a cancella ogni confine tra uomo e giocatore, trascende ogni umanità e diventa PlayStation così come i bambini diventano mamma o guerra quasi senza strumenti, ma solo con la fantasia. La PlayStation non è in questo caso uno strumento di svago, di divertimento, di fuga dalla realtà. In quei momenti, per chi gioca a, la PlayStation diventa l’unica realtà possibile.

Sono giunto a questa profonda riflessione dopo aver ascoltato le confessioni telefoniche di decine di personaggi famosi che con la PlayStation hanno un rapporto di dedizione, desiderio, repulsione, ma mai di indifferenza.

Sbagliando, all’inizio ho proceduto un po’ a intuizione. Così ho pensato che per primo avrei dovuto chiamare Paolo Brosio, inviato televisivo a vari livelli, poiché univa tutte le caratteristiche che cercavo: agone sportivo, una buona dose di stupore infantile e tenacia nel perseguimento degli obiettivi. Telefono.

Tommaso Labranca: Ti disturbo?
Paolo Brosio: No, sono in vacanza e non sto facendo nulla.

Tommaso Labranca: Posso farti due o tre domande sulla PlayStation?

Paolo Brosio: Su cosa?

Tommaso Labranca: La PlayStation Sony, la console, quella in cui si mettono certi dischi simili ai CD, ma neri...

Paolo Brosio: Ah, quella cosa che ci giocano i bambini... cosa volevi chiedermi?

Tommaso Labranca: Lasciamo perdere, ciao.

Ecco, nella vita mai procedere per intuizioni, né per stereotipi. Quali bambini? La PlayStation rappresenta un mondo trasversale e intergenerazionale. Il numero di adolescenti e di over- trentacinquenni appassionati di PlayStation è praticamente identico e identica è la passione con cui ci si impegna nel gioco. Ne ho avuto la prova durante le seconda, e più fruttuosa, telefonata. Ho chiamato Davide Civeschi, musicista del gruppo Elio e le Storie Tese.

Tommaso Labranca: Tutti gli Elios giocano?

Davide Civeschi: No, non tutti. Gli appassionati siamo solo il tastierista e io. Gli altri però, pur non essendo iscritti al partito della PlayStation sono dei calorosi simpatizzanti. Io forse sono il giocatore più esagerato, al punto che a volte mi tocca fare autotraining per uscire dal tunnel della PlayStation. Ma sono momenti di breve durata. Gioco soprattutto di notte, per ore. Mi dico: ‘Ancora cinque minuti e smetto...’ poi invece vado avanti. E intanto mi ripeto: ‘Basta, riposa... domani sarà una giornata pesantissima, come farai a svegliarti?’ Niente... continuo.

Tommaso Labranca: Sei un giocatore notturno e solitario?

Davide Civeschi: No, non sempre, perché gioco spesso con mio fratello. E lì abbiamo davvero superato ogni limite: abbiamo collegato due PlayStation (non due joypad, due PlayStation intere!) per giocare a Red Alert. Giocando in due c’è in più l’elemento competizione umano contro umano. Prima quando ero in giro per suonare sentivo la mancanza dei giochi. Allora mi sono organizzato con il tastierista e abbiamo montato un televisore sul pullman. Adesso in viaggio giochiamo usando un alimentatore che trasforma la corrente a 12 V della batteria in corrente a 220 V. Gli altri membri del gruppo ci guardano e per fortuna capiscono.

Tommaso Labranca: A quali giochi ti dedichi?

Davide Civeschi: Preferisco i giochi di strategia ai picchiaduro, anche se di questi ultimi me ne hanno regalati parecchi e li ho provati. Sono particolarmente orgoglioso di aver finito Metal Gear Solid in due giorni!

Tommaso Labranca: Complimenti. Io non sono andato oltre i primi dieci minuti... So che hai due figli, c’è competizione con loro per l’uso della PlayStation?

Davide Civeschi: Non diretta. Mi spiace però che loro non abbiano a disposizione i giochi che avevamo noi da piccoli, il Lego in particolare. Quello tradizionale, intendo, non quello con i chip che

si vende oggi. Così a volte li stacco dai videogiochi e gli faccio fare altro...

Tommaso Labranca: Tipo?
Davide Civeschi: Mah, faccio vedere loro un documentario...

Credo che Davide lo faccia solo per poter usare indisturbato la PlayStation.
Il contrario succede invece in casa di Marco Giusti, critico cinematografico e autore televisivo, che lascia la PlayStation alla prole e si ritira sconfitto a visionare un’opera minore del regista Anthony Dawson.

Marco Giusti: Ci provo, cerco di giocare al calcio, ma sono un incapace totale e vengo regolarmente umiliato dalle mie due figlie che sono di una abilità spaventosa.

Tommaso Labranca: Quanti anni hanno le bambine? Marco Giusti: Una 8 e l’altra 13 anni.

Tommaso Labranca: E tu ti fai stracciare da due ragazzine di quell’età?

Marco Giusti: Veramente succedeva anche quando ne avevano 5 e 10.

Umiliazioni brucianti: questo forse è uno dei motivi per cui molti padri di famiglia preferiscono affettare una dignitosa nostalgia per i bei giochi dei miei tempi, quelli che si facevano per strada con gli amici...

Comunque in tanti casi la nostalgia per i giochi della propria infanzia non è una posa, ma un sentimento sincero e condiviso da molti, come ha dimostrato anche il conduttore televisivo Tiberio Timperi.

Ho chiamato Timperi dopo averlo visto in uno spot. Alle spalle di una casalinga preoccupata per il candore della sua biancheria si

formava un alone di luce che poi prendeva le sembianze del Timperi. Siccome sembrava una scena tratta da Tomb Raider – L’ultimo bucato ho pensato: Magari Timperi gioca con la PlayStation.

Sì, ci gioco moltissimo, è stata la confortante risposta. Ma sempre con quella degli altri. Io non lo posseggo ancora. Così mi installo a casa di un mio amico giornalista che ha anche due giochi fantastici. Il primo è un simulatore di volo. L’altro invece è un viaggio in cui si parte dalla Terra e si deve arrivare sulla Luna per contrastare un virus.

Tommaso Labranca: Inquietante. A vederla in televisione sembra così compito e poi si trasforma in un Astolfo tecnologico...

Tiberio Timperi: E mi piacciono molto anche le simulazioni delle gare di Formula Uno

Tommaso Labranca: Ma si è dotato anche di pedaliera e volante?

Tiberio Timperi: Non ancora. Ma mi piacerebbe tanto... confido in un regalo per il prossimo Natale, un pacchetto completo. In realtà il bello di avere trentacinque anni e di aver mantenuto questa passione per il gioco è che si hanno i soldi per soddisfare tutti i desideri che si avevano da adolescenti. Si è quindi doppiamente felici. Io mi sono ricomperato anche la pista delle macchinine. E anche il Lego, quello originale. E persino l’enciclopedia dei Quindici, quella che si riconosceva anche al buio per l’odore che aveva. Mi manca solo una cosa. Vorrei trovare l’Allegro Chirurgo.

Tommaso Labranca: Ma guardi che si trova facilmente, io l’ho già comperato.

Tiberio Timperi: Sì, ma una versione per PlayStation...

Mmmhhh... allettante. Timperi ha ragione quando dice mantenere la passione del gioco e non ritrovare. Dedicarsi alla PlayStation non significa tornare a una dimensione ludica che magari si era

dimenticata. Non è un guardare al passato, ma è una evoluzione di quelle che erano le passioni dell’adolescenza. Ma è anche possibile salire all’improvviso sul treno della PlayStation, anche senza una anamnesi di dipendenza videoludica. Questo è quanto è capitato alle cantanti Paola & Chiara.

Tommaso Labranca: Ragazze sapete cos’è la PlayStation, come funziona?

(insieme): Guarda che non siamo così arretrate o fuori dal mondo. Siamo sempre attaccate al PC, navighiamo moltissimo in Rete, abbiamo anche un nostro sito. E giochiamo pure con la PlayStation.

Tommaso Labranca: E’ tanto che giocate?

(Paola): Poco. Da un paio di anni. Prima quando andavamo a casa di amici e a un certo punto qualcuno accendeva la PlayStation, noi iniziavamo a lamentarci e a dire: ‘Ecco adesso chi li stacca più!’. Poi un giorno che eravamo a Londra, non mi ricordo nemmeno come mai, siamo entrate al Trocadero. Abbiamo iniziato a giocare con tutti i giochi che c’erano e ne siamo uscite solo a sera inoltrata.

(Chiara) E poi appena tornate in Italia abbiamo comperato la PlayStation.

Tommaso Labranca: Due o una sola?

(Paola): Una sola, ma con due joypad. Giochiamo una contro l’altra. Quelli sono gli unici momenti in cui non siamo unite, ma rivali. A volte è una gara impari perché abbiamo qualità diverse. Chiara, infatti, ha i riflessi più pronti, mentre io capisco immediatamente la strategia di un gioco.

Tommaso Labranca: Credete che essere appassionate di videogiochi costituisca un motivo di attrazione in più in una ragazza agli occhi di un ragazzo?

(insieme): Assolutamente no! Il videogioco è ancora un regno maschile e i ragazzi nelle ragazze cercano altro (hanno anche specificato cosa, ma non mi sembra il caso di ripeterlo, ndr), cercano il mondo reale che è diverso da quello immaginario e fantastico che trovano nella PlayStation.

Un esempio lampante di quest’ultima affermazione di Paola & Chiara è rappresentato da DJ Angelo, conduttore di Ciao, belli! su Radio DeeJay. Di lui si dice che consumi i suoi amplessi mettendo in pausa la PlayStation, quasi a distinguere il mondo irreale del gioco da quello reale delle ragazze. Angelo non conferma, ma da quanto mi racconta potrebbe anche essere probabile.

Sono un giocatore formidabile per capacità e resistenza. Addirittura al punto che dopo un po’ i giochi mi sembrano troppo facili, li lascio perdere e inizio ad aspettare le nuove versioni. E se non sono molto più difficili delle precedenti mi incazzo di brutto.

Tommaso Labranca: Quali sono i giochi che ti coinvolgono di più?

DJ Angelo: I miei giochi preferiti sono quelli sportivi. Due su tutti, il calcio e la Formula Uno. Mi piace dilatare i tempi. Quando gioco con i simulatori di Formula Uno, inizio un Gran Premio, poi quando mi stanco faccio una sosta ai box. Solo che metto in pausa e la sosta dura anche una o due ore. Nel frattempo faccio la doccia, vado al bar sotto casa e sto un po’ con gli amici. Al ritorno riprendo il gioco da dove lo avevo lasciato. Visto che è una realtà virtuale ne approfitto.

Tommaso Labranca: Giochi di notte?

DJ Angelo: Gioco più spesso al pomeriggio. La notte torno a casa troppo tardi dalla discoteche dove faccio le serate. Ho provato a giocare un po’ a notte inoltrata, ma mi addormento con la manopola in mano. E sogno tutta la notte incidenti sulle piste di Formula Uno. Così preferisco giocare quando sono più lucido.

Ma serve davvero lucidità per giocare con la PlayStation? E se sì, come si spiega il fatto che tra i giocatori più accaniti vi sia anche Bruno del duo comico Fichi d’India, assolutamente incomposto, illogico e incompiuto nell’aspetto asimmetrico e nella sintassi scoppiettante?

Bruno: Io gioco tantissimo, all’eccesso. Al punto da compensare anche l’indifferenza dell’altro, Max, che invece si perde con i computer. Io da solo gioco così tanto che è come se giocassimo tutti e due.

Tommaso Labranca: Ma come hai scoperto questa passione divorante?

Bruno: L’ho scoperta per caso, quando mi hanno regalato la PlayStation. Non sapevo nemmeno cosa fosse. Quando l’ho portata a casa e l’ho accesa ho avuto dei problemi, poi ho beccato subito Crash Bandicot 1. Il primo, che per me è il migliore. Come i film di Fantozzi. Il primo è stupendo. Comunque mi ha preso subito ‘sto coso! Poi mi sono comperato tutte le riviste con i demo. Io sono sempre stato negato con i videogiochi. Ti ricordi quello con il gorilla che andava su e giù?

Tommaso Labranca: Donkey Kong.

Bruno: Ecco, già lì ero negato. Al bar avrò speso sei miliardi non ho mai vinto un cacchio. Non andavo mai dopo il primo livello. Con la PlayStation l’unico problema è che nelle riviste trovo i codici. Un po’ ho resistito, ma poi non ce la facevo, volevo finire Crash Bandicot, ho inserito i codici e ho rovinato il gioco.

Tommaso Labranca: Visto che il tuo collega Max non sa giocare, tu che fai? Giochi da solo?

Bruno: Io ho un figlio di nove anni anche lui preso di brutto dalla PlayStation, così facciamo le gare. Ma lui mi batte. Adesso siccome è in vacanza e io sono a casa da solo, mi sto allenando e

a settembre quando torna lo distruggo. A me piace vincere, ma lui è sgamato, va più forte.

Tommaso Labranca: Con che tipo di giochi sfoghi la tua mania distruttiva?

Bruno: Mi piacciono molto le piattaforme. Avevo scoperto su un demo un giochino giapponese di un gruppo che si chiama Net... boh, hanno un nome che non mi ricordo. Ma sono giochini di piattaforma o strategia. Il fatto è che giro dappertutto, ma non lo trovo da nessuna parte. Poi casualmente ho scoperto che quello contenuto nel demo era il gioco completo.

Tommaso Labranca: Cerca di ricordarti che gioco era.

Bruno: Gem gold... gem rose... mah... era il gioco di uno che va sottoterra, ci torva le gemme e i sassi. Era difficilissimo, ho visto anche gli altri livelli: un disastro! Ma il guaio è che poi l’ho perso! Non trovavo più il CD ed ero disperato perché a quel tempo non facevo che giocare con quel gioco. Ho ricominciato a comperare tutte le riviste e alla fine sono stato fortunato: ho trovato una raccolta di tutti i giochi della net-come-si-chiama e c’era anche quello! Ma vai! L’ho recuperato!

Tommaso Labranca: Cosa pensa tua moglie di questa tua passione?

Bruno: Le donne non capiscono queste cose, non apprezzano i giochi, ma è meglio così. Perché pensa ad avere una moglie che invece di fare i mestieri a casa passa il giorno a giocare!

Al fine di smentire questa affermazione molto poco femminista di Bruno dei Fichi d’India, ho deciso di chiamare anche qualche esponente del gentil sesso. Ho quindi telefonato alla nota star radiotelevisiva Platinette.

Tommaso Labranca: Platinette, sto realizzando delle interviste per un libro sulla PlayStation...

Platinette: Modeeerna!

Tommaso Labranca: Grazie. Siccome le ragazze che giocano e che mi hanno risposto sono state pochine finora, avevo pensato a te, ma non so se ho fatto bene...

Platinette: Metti in dubbio la mia femminilità?

Tommaso Labranca: Veramente metto in dubbio il tuo essere ragazza.

Platinette: Non mi offendo mica! E’ vero, sono una vecchia e non voglio assolutamente apparire una giovincella mettendomi a giocare con quelle cose lì! L’elettronica è un guaio! Una sciagura per l’umanità! (traduzione: muoio dalla voglia di giocare, ma sono una schiappa totale...). Ho provato a fare anche le cose con il computer, mi sono messa a chattare, ma preferisco i rapporti più intimi (traduzione: ho conosciuto uno di Pavia che in chat si era descritto come Apollo e dal vivo sembrava Pan).

Tommaso Labranca: Platinette, francamente credo che il tuo dichiararti paleolitica sia una posa snob...

Platinette: Assolutamente no! Sono felice di essere vecchia! La tecnologia è come un golfino di Benetton: prima ti fa sentire allegra e colorata, ma dopo una settimana non ne puoi più! E poi star lì con quel coso in mano (il joypad, ndr), con quella forma così strana...

Tommaso Labranca: Basta così, grazie. Vedi che sei bugiarda? Dici che non giochi e poi conosci tutti i dettagli della PlayStation. Per me lo fai solo per invidia verso eroine come Lara Croft che hanno un corpo che tu ti sogni di notte.

Platinette: Uuh! Quella! Finta! La chiami donna? E’ l’Elogio Altisonante del Trans! Io invece sono una Donna Concreta e propugno il ritorno alla natura! Viva la campagna! Viva l’aia! Viva il pollame...

Clic.

In realtà c’è chi davvero non gioca con la PlayStation, ma lo fa con la morte nel cuore. E’ il caso dello stilista Elio Fiorucci.
Purtroppo ho sempre così poco tempo che non riesco a fare tutto ciò che vorrei. Mi perdo un sacco di meraviglie, lo so. Mi piacerebbe navigare in Internet, ma quando? Sono forse l’unico non-giocatore di PlayStation che ne è profondamente appassionato. Mi entusiasmano i colori, le storie, la fantasia dei giochi e il fatto che tutto sia chiuso in quei supporti di memoria così piccoli e anonimi. In realtà mi affascinano tutte le cose elettroniche, tutte le cose nuove. Bisognerebbe davvero disporre di una doppia vita. Se avessi un’altra esistenza parallela la dedicherei in gran parte anche alla PlayStation.

Un altro irrefrenabile amante della tecnologia è l’attore Francesco Paolantoni. Lui però è anche praticante. Si dice che abbia ha una casa ipertecnologica, che possegga tutti i decoder possibili, nove televisori, di cui due al plasma. Il suo nome è in cima alla liste delle prenotazioni della PlayStation 2.

Francesco Paolantoni: Non sono schiavo della PlayStation, però. Ci gioco quando sono a casa, a Napoli. Di solito gioco fino allo stremo, fino a quando raggiungo il limite fisico e mentale...

Tommaso Labranca: E dici di non essere schiavo!

Francesco Paolantoni: Ma so quando fermarmi. Anche perché di solito nei giochi non vado mai avanti più di due o tre livelli. Poi inserisco i codici e vado avanti rapidamente. Non ne mai finito un gioco completo.

Tommaso Labranca: Non sei paziente.

Francesco Paolantoni: Per nulla. Anzi non mi piacciono nemmeno i giochi di riflessione, dove bisogna risolvere degli enigmi troppo complicati. Mi piacciono i giochi veloci, rapidi, con molta azione. I giochi da fare con gli amici, possibilmente. Di certi giochi ho anche organizzato dei tornei. L’abbiamo fatto con Resident Evil 3 e 4.

Tommaso Labranca: E dei giochi che compri e non finisci che ne fai? (Penso: magari li butta e me li spedisce.)

Francesco Paolantoni: Li tengo. Li metto via e li riprendo dopo un po’. (Acc... ndr.) Adesso sto giocando a Medievil 2, sono arrivato al 5° livello, ma tra poco smetto. E poi tra un po’ magari lo riprendo.

Tommaso Labranca: Senti Francesco, tu sei napoletano...

Francesco Paolantoni: Non cominciamo con questa storia... cosa vuoi dire? Che uso i giochi taroccati? No, io compro sempre giochi originali, appena escono. Sono sempre il primo a comperarli. Non mi fare arrabbiare che se no per sfogarmi devo attaccarmi alla PlayStation e giocare tutta la notte a Tekken 3!

Io in realtà volevo chiedergli come, essendo napoletano e quindi immerso in una forte tradizione, riuscisse a unire il passato alla tecnologia... Ma lasciamo perdere. Meglio andare negli Stati Uniti dove il rapporto tra tradizione e tecnologia è a netto favore di quest’ultima e quindi ho più probabilità di trovare donne appassionate di PlayStation. Chiamo allora la showgirl Justine Mattera e centro il bersaglio!

Justine Mattera: Sono una grande giocatrice. Mi piace molto PlayStation (gli americani non usano l’articolo per la PlayStation, però poi dicono the Internet, mah... ndr). Tutte le volte che vado in casa di amici e vedo che la hanno li costringo a giocare. Gioco a volte anche da sola, ma con gli amici è meglio. Mi piacciono i giochi vecchio stile, soprattutto le corse di automobili e il calcio.

Tommaso Labranca: Scusa, tu non la possiedi?

Justine Mattera: No, sono sempre in viaggio e non potrei giocarci spesso. Spero che arrivi presto PlayStation portatile. Per ora uso quelle che trovo sugli aerei e nelle stanze d’albergo.

Tommaso Labranca: Dove?

Justine Mattera: Negli Stati Uniti, in tutti gli alberghi le camere hanno PlayStation.

Tommaso Labranca: Non ti senti a disagio? Non è strano per una ragazza essere appassionata di PlayStation?

Justine Mattera: Ma scherzi? Non è mica strano che una ragazza gioca con PlayStation. Dipende dalla donna, certo. Io sono di quelle che giocano e che giocano per vincere. Per me la cosa più importante è dimostrarmi più forte del computer. Amo vincere. Contro un computer o contro le persone.

Bella affermazione. Ecco la strada da prendere: chiamare donne forti che di sicuro giocano con la PlayStation. Telefono alla cantante Loredana Bertè.

Tommaso Labranca: Loredana, sapevo che passavi la notte sveglia a guardare i vecchi film sulle televisioni locali, ma non immaginavo giocassi con la PlayStation.

Loredana Bertè: E’ che non ci sono più film di notte... solo aste, vendite, maghi... allora meglio giocare.

Tommaso Labranca: Ma come hai cominciato?

Loredana Bertè: E’ stato Renato (Zero, ndr) a passarmi il vizio... Quando sto a casa sua lui è sempre attaccato alla PlayStation;

anche 25 ore di seguito... e io gli dico ‘Basta, o almeno abbassa il volume che c’è una musichetta che mi fa saltare i nervi’.

Tommaso Labranca: Una musichetta come quella che si sente in sottofondo?

Loredana Bertè: Eh sì, sto a gioca’ anche adesso.

Nota: io fantastico molto sulla vita di Loredana e invidio il suo splendido isolamento. Adesso me la vedo a notte fonda che gioca per ore con Lara Croft, che in fondo ha la sua stessa grinta nell’affrontare la vita e, anche quando perde, è sempre la più forte perché può ricominciare da capo.

Ma che Tomb Raider. Io gioco sempre con gli stessi giochi di Renato con le formiche, le coccinelle, i pupazzi che saltano dappertutto.

Tommaso Labranca: Ma tu giochi con Zero? Lo batti? E’ davvero bravo?

Loredana Bertè: E chi lo batte quello? Ma perché non lo chiami tu e non glielo chiedi?

Facile a dirsi. Intanto c’è un problema. Quando si parla con Renato Zero, come ci si deve rivolgere? Dirgli Signor Zero è un po’ imbarazzante. Signor Renato fa un po’ droghiere. Quindi, pur con il rispetto dovuto da parte di un sorcino, lo chiamo Renato, ma gli do del lei.

Tommaso Labranca: Renato, anche se sulle prime non ci credevo, ho saputo che lei gioca spesso con la PlayStation.

Renato Zero: E perché incredulo? Che c’è di strano? Io gioco spesso, anzi spessissimo con la PlayStation. Non la spengo mai. A volte la metto in pausa, scendo in studio a registrare un passaggio, poi ritorno e ricomincio a giocare.

Tommaso Labranca: Che giochi preferisce?

Renato Zero: Eh, mi piacciono i giochi che sono simili ai cartoni animati. Tarzan, Bugs Bunny, Hercules... più sono colorati e più mi piacciono. I giochi sono fantasia, non realtà o violenza. Non gioco mai a quelli tipo picchiaduro, non mi piacciono i giochi in cui sparano e nemmeno quelli dove ci sono personaggi troppo simili alle persone vere. Il più movimentato tra i giochi che preferisco è Crash Bandicot, ho tutta la serie dall’uno al quattro.

Tommaso Labranca: Un mondo idilliaco.

Renato Zero: No, non mi disturba anche un po’ d’azione. Per esempio mi piace molto giocare con Gran Turismo e con altri giochi di auto. Mi piace quando i veicoli si urtano e si rovinano e ci vogliono i soldi per ripararli.

Tommaso Labranca: Ma gioca di notte?

Renato Zero: No, gioco quando capita, ogni volta che mi è possibile. E’ per questo che sono diventato non un buon giocatore, ma un giocatore eccezionale!

I giocatori eccezionali, per propri ammissione o per nomina da parte degli amici, sembrano essere parecchi. Tra questi si fa con insistenza il nome dell’attore Corrado Guzzanti.

Tommaso Labranca: Girano voci insistenti sulla sua abilità come giocatore di PSX.

Corrado Guzzanti: Voci infondate, non sono quel mostro che dicono. Però gioco da molti anni e ho almeno l’esperienza dalla mia parte. Ho cominciato con Space Invaders, oggi magari fa la figura di un giochino rozzo. Ma è proprio l’aver vissuto questo passaggio verso la perfezione, questa continua sofisticazione che è andata dalla bidimensionalità alla tridimensionalità che non mi ha fatto perdere l’entusiasmo verso i giochi. Un adolescente di

oggi sarà patito, ma un trentenne lo è di più proprio perché ha visto crescere e migliorare il mondo parallelo del videogame.

Tommaso Labranca: Questa è dedizione, non semplice passione.

Corrado Guzzanti: E’ che io gioco parecchio con la PSX, a volte anche per necessità. Due anni fa ho fatto una tournée teatrale che mi ha portato anche in piccole città dove l’unica attrazione era il nostro spettacolo. Non c’era niente da fare, soprattutto di notte. Così mi sono portato dietro la PSX e ci giocavo in albergo.

Tommaso Labranca: Da solo?

Corrado Guzzanti: Non gioco mai da solo, sempre con amici o con chi mi segue nelle torunée. I giochi così sono più coinvolgenti. Siccome preferisco le simulazioni sportive, calcio in primo luogo, è meglio giocare contro un avversario umano che da soli contro la macchina. Però mi appassionano anche scenari di spionaggio, i giochi che uniscono azione e meditazione.

Tommaso Labranca: Niente spari, botte o simili?

Corrado Guzzanti: Ci sono dei momenti in cui mi viene una tensione particolare, quando magari devo scaricare i nervi e allora l’unica soluzione è giocare a Tekken. Mi spiace che sia diffusa questa idea del videogioco violento. In realtà è una valvola di sfogo molto utile. Un canale attraverso il quale si possono scaricare frustrazioni e tensioni che altrimenti potrebbero sfociare in cose più pericolose.

La vita riserva davvero delle sorprese. Uno crede che dietro la PlayStation si perdano solo ragazzini, rapper e vj, invece... Il conduttore televisivo Andrea Pezzi, per esempio, conferma quanto la realtà sia diversa dagli stereotipi mentali.

Andrea Pezzi: Gioco poco con la PlayStation. Me l’hanno regalata anni fa, per un po’ ci ho giocato, anche molto, poi non ho più avuto tanto tempo per farlo. Credo si debba giocare con moderazione.

Chi gioca troppo con la PlayStation è come se entrasse poi in un mondo a parte, diverso da quello della realtà. E’la stessa alienazione che colpisce chi guarda MTV tutto il giorno.

Tommaso Labranca: Ti stai parlando contro!

Andrea Pezzi: Ma io ho cercato di lottare contro la figura del vj alienante e stereotipato. Il vj spesso è finto, è davvero come un personaggio di un gioco per PlayStation: prevedibile nelle mosse, manovrato. I giovani spesso non capiscono questa cosa e finiscono per identificarsi con il vj-stereotipo, creando un nuovo stereotipo.

Tommaso Labranca: Sono sconvolto. Mi hai tracciato uno scenario senza speranza.

Andrea Pezzi: La speranza sta nell’uso creativo della macchina, sia della tv sia della PlayStation. Quando guardo la televisione e vedo una cosa che mi piace o addirittura mi entusiasma, mi viene voglia di fare, allora spengo e metto giù un progetto per un programma che mi è venuto in mente. La stessa cosa mi capita con la PlayStation. Mentre gioco inizio a pensare e i colori, i movimenti, lo svolgimento mi aiutano a farmi venire nuove idee.

Tommaso Labranca: Alla fine, dunque, giochi anche tu. Ma a cosa?

Andrea Pezzi: Soprattutto a giochi in cui c’è la possibilità di sfidarsi uno contro uno. I giochi di calcio, in particolare. Sono più vicini alla realtà, meno alienanti.

A riequilibrare le cose provvede Andrea Pellizzari, autore e conduttore radiotelevisivo, che si dichiara totalmente perso per la PlayStation.

Andrea Pellizzari: Ci gioco troppo. Me l’ha regalata mio fratello perché sapeva che sono un appassionato di videogiochi. Anche

se non sono mai stato un mostro di bravura. Mi affascinano. Quando conducevo Los Quarentas su Italia Network nella mia mente svolgevo il programma con una sequenza da videogioco radiofonico.

Tommaso Labranca: Totalmente rovinato...

Andrea Pellizzari: Pensa che quando avevo 12 anni i miei un’estate mi mandarono a Brighton a imparare l’inglese. Ho passato quasi tutto il tempo nella sala giochi. Figurati quando è uscita la PlayStation che il videogioco te lo porta a casa, senza bisogno di gettoni, senza quello dietro che spinge perché vuole giocare... un paradiso e poi si usano più dita.

Tommaso Labranca: Che intendi dire?

Andrea Pellizzari: Una volta mi sono scorticato il pollice a furia di premere sul pulsante di un videogioco.

Tommaso Labranca: Impressionante. Che gioco era?

Andrea Pellizzari: Non mi ricordo, ma doveva essere come i giochi che preferisco anche sulla PlayStation, quelli dove ci vuole manualità, precisione nel tiro. Adesso sono perso per Streetfighter. Ho persino battuto uno dei più grandi campioni di PlayStation, che poi nella vita abita a Riccione e fa il parrucchiere. In attesa della PlayStation portatile uso il Palm V, ho scaricato dei giochi da Internet, come gli scacchi o dei solitari con le carte. Pur di non restare senza giocare quando sono in viaggio.

Tommaso Labranca: E con la PlayStation quando giochi?

Andrea Pellizzari: Gioco di notte, anche perché ho il televisore sul letto e la PlayStation vicina. Mi perdo con Wipeout tutta la notte, tenendo il volume al massimo perché la colonna sonora mi piace troppo. Proprio a quella musica devo poi alcuni favolosi momenti non propriamente romantici con una mia expseudofidanzata cui stavo cercando di insegnare come si gioca.

Chi invece non sopporta la colonna sonora di Wipeout, ma proprio per niente, è un musicista: Max Gazzè.

Max Gazzè: Il gioco mi piace, ma la musica non la reggo e così gioco con il volume abbassato.

Tommaso Labranca: Mi hanno detto che sei un ottimo giocatore e che ti alleni con una costanza da atleta.

Max Gazzè: Non è vero, non gioco tantissimo. E quando lo faccio mi dedico a giochi rilassanti, come gli scacchi elettronici, al massimo l’automobilismo. Non riesco a seguire giochi troppo movimentati, le azioni troppo repentine, i colori violenti mi danno il mal di testa. Al massimo gioco con Tomb Raider perché ha degli scenari molto belli, salgariani quasi, permettono di sognare.

Tommaso Labranca: Anche tu, come tanti altri tuoi coetanei, hai la passione della PlayStation. Sai che c’è anche chi se ne vergogna e non vuole farlo sapere in giro. Tu invece?

Max Gazzè: Io non mi vergogno assolutamente. E’ un mezzo ideale per isolarmi e riposare la mente. D’altronde non rinuncio nemmeno alle autopiste o ai trenini. Il gioco fa parte della vita dei bambini e anche degli adulti. Io ho anche un altro hobby ludico: andare sui kart. Mi aiuta a sfogarmi, mi fa conoscere altri mondi che non siano quelli della musica e della composizione. Non si può fare sempre la stessa cosa. La PlayStation aiuta a cambiare. Ed è molto meglio della televisione.

Tommaso Labranca: E, se te lo chiedessero, di che gioco vorresti comporre la colonna sonora?

Max Gazzè: Sicuramente di un gioco di staticità. Che so, una cosa tipo Real fishing, il gioco della pesca.

In attesa che anche in Italia si commissionino colonne sonore di videogiochi agli artisti c’è chi ha fatto un’operazione contraria: ha usato immagini di giochi per PlayStation per accompagnare la propria musica. A farlo sono stati i ragazzi di Gente Guasta, che fino a poco tempo fa si chiamavano O.T.R. Per tutti parla Esa.

Esa: Abbiamo girato un video per un nostro pezzo che si chiamava Lotta armata. C’era bisogno di scene di azione, di guerriglia che forse sarebbero state troppo costose da girare per un video autoprodotto come il nostro. Così abbiamo avuto questa idea: metterci dentro pezzi di Tekken 3. Quel gioco ha delle presentazioni grafiche straordinarie, così abbiamo chiesto il permesso ai produttori che ce l’hanno accordato. Dopo anche altri hanno cercato di fare lo stesso, ma non hanno più autorizzato nessuno. Il nostro video ha colpito, anche se non faceva parte del solito circuito di britnispirs e boibbend lo hanno passato pure a MTV. Di notte.

Tommaso Labranca: Ma Tekken lo conoscevate già?

Esa: Noi siamo sempre attaccati alla PlayStation e Tekken 3 è il gioco che condividiamo tutti, anche quelli che non sanno giocare, perché basta schiacciare a caso per pestare. Con i più esperti si gioca a calcio o a giochi legati allo sport. Quando vogliamo dimostrarci per quei deviati che siamo allora ci buttiamo sulle Micromachines che è già un gioco idiota, ma facendolo tutti insieme riusciamo a raddoppiare l’idiozia. E poi ci sono i giochi dello skate, come Skateboarding o Skate & Destroy che sono più reali del reale.

Tommaso Labranca: Come mai molte band rap come la vostra, o comunque impegnate, pur scagliandosi spesso contro il mainstream alla fine cedono al fascino di un prodotto di sistema come la PlayStation?

Esa: Fare sempre i freak è impossibile. E poi visto che la PlayStation è legalizzata ci diamo alla dipendenza.

All’ultimo stadio di dipendenza da PlayStation, ma anche da tv in genere, è arrivata La Pina, rapper e conduttrice radiofonica, sorellina dei Gente Guasta con cui prende parte alle sedute di Tekken.

La Pina: Sono quella che chiamano quando anche quelli bravi finiscono nei guai con il Tekken, allora mi rollano e divento la capra del Tekken, perché sanno che quando mi metto a spippolare con la PlayStation sono terribile. (Io mi limito a trascrivere quanto rilasciato, n.d.r.)

Tommaso Labranca: Faresti la meraviglia di molti altri che ho intervistato e per i quali donne e PlayStation sono due mondi inconciliabili.

La Pina: Ma che antichi... che tristezza...

Tommaso Labranca: Ma fai solo la risolviproblemi o giochi in maniera metodica?

La Pina: Io gioco spesso. Dopo i concerti quando torniamo in albergo ci attacchiamo alla PlayStation e giochiamo insieme a calcio o a Formula Uno per tutta la notte. E poi gioco anche quando sono a casa. Il mio preferito è Crash Bandicot 1, ma mi do alla bruttura anche con PacMan, uguale a quello che c’era tanti anni fa, che passa nei labirinti e mangia quello che trova. Ci vado avanti per ore. Ho una resistenza incredibile davanti al video. Mi faccio anche 15 ore di televisione, tra PlayStation, canali satellitari e videocassette registrate. Sai che dove vado io ho noleggiato talmente tante cassette che mi hanno dato la tessera gold? Però c’è Giuliano (Palma, dei Casino Royal e ora anche dei Bluebeaters, n.d.r.) che è peggio. Lui gioca a Gran Turismo e lo fa attaccando la PlayStation a due televisori messi vicini, così vede l’azione su doppio schermo.

Tommaso Labranca: Un raffinato cultore!

La Pina: Ai limiti della follia. Ma lo sai che lui pensa di averle davvero le auto che compra con Gran Turismo? Magari siamo in giro, passa un macchinone e lui dice: ‘Ehi, io quell’auto ce l’ho!’. ‘Dove?’ faccio io. ‘In Gran Turismo’.

Di fronte a simili eccessi La Pina abbozza anche perché sa cosa vuol dire avere la febbre della PlayStation. Purtroppo questa non è la regola.

Ho perso due morose per colpa della PlayStation. E’ successo nel periodo dal 1994 al 1997 quando ero fossilizzato nei videogiochi. La prima ha provato ad appassionarsi, ma non ce l’ha fatta. La seconda se ne è andata prima ancora di provarci. La triste confessione è del cantante Samuele Bersani, che aggiunge: Ma è colpa mia. Il 1° maggio di qualche anno fa ero andato a Roma a trovare una ragazza francese davvero troppo carina con cui volevo andare a vedere il concerto in piazza San Giovanni. Invece mi sono bloccato per otto ore davanti alla PlayStation.

Tommaso Labranca: Ma quali sono i giochi che hanno il potere di incantarti fino a questo punto?

Samuele Bersani: Un po’ tutti, tranne quelli con sequenze troppo veloci tipo Doom che mi danno la nausea. Gioco però anche ai picchiaduro e a quelli in cui si deve sparare.

Tommaso Labranca: Ma come, tu che sei così dolce e romantico nelle cose che componi e canti ti riveli un giocatore implacabile e violento?

Samuele Bersani: Quando si gioca con la PlayStation si entra in un altro mondo. E poi alle volte si trovano delle scusanti. Per esempio c’è un videogame che si chiama RED LAVONAL in cui diventi un protagonista della resistenza contro i nazisti. Quando ne uccidi uno hai comunque l’alibi di aver ammazzato un cattivo e ti senti dalla parte dei giusti, dei buoni. La violenza di certi giochi è spesso gratuita e mi preoccupa l’effetto che può avere sulle menti di giocatori non troppo maturi. Mi spaventa per esempio la

diffusione dei Pokémon, questi mostriciattoli che si combattono violentemente tra loro. Però penso anche a quando ero piccolo io e mi entusiasmavo per le lotte di Bruce Lee...

Tommaso Labranca: Tu non faresti giocare i tuoi figli alla PlayStation?

Samuele Bersani: Sì invece, permetterei loro di giocare. Ma proprio perché anche io sono un giocatore convinto, conosco i rischi dello strumento. Persino io quando stavo troppo attaccato alla PlayStation di notte avevo gli incubi legati ai giochi. Ma chissà cosa ci sarà in giro quando i miei figli potranno giocare. Magari loro rideranno della PlayStation, la considereranno archeologia, come noi facciamo con i primi videogiochi, tipo la pallina da tennis che rimbalzava contro un rettangolino mobile. Solo che noi conserviamo una specie di tenerezza verso quei vecchi giochi così rozzi.

Tommaso Labranca: Quando questo avverrà, quale gioco avrai di sicuro conservato tra i tanti?

Samuele Bersani: Uno di calcio. Mi piacciono moltissimo i giochi legati al mondo del pallone, sono sempre più realistici.

Se dovessimo fare una classifica dei giochi più amati, finora il calcio batterebbe tutti, soprattutto tra i musicisti. In risposta i calciatori nel tempo libero dovrebbero dedicarsi a giochi musicali come Music 2000 o Fluid. Invece non è così. Si dice che tutti i calciatori giochino invariabilmente con i vari Fifa e che si ispirino a queste esperienze elettroniche per creare le loro prodezze in campo. Tutto ciò è meraviglioso! Dopo anni in cui oziosi artisti si sono domandati se l’arte imita la vita oppure è il contrario, oggi finalmente possiamo dire con certezza che è la vita che imita l’elettronica.

Peccato che i calciatori siano sempre irrintracciabili: o sono in ritiro o si stanno facendo fotografare appoggiati alla fuoriserie appena acquistata o sono sulle spiagge a mostrare addominali e

fidanzate. Ne ho trovati solo due, del Bologna, disturbati durante una cena, ma è stato un vero colpo di fortuna perché hanno cancellato l’immagine monomaniaca del calciatore che vive solo tra palloni, reali e virtuali. Il primo, il portiere Gianluca Pagliuca ha ammesso quasi scusandosi, di non saper giocare con la PlayStation, di essere forse l’unico a non farlo in tutta la FGCI. L’altro, Jonatan (senza h. I genitori si erano ispirati al Gabbiano Livingston, ma l’impiegato dell’anagrafe non aveva fatto inglese alle medie) Binotto, mi ha sconvolto dicendo:

Jonatan Binotto: No, non mi dedico mai ai videogiochi di calcio. Ho 40 videogame, ma nessuno di questi è di tipo calcistico. Resto in ambito sportivo, però. In cima alle preferenze c’è la Formula Uno, seguita subito dopo dal motociclismo. L’importante è che siano giochi di velocità e di azione.

Tommaso Labranca: Ma quando gioca?

Jonatan Binotto: Ci sono momenti in cui gioco per giornate intere, quasi senza staccarmi dal televisore. Altrimenti mi carico PlayStation e tutti e 40 i videogame e li porto con me in ritiro o in trasferta. Fra l’altro divido sempre la camera con il mio compagno di squadra Bia, altro maniaco della PlayStation. Però lui preferisce la serie di Tomb Raider che a me invece non piace. L’unico terreno sul quale ci incontriamo è quello del golf.

Altrettanto difficile da rintracciare quasi quanto un giocatore della Nazionale di calcio è stato anche lo scrittore Niccolò Ammaniti. Numeri inesistenti, telefoni che squillano a vuoto, segreterie su cui si lasciano messaggi destinati a restare senza risposta. Allora provo la carta dell’e-mail:

Da: tommaso labranca <xxxxxxxxx> Risposta: tommaso labranca <xxxxxxxxx> Data: Thu, 13 Jul 2000 12:24:47 +0200
A: <ammaniti@xxxxxxxxx>
Caro N.A.

sto collaborando a un libro sulla PlayStation. Tu ci giochi? Non fare il pigro e scrivimi 5 righe non di più sul tuo rapporto con la scatola grigia... quando giochi, con chi, a che giochi...

Miracolosamente la sera stessa mi arriva la risposta che aspettavo.

Da: ammaniti <xxxxxxxxx>

Risposta: ammaniti <xxxxxxxxx>
Data: Thu, 13 Jul 2000 19:43:11 +0200
A: <tommasolabranca@xxxxxxxxx>
Da quando ho letto che tra poco esce la PS2 non tocco più la PS1. Mi fa orrore e schifo. Mi sembra vecchia, con una grafica vecchia e nauseante. Voglio la PS2, perché è bello spendere, perché se non spendi non sei un uomo, perché se non c'è il DVD che razza di console è? Ci voglio vedere i film e giocare contemporaneamente e la voglio portatile, che sia pure telefonino, che vada in Internet, che funzioni ad infrarossi, con una telecamera che mi spii dovunque, voglio spendere un milione, due, sperò che non troverò mai copie masterizzate, la voglio usare per scaldarci i panini, per friggerci i sofficini, per fa’ godere la mia donna, voglio che... Voglio che... Voglio Morire.

Queste righe mi hanno commosso. Questa è devozione alla macchina! E’ bastata una semplice e-mail per cancellare la depressione che mi prendeva spesso durante questa caccia telefonica al V.I.P. appassionato di PlayStation. Sono spariti tutti quelli che non rispondevano e tutti quelli che ci gioco, ma preferisco non farlo sapere in giro. Tutti quelli che detesto l’elettronica, per me il gioco è fatto di legno e creatività e tutti quelli che ma le sembra che alla mia età io perda ancora tempo con i giocattoli? Nella mia mente sono rimasti solo quelli che a sentire la parola PlayStation hanno avuto un moto di entusiasmo e si sono accesi nel racconto di come giocano, con cosa giocano, con chi giocano. Mi sono reso conto di non essere l’unico a perdersi dietro eroine poligonali, ma di essere invece uno dei tanti adolescenti

irrisolti che sui giochi non metteranno mai una croce sopra. O, se proprio dovranno farlo, insieme alla croce ci metteranno anche il cerchio, il quadrato e il triangolo.

 

 
 

Arles o della fotografia

Ad Arles ci eravamo stati qualche anno fa, all'inizio di gennaio: qui il reportage di quel soggiorno, durante il quale avevamo potuto visitare gran parte dei principali monumenti della città. 
Allora, nonostante gli spettacoli natalizi decisamente originali (bellissime le proiezioni sulle facciate della place de la République) la vita lungo le strade e nelle piazze era praticamente nulla. Niente turisti, pochi negozietti e pochissimi ristoranti aperti.

In agosto la musica cambia, o meglio la fotografia cambia: la place du Forum, deserta in gennaio, in estate viene invasa dalle terrazze dei ristoranti, dal profumo della paella e dai colori che Van Gogh ha reso celebri.

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"La fotografia cambia" in realtà è un'espressione molto più adeguata a questa città di quanto possa sembrare a prima vista.
Ad Arles infatti in estate si svolge il più importante festival di fotografia di Francia: Les Rencontres de la photographie
Creato nel 1969 da fotografi ed appassionati dell'immagine (Lucien Clergue, Jean-Maurizio Rouquette, Michel Tournier, tra gli altri) rappresenta ogni anno l'appuntamento principe per professionisti e amatori e ha fatto di Arles la capitale internazionale della fotografia.

Quest'anno si svolge dal 4 luglio al 25 settembre, ma è soprattutto durante le prime due settimane che avvengono gli eventi più spettacolari: proiezioni notturne nel Teatro Antico, conferenze abbinate a concerti o performance artistiche, passeggiate fotografiche notturne lungo le vie della città, in cui vengono allestiti schermi giganti che ospitano le immagini di fotografi e specialisti.

Durante tutto il periodo del festival circa 60 esposizioni animano siti e location emblematiche di Arles, comprese quelle solitamente chiuse al pubblico, che in estate vivono quindi di nuova vita. 

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E poi stage, atelier, conferenze, dibattiti, sono davvero tanti gli eventi organizzati lungo l'estate.

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Ogni spazio disponibile, anche i più impensati come il tetto di un parcheggio, acccolgono reportage, esposizioni e racconti per immagini.

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In estate tutto ad Arles sembra ruotare attorno a quest'arte: una città e una regione che sembrano nate per essere fotografate rendono così omaggio al linguaggio fotografico e alle sue molteplici espressioni.

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Questa volta eravamo di passaggio, e Arles non ha comunque mancato di deliziare i nostri occhi con i suoi scorci e i suoi colori, ma l'anno prossimo sarà opportuno organizzarsi bene per approfittare un po' meglio di queste giornate speciali.

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La Camargue in libertà - In bici al faro de la Gacholle

Se si ha bisogno di respirare grandi spazi, di avere lo sguardo che si perde all'orizzonte, se si ha voglia solo di silenzio, di solitudine e di immersione completa nella natura non c'è posto migliore del parco naturale della Camargue. E nella fattispecie del suo cuore, la zona attorno all'ampio étang du Vaccarès, che è anche il regno dei fenicotteri. 

L'escursione che vi racconto è quella che dalle Saintes-Maries-de-la-mer percorre la Digue à la mer fino al faro della Gacholle. Qui si può arrivare solo a piedi o in bicicletta, gli spazi sembrano infiniti e ci si sente lontani da tutte le cure del mondo. Qui si scopre il vero delta del Rodano, la sua flora, la sua fauna e la sua atmosfera unica e magica.

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I percorsi consigliatici dal noleggiatore delle bici sono numerosi, noi abbiamo scelto il più breve, soprattutto perché volevamo approfittare
anche del mare. 
Ci siamo diretti quindi ad est, là dove sapevamo che avremmo trovato anche delle belle distese sabbiose. 

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La digue à la mer è stata costruita nel 1859 per proteggere la Camargue dalle incursioni marine. L'acqua tra il mare e gli étangs viene fatta passare attraverso delle valvole chiamate pertuis
Questo passaggio permette oggi di accedere a 20 km di sentieri pedestri e ciclabili nel cuore del delta della Camargue. La circolazione di qualunque mezzo a motore è strettamente vietata e nemmeno i cavalli possono accedervi.

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All'étang de l'Impérial troviamo subito la prima colonia di fenicotteri.

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La Camargue è l'unico posto in Europa dove questi volatili si riproducono, anche se hanno ripreso a farlo solo dalla fine degli anni '70, dopo che avevano smesso proprio a causa della costruzione delle dighe che, riparando i terreni dalle maree salate, avevano anche fatto scomparire gli isolotti su cui erano soliti nidificare.
Da allora è stato messo a punto un vasto programma per proteggere il fenicottero rosa ed offrirgli una residenza comoda. La colonia presente nel delta è eccezionale, si parla di 10.000 - 15.000 coppie ogni anno).

Se la media Camargue, di tipo fluvio-lagunare è l'ambiente delle sansouire, piante caratteristiche di un suolo salmastro, adatto a tori e cavalli, la bassa Camargue fino al litorale è il territorio della vegetazione propria delle paludi e di quella del cordone di dune. 

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Paesaggio emblematico della bassa Camargue, la sansouire è un ambiente in cui la presenza del sale è tale, che solo alcune specie vegetali (salicornie, salsole soda, obione, statici) possono svilupparsi. 
Nel periodo estivo gli affioramenti di sale possono essere importanti e lasciano apparire delle efflorescenze bianche sulla superficie del suolo.

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La nostra meta, il faro della Gacholle, è uno dei tre che furono costruiti in Camargue per evitare i naufragi dovuti all'assenza di rilievi e di contorni precisi come punti di riferimento. Alto 17 metri serve ora come punto di osservazione ornitologica.

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Arrivati qui invertiamo la marcia per prendere il chemin des douanes incrociato poco prima. Qui la sabbia molto compatta permette di arrivare sino al mare: chilometri di spiaggia a perdita d'occhio, sembra di essere nel deserto con tanto di miraggi che moltiplicano gli oggetti all'orizzonte.

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Ma poi arriva il blu del mare, che ci rassicura e ci rilassa, nel silenzio più totale.

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L'acqua è tiepida e piena di pesci, la spiaggia tranquilla che non andresti più via.

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Lungo la foce del Rodano sulla Tiki III

Les Saintes-Maries-de-la-Mer sorge nei pressi della foce del Petit Rhône, il ramo del delta del Rodano che delimita la Camargue (e il dipartimento delle Bouches-du-Rhône e la regione Paca) a ovest. Oltrepassando il corso d'acqua ci troviamo infatti nella cosiddetta Petite Camargue (e nel dipartimento del Gard e nella regione del Languedoc-Roussillon).

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Il Rodano si divide in due rami principali nei pressi di Arles e l'area compresa tra essi è la Camargue propriamente detta, parco naturale regionale dal 1927.

Il fiume, assieme alla garrigue, alle risaie, agli étangs e alle saline, è uno degli habitat fondamentali di questa enorme riserva naturale, la cui flora e fauna appaiono in tutta la loro bellezza anche percorrendola in barca.

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La Tiki III (chissà che fine hanno fatto le prime due) è una simpatica imbarcazione a pale per il trasporto dei turisti. Il suo incedere un po' sonnolento è l'ideale per esplorare le rive del fiume e osservarne gli abitanti, soprattutto la fauna avicola che è qui ricchissima: in Camargue vivono ben 9 specie di aironi, e poi, tra gli altri, egrette, ibis, avocette, sgarze, e numerose specie di anatre e gabbiani.
I fenicotteri meritano un discorso a parte e ne parlerò nel prossimo articolo, in ogni caso lungo il fiume non ce n'è!

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Lungo le sponde del fiume si incontrano invece numerosi cavalli dell'antica razza autoctona -Camargue appunto- il cui pelame diventa bianco dopo i 5 anni di età, e i celebri tori di Camargue, che qui sono allevati in piena libertà.

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La parte meridionale della Camargue, ambiente di passaggio fra terra e mare, è infatti dedicata soprattutto all'allevamento mentre quella più a nord, dominata dell'acqua dolce, è il regno della coltivazione del riso.

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La gita sul battello prevede una sosta presso una manade, per vedere più da vicino una mandria di tori condotti da un gardian con i suoi cavalli.

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I punti di attraversamento del Petit Rhône sono il ponte di Sylveréal, quello di Forques e più a sud il Bac du Sauvage. Qui la traversata si fa a bordo di un traghetto che porta al massimo 8 automobili e che parte ogni mezz'ora.

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Questo è stato anche il punto dove la Tiki III ha invertito la rotta non potendo oltrepassare i cavi che fissano il percorso del traghetto.
Torniamo alla base: le barche e le casette di villeggiatura o dei pescatori ci passano accanto, forti del fatto che siamo noi ad andarcene.

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I gatti invece non ci vanno proprio sul fiume, restano al'imbarcadero, animali assurdi che non sono altro.

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Ritorno alle Saintes-Maries-de-la-Mer

Non sapevamo bene cosa fare dei pochi giorni attorno a Ferragosto in cui volevamo darci un po' di tregua in questa estate difficile. E dovendo scegliere un posto non troppo lontano il mio pensiero assetato di quiete è corso veloce lì, alla Camargue e alla sua capitale.
Alle Saintes-Maries ci eravamo già stati, una volta in pieno inverno (qui l'articolo scritto in quell'occasione con una breve storia e geografia dei luoghi) e una seconda in primavera sotto un discreto vento di mistral.

In estate la città diventa molto più vivace e non ci si può aspettare niente di diverso da terrazze di ristoranti piene di turisti, musica nelle piazze, eventi nell'arena, spiagge movimentate e giochi di bambini.
Anche i gatti escono allo scoperto quando l'aria estiva è permeata di tanti buoni profumini di pesce e paella.

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Ma la Camargue è regione, oltre che di grande cuore, anche di grandi spazi aperti, di natura quieta, di corsi d'acqua pigri, di sentieri sterrati e distese sabbiose, di campi di riso e rustiche garrigue, di animali in libertà e di uomini liberi. E' facile quindi ritagliarsi il proprio angolino silenzioso durante un'escursione o ai bordi di una sonnolenta piscina.

Molti hotel attorno alla città sono stati ricavati da antiche manades (le fattorie con allevamento di cavalli e tori tipiche della regione) e si trovano quindi immersi nella campagna, nella tranquillità più assoluta. Quasi tutti possiedono ancora dei cavalli per le classiche promenades là dove non si può arrivare con mezzi a motore, lungo i rami del fiume, a fianco degli étangs, nella macchia mediterranea o verso il mare selvaggio che si estende a est della città. 

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La chiesa di Notre-Dame-de-la-Mer è il cuore della città, dalla sua terrazza si può godere di un panorama a 360° di incredibile respiro.

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I colori in questa stagione sono pura magia. Quello che regna qui è il rosso, che sia quello del tramonto, quello degli abiti delle gitane o quello della sangria, ha comunque il potere di accendere qualcosa dentro.

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I sapori sono soprattutto quelli del mare, ma non si può mancare l'assaggio delle specialità della zona, come la gardianne de taureau, i piatti di influenza catalana (affettati iberici, paella, fideua) e ovviamente il riso di Camargue. Sangria e vin des sables annaffiano il tutto adeguatamente.

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L'immersione nella natura che questi posti permettono di realizzare merita un discorso a parte. Sul fiume, a cavallo, in bici, in canoa, decidere quale tipo di escursioni fare nel poco tempo a nostra disposizione è stato un vero dilemma.
Ma pas de souci, si può andar tranquilli perché si sa che la Camargue ti premia sempre e comunque.